Da dove sto chiamando


In che direzione procede la letteratura italiana? A che punto siamo? Il romanzo è morto o no? Beh, sono tutte domande a cui francamente non so dare risposta. Mi rendo conto che possa sembrare strano, per il lettore, prendere atto di una dichiarazione del genere in principio di post, ma i fatti sono questi, e proverò a spiegarli brevemente. Se un tempo - diciamo fino a un venticinque, trent'anni fa, più o meno fino ai così detti "narratori selvaggi" - era ancora possibile individuare a spanne delle categorie, o meglio delle scuole, dei filoni entro cui gli autori contemporanei si individuassero, oggi un esercizio del genere non è più possibile. La frammentazione, il post del post moderno, hanno a tal punto diversificato l'offerta, spesso anche smembrandola, da non lasciare più spazio a considerazioni di gruppo o, come si sarebbe detto appunto negli Ottanta, generazionali. Perché non c'è più una generazione, ma tante esperienze diverse, che si cristallizzano in esperienze letterarie altrettanto varie, che in comune hanno a malapena l'anagrafe, o l'ambientazione: il romanzo, visto che di romanzo si parla, si colloca quasi sempre in ambiente cittadino o metropolitano, considerando anche il fatto che la provincia, terreno di caccia privilegiato dei "selvaggi", si è andata a confondere con le estreme propaggini della grande città, stemperandosi in un clima molto più assimilato e omogeneo rispetto ad un tempo.

D'altra parte una considerazione non può non essere fatta: viviamo nell'epoca dell'istant book, e questo dovrà pur significare qualche cosa. Se un tempo i vari Porci con le ali, Boccaloni e via dicendo si inscrivevano in una dinamica contemporanea (e non avrebbe potuto essere altrimenti trattandosi di vissuti "generazionali"), oggi siamo riusciti ad accorciare ulteriormente lo iato che separa il dato empirico dell'esperienza dalla sua metabolizzazione: in altre parole il tempo di digestione di ogni fatto, di ogni evento piccolo o grande, personale o pubblico si è accorciato tanto da faticare a distinguersi dal dato di cronaca. In questo senso la strada che risulta più battuta, in termini di narrativa pura, è ancora quella del genere senza compromessi: il fantasy made in Italy, oppure, in modo secondo me ancora più significativo, il giallo o noir (le tue etichette sono ormai tanto contigue da essere intercambiabili anche se in origine non era così). Il giallo, da Montalbano a tutti gli altri, ha una sua fetta di mercato consistente e tenace, forte di uno zoccolo duro di appassionati e fedelissimi, che vivono il momento della letteratura come una parentesi di pura evasione, di divertimento, in un certo senso di depensamento. Il giallo riassume in sé tanti spezzoni emotivi della vita quotidiana: c'è la descrizione cittadina e borghese che risulta subito familiare al lettore; c'è l'elemento perturbante del delitto e del male (e in quest'ottica la cronaca nera a pioggia diffusa a piene mani dai media finisce per renderci familiare anche il crimine), c'è una vicenda ben delineata in una scansione consequenziale fatta apposta per non intralciare i normali processi deduttivi, e soprattutto c'è un finale. Come dire: il romanzo ha un capo e una coda, cosa che non sempre è sintomo di logicità, se non ad un livello di lettura basico.

Quello che manca, è anche il dato saliente: lo sperimentalismo. Se dagli anni Cinquanta in poi, diciamo per comodità, la letteratura è vissuta su una pluralità di indirizzi che spaziavano dall'esistenzialismo al sotto genere industriale, dalla nascente fantascienza al fenomeno beat e via dicendo in una summa di possibilità impressionante, oggi stiamo assistendo ad un generale stallo, specialmente in Italia ma non solo. La stagnazione, per quanto ho potuto vedere, penso sia dovuta proprio alla mancanza di un collante culturale tra tutti gli scrittori: quelli che potevano essere i denominatori comuni del passato, dalla guerra partigiana alla militanza sessantottina, oggi non ci sono. Le scritture che avanzano sono tante solitudini, portatrici di un tassello che quasi mai combacia con un altro, rendendo di fatto impraticabile la costruzione di un mosaico coerente pur nel rispetto e anzi nella promozione delle diverse sensibilità. Non è detto che sia un male a prescindere: sono per una scrittura, un cinema, un teatro, una cultura della crisi. Ma a patto che sia la qualità a uscirne vincitrice. E se siamo costretti a prendere atto dell'esistenza di un Moccia all'interno di una scala di valori letteraria, seppure agli ultimi posti, significa che qualcosa non funziona. Perché il fatto stesso che non esista, ora come ora, una richiesta di qualità da parte dei lettori, specie giovani, significa che siamo sulla strada sbagliata, che le opportunità che una crisi porta sempre con sé rischiano di essere malamente sprecate.

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