Tra i sempre più goffi argomenti che gli irriducibili del presidente muovono contro chi, come me, non fa che stupirsi giorno per giorno di quanto sia profondo questo abisso chiamato berlusconismo, ne spicca uno: l'invidia. "Ce l'avete con lui perché siete invidiosi". Riferito, non potrebbe essere altrimenti, ai suoi soldi. L'obiezione, in sé, è povera cosa, come del resto lo sono in genere tutti i tentativi di dialettica pidielliani. Se dovessimo accettare la categoria dell'invidia come metro valido, allora dovremmo anche concludere che tutti i ricchi sono un esempio a cui tendere, deduzione naturalmente falsa e tendenziosa che non mi prendo neanche la briga di confutare con qualche esempio, tanto si tratta di un concetto evidente. Interessante è però notare come l'accusa di invidia - ma dire accusa è dire troppo, dovremmo definirla stentata ripicca e basta - non si basi in realtà su un fattore di merito, se non in senso lato, ma su un dato di fatto tangibile: su un dato cioè di mera quantità. Non importa chi sei, cosa fai e soprattutto come lo fai, ma il quanto fai. L'argomento dell'invidia, cioè, è sintetizzabile in un'unica, spiacevole formula: invidia dei suoi soldi. Vorrei confortare, almeno per quanto mi riguarda, la folta falange dei difensori d'ufficio: l'invidia non c'entra niente. Il fatto dell'invidia dei soldi, semmai, dovrebbe dirla lunga sul perché non sia possibile appellarsi a nessun altro tipo di invidia, tipo quella per la capacità politica, per la cultura, per l'intelligenza, per la saggezza, per l'avvedutezza; tutti quegli ingredienti che, insomma, costituiscono da che mondo è mondo l'armamentario caratteriale grazie a cui uno statista in genere passa alla storia. Non per niente nessuno, credo, si è mai sognato di dare dell'invidioso a un oppositore di De Gasperi o di Churchill o di Adenauer. Tra tutti gli esempi quotidiani di quanto sia deprimente il nostro dibattito pubblico, penso che questo sia uno dei più illuminanti.
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