Viene quasi obbligatorio parlare dell'esperimento di ieri sera, Raiperunanotte. Un tentativo, con tutti i rischi che le prime uscite comportano, con qualche caduta di stile, con forse troppa carne al fuoco. Ma un tentativo importante, autentico, che dimostra come la forza dirompente del web possa scardinare il monopolio dello squallido sistema informativo italiano. Il messaggio di ieri è stato: possiamo fare a meno di te, maledetta scatola televisiva. Senza direttori e direttorelli, senza sottopancia, senza giochi di potere: solo una trasmissione di opinione fruibile gratuitamente da tutti. Per questo la trasmissione di ieri è stata un successo: ha aperto una strada fino a poco tempo fa impensabile, e ridicolizzando al contempo la sordida censura politica che appesta gli apparati televisivi italiani, specialmente della Rai, che dovrebbe essere al servizio dei cittadini e non dei politici. Non illudiamoci comunque. Questo è solo l'inizio. Una fetta ancora troppo larga di popolazione non ha accesso alle tecnologie necessarie per usufruire della libertà della rete, rimanendo costrette (probabilmente anche per una certa indolenza mentale) a basarsi unicamente sulla tv di regime. Raiperunanotte è stato un numero zero, una prima pietra gettata nella melma della disinformazione, della repressione, della censura perpetua che schiaccia la crescita intellettiva e morale di questo paese. Non mi sono piaciute diversi aspetti di questo programma (certe volgarità lo hanno inutilmente appesantito) ma ciò che conta è stato il segnale lanciato, e soprattutto la gente che era presente: un pubblico folto, vero, pronto a rivendicare la propria dignità di uomini e donne liberi. Altro che cartelloni prestampati e giochi di regia per coprire i vuoti della piazza. La sensazione è che il coperchio governativo che tenta di sigillare una buona metà del paese che non sopporta di essere presa in giro stia per esplodere. Un'esplosione civile, pacifica, ma determinata, molto determinata.
love party
mercoledì 24 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Quale categoria politica potrà mai essere l'amore? Amore verso chi e da parte di chi? Come si esplica questo amore? Ovviamente, non ci sono risposte razionali, perché dire "partito dell'amore" non solo non ha alcun significato politico, ma nessun significato in generale. L'amore potremmo dire che è la semplificazione estrema: la banalità dei concetti che ha raggiunto il suo apice e la sua massima collocazione. L'amore a vanvera esclude il ragionamento, esclude anche la critica; esclude, in altre parole, tutte le categorie invise al capo. Le porta su un piano che non è più dialettico, ma solo e soltanto manicheo: se non siete con l'amore siete con l'odio. E quindi il diritto di critica viene assimilato ad una qualsiasi barbarie, ad un rito incivile in un'impostazione politica che invece vorrebbe solo rispetto e concordia. Che poi questo obbligo al rispetto valga solo per gli altri è un altro discorso ancora. Con la trovata pubblicitaria dell'amore, comunque, siamo giunti nel cuore della demagogia; un territorio sconfinato e pericoloso di cui stiamo sperimentando tutte le possibili varianti. Ripensando alla piazza dell'altro giorno si può solo provare un'infinita tristezza; prima di tutto perché chi è al potere non si capisce contro che cosa si senta in dovere di manifestare, in secondo luogo perché il discorso del capo è stata una delle concioni più vacue e inutili che la storia ricordi. Anche chi simpatizza con quella parte politica, in tutta onestà, dovrebbe forse riconoscere che qualche cosa scricchiola nei muri portanti di casa propria. Sempre che la parola dignità possa trovare ancora un posto di fianco ad Amore e Libertà, magari tra un cartellone prestampato e l'altro.
ondaverde
martedì 23 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Pensavo all'evoluzione del partito della Lega Nord. Un movimento nato sulla scorta di un forte malcontento popolare, animato da intenti rivoluzionari, che ha prima sfidato l'establishment romano e poi proposto addirittura un'improbabile secessione. Ora la Lega è una forza di governo, legata al berlusconismo da strani vincoli elettorali. Millanta sempre fucili, munizioni e sommosse popolari, ma diciamocelo, da un partito di maggioranza, saldamente insediato al potere da più lustri, risulta filologicamente poco corretto aspettarsi una rivolta. Contro chi, oltretutto, non è dato sapere, ma fa parte della logica populistica aizzare il popolo contro i "nemici", che nel caso della Lega sono i più deboli della terra: extracomunitari in primis. Ora il Carroccio è al potere da molti anni, servo e complice di quella "Roma ladrona" di antica memoria, con tanto di ministri, viceministri e ammennicoli vari dotati di tutti i conforti che quella tanto odiata Costituzione garantisce loro. E' un destino bizzarro, mettiamola così. Da castigamatti dei terroni a paciosi funzionari romani che lavorano fianco a fianco ad altri funzionari provenienti da tutto lo stivale. Del passato restano la maleducazione esibita come un vanto, un accento pesantemente sfoggiato, la tendenza ad avocarsi sogni e speranze di tutto il Nord. Dimenticandosi che ci sono persone del nord come me (nate e cresciute in Lombardia, di famiglie lombarde da sempre) che non solo non vogliono avere niente a che fare con la Lega, ma che si sentono anche stanchi di essere inclusi d'ufficio nel fantomatico popolo verde. In più, oggi, c'è il curioso paradosso di vendersi come movimento di rottura anche quando si incarna, come e più di tutti gli altri, l'essenza del potere ministeriale e dirigista. Non male.
a scuola dall'incauto
lunedì 22 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Leggo nella rubrica delle lettere di Repubblica la proposta di un incauto signore che sentenzia: che si studiano a fare il greco e il latino al liceo classico? Perché non insegnare materie come "Comunicazione audio - visuale", "Comunicazione di massa", "elementi di sociologia", "comunicazione pubblicitaria"? E via discorrendo in un crescendo di materie più o meno inventate e più o meno pazzesche. La risposta che vorrei dare a questo incauto signore è che il greco e il latino non sono solo due lingue, ma sono, come avrebbe detto Foucault, l'archeologia semantica della nostra Storia. Il greco e il latino sono la nostra memoria, il nostro codice culturale, la barriera psicologica che ci separa dal baratro della barbarie tecnocratica. Sono materie eterne perché sono materie che educano a valori universali, caro signore. La sua comunicazione audio visuale, che detto tra parentesi chissà che cazzo è, ha il fiato corto, molto corto, non supererà un decennio, forse nemmeno un lustro. Ma dal tono della sua lettera si capisce che la sua non è una boutade, ma una proposta, ahinoi, con pretese di serietà. La lettera prosegue dicendo che con l'apporto delle suddette, comiche materie i ragazzi dovrebbero "essere più consapevoli del mondo in cui si troveranno ad operare". Grazie allo studio delle tecniche pubblicitarie? Io non credo che questa persona conosca il greco, e se lo conoscesse di sicuro non avrebbe capito una cicca. Se abdichiamo al valore culturale in sé e per sé, se rinunciamo alla fatica di costruirci un bagaglio di saperi universali, che siano un investimento a lungo termine per noi stessi, allora avremo davvero perso. Se di signori del genere, con idee così sciatte e confuse ce ne sono tanti, allora la tecnocrazia avrà partita facile, ridurrà quel poco di libertà che abbiamo ad un esercizio di mera computazione. Aboliamo del tutto lo studio della linguistica allora, togliamo dignità a tutto ciò che ha più di cinque anni di vita. Rinunciare al greco e al latino significa rinunciare alla sapienza di maestri del calibro di Platone, Aristotele, Cicerone, Lucrezio e via dicendo. Veri maestri, altro che tecniche pubblicitarie. Le parole hanno un peso, e molta gente, con tutta evidenza, non sa come usarle.
il presidentissimo
sabato 20 marzo 2010
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Ariberto Terragni
In tutta onestà non riesco a capire l'entusiasmo per la proposta dell'elezione diretta del Capo dello Stato, modifica costituzionale che renderebbe l'Italia una Repubblica presidenziale. Non lo capisco prima di tutto perché non condivido l'idea de "l'uomo solo al comando" che fa e disfa come gli pare con minori controlli e minori garanzie parlamentari. Dicono della sveltezza dei procedimenti, della maggiore velocità con cui un presidentissimo potrebbe prendere le decisioni, evitando il più possibile il dibattito e la mediazione, ma, appunto per questo, credo poco nella bontà del progetto. L'Italia ne ha già avuto uno di presidentissimo, aveva un titolo mutuato dal latino ed ha portato la nazione nel baratro della storia e nell'infamia del razzismo ideologico. Questo per dire che la costituzione è così com'è non per alimentare le pastoie burocratiche, ma per garantire il bilanciamento tra i poteri. Come ho sentito dire da un giurista di cui purtroppo non ricordo il nome: la costituzione è scritta da un popolo sobrio in vista di quando sarà ubriaco. Ma soprattutto non mi fido di chi propone la riforma della costituzione: ossia un ricchissimo signore che non chiede di meglio che devastare i delicati paletti che finora ci hanno risparmiato bagni di sangue, guerre civili e colpi di Stato in nome della sua smodata smania di potere. E' drammatico il bisogno di questo paese di invocare l'uomo forte, l'uomo che sollevi dal pensare, che sollevi dalla responsabilità di essere liberi e che si addossi ogni decisione. Mi sono fatto l'idea che la democrazia sia un continuo work in progress, che non sia un diritto acquisito, e che vada conquistata giorno per giorno, migliorata laddove è possibile, ma soprattutto protetta, protetta anche da noi stessi, dai nostri umori ondivaghi, dalla nostra voglia bestiale di acclamare chi si affaccia dal un balcone magari per mandarci al massacro. Nessuno ha detto che sia facile. Nessuno ha detto che sia gratis.
canta che ti passa
venerdì 19 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Anche frequentando poco lo sciocchezzaio televisivo, appare abbastanza chiara la tendenza dei media di far passare il popolo italico come una nazione canterina. A sentire lo sciatto frasario della tv generalista pare che tutti i giovani rampolli italiani abbiano in testa un'unica cosa: fare il cantante. Non il musicista, non il pianista in conservatorio, non lo sperimentatore musicale in chissà quali ambiti e sonorità, ma il cantante pop. Scuole televisive per cantanti pop, giovani talenti del pop, professori (my God) del pop. Forse anche questo piccolo dettaglio serve per rendere l'idea del progressivo deragliamento dei nostri parametri, che pur predicando benissimo (vedi l'abusata retorica dell'eccellenza) puntano così in basso che più in basso non si può, presentando un modello di pensiero (e di azione) univoco, standard, che nemmeno si sforza di modificare un po' della sua stantia visione delle cose. Le canzonette sono, in fondo, uno dei tanti sintomi che fanno bollire il termometro. Per inciso: ovvio che la gioventù italiana non sia quella che la scatola nera del televisore, ancorché full HD ci presenta, ma solo una proiezione falsa, di comodo, profondamente dozzinale. Negli anni Settanta la baracca sanremese stava per chiudere i battenti, vittima di un'esplosione creativa ed espressiva che non si riconosceva più nelle pastoie del conformismo e del popolare (non in senso gramsciano visto che va di moda dirlo). Era un'Italia di piombo, ma forse più ricettiva, più pronta a trarre qualcosa di nuovo dal caos incandescente. Ora la stagnazione. Lo stallo intellettivo, ricettivo; la coscienza anestetizzata. E l'automatico ritorno a forme di comunicazione più rassicuranti e meno pericolose: come le canzoni di amorazzi e cuori infranti. L'opposto della grande canzone d'autore italiana, che si fece portabandiera di istanze e di pensieri di un'intera generazione che vedeva la politica come una forma di utilità sociale. Non come un modo per fare affari e farsi i travestiti. Sarà stato quello che sarà stato, ma pensiamoci due volte prima di dire che noi, oggi, siamo migliori.
le pietre di Malerba
mercoledì 17 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Ovidio Romer è un pittore di successo. Le sue opere girano il mondo, incontrano il favore di pubblico e critica, procurano all'autore gloria e riconoscimenti. La vita di Romer sembra tutta in discesa, in un susseguirsi di eventi memorabili. Ma c'è anche l'altra faccia della medaglia: la drammatica situazione familiare, il travagliato e insoluto rapporto con il padre, la solitudine che non trova sbocco. In mezzo, la guerra in Africa, gli incontri occasionali, i viaggi, gli equivoci. Le pietre volanti di Luigi Malerba è una biografia fittizia (alla lontana ispirata alla vita del pittore Fabrizio Clerici, citato nel testo oltretutto), un incastro di sentimenti ed esperienze che trovano la loro collocazione in una faccia, un nome, una professione, quella bistrattata o glorificata di pittore. E' un romanzo particolare: denso, enigmatico, ricco di sfumature, apparentemente lineare. In realtà la narrazione procede su un binario doppio: quello della vita pubblica e quello della vita psichica del protagonista, due vie che procedono in parallelo, ma che non di rado di scontrano o si allontanano, lasciando Ovidio in preda alla crisi. Il romanzo dice molto sul travaglio creativo che sta alla base di ogni opera, ed è come se Malerba, con il pretesto della pittura, ci parlasse in realtà di scrittura, e di quanto sia impossibile, per uno che artista non è, arrivare ad intuire il processo mentale che porta un autore a rivelarsi tale. Mi viene da dire che Le pietre volanti è un romanzo per iniziati, dove i segni hanno preso il posto delle parole e dove la decifrazione ha sostituito la lettura: molte sono le chiavi di lettura infatti. La biografia immaginata, il racconto di formazione, la denuncia di uno stato d'animo. Tutte interpretazioni vere ma nessuna che sia in grado di definire l'opera a livello complessivo. Il bello è che il racconto si legge in fretta, e scorrevolmente: la lingua di Malerba è colta, piacevole, ma allo stesso tempo colloquiale. E' un italiano veramente bello, musicale e ritmico, che non stanca mai, che ci accompagna alla scoperta di un mondo, quello della pittura, senza cedere alla tentazione critica o peggio ancora scolastica. Le pietre volanti sono i relitti della nostra vita, quelle rovine che l'artista fotografa, tenta di sublimare, ma che alla fine subisce come e più di tutti i mortali, vittima della sua stessa, disperata consapevolezza.
la cerimonia di Sartre
martedì 16 marzo 2010
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Ariberto Terragni
La cerimonia degli addii di Simone De Beauvoir è il racconto degli ultimi anni di Jean Paul Sartre, filosofo, scrittore, porta bandiera dell'esistenzialismo francese ed europeo. E' una narrazione asciutta, composta, priva di sbavature. Dalla lunga conversazione con Sartre emerge un ritratto genuino, interessante specie per quel che riguarda la parte dell'infanzia, in cui l'autore prova a mettere a fuoco le linee tematiche che avrebbe sviluppato negli anni di maggior fervore intellettuale. C'è molta attenzione nei confronti della struttura intellettuale che ha consentito a Sartre di diventare Sartre, l'uomo che rifiutò il Nobel, ma si avverte anche una certa dose di supponenza, della serie "so di essere un mito". Incredibilmente non viene dato abbastanza spazio al rapporto di amore odio con Albert Camus, che invece è, secondo me e non solo secondo me, uno dei nodi fondamentali dell'esistenzialismo; capire le differenze tra Sartre e Camus è probabilmente capire una grossa fetta di storia culturale europea del novecento. De Beauvoir, comunque, tenta un'opera di scavo che non si limiti alla superficie delle cose: indaga, insiste su punti che Sarte, con tutta evidenza, preferirebbe lasciar perdere, come per esempio i suoi debiti intellettuali nei confronti di altri autori. E' una testimonianza che si sforza, quasi sempre con successo, di essere analitica, imparziale. Ma la passione sartriana è evidente, e, alla lunga, porta l'autrice a giustificare un po' tutto, alimentando le giuste critiche che vogliono il pensiero del filosofo francese a tratti volutamente criptico e inaccessibile, mutuato da una concezione di sé al limite dell'epocale. L'esatto contrario di Camus, tanto per dire, che invece aveva fatto della precarietà e della lotta nonostante la precarietà la sua bandiera esistenziale. Un libro da leggere, comunque, per capire certi meccanismi, e per rivivere, almeno in parte, una stagione di grandi passioni intellettuali, di polemiche, di scambi di idee forse irripetibile, di sicuro non ripetibile oggi come oggi.
se telefonando
lunedì 15 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Fa certo riflettere la storia del premier che, in piena crisi politica e sociale, con l'Italia data per prossima alla bancarotta, anziché cercare una soluzione si affanna al telefono per stoppare quel poco di informazione libera che ancora circola, imponendo direttive e cercando con la massima solerzia di impedire a questo e a quello di parlare. Impedire di parlare. E la libertà dove va a finire? Nei nomi dei partiti demagogici, lì e solo lì. Ma il sistema che sta emergendo in queste settimane va oltre qualsiasi finanche immaginabile prepotenza del singolo politico: il quadro che emerge è un viluppo di politica, affari, sesso, viltà, autoritarismo da fare impallidire una repubblica sudamericana. Di fatto non dobbiamo preoccuparci di quello che potrà accadere, perché il peggio è già accaduto: ci siamo in mezzo, lo stiamo vivendo, vediamo ogni giorno quali sono gli effetti e quali le sconcezze. La sensazione è che il castello di carte stia per crollare, anche l'uso mostruoso che è stato fatto finora delle televisioni ha ritardato notevolmente il processo di naturale comprensione del problema da parte di ampi strati di popolazione che si basano solo sulla tv per farsi un'opinione. In un paese più e meglio informato, forse, e dico forse, la questione mister B non si sarebbe nemmeno posta. E in tutto questo casino il capo non si premura di correre ai ripari, di ledere il velo delle reticenze (chiamiamole così) ma di nascondere la polvere sotto il divano tramite i suoi fidi sparpagliati un po' dappertutto nelle patrie istituzioni. Nella speranza che la gente dimentichi. Nella speranza che chi non è d'accordo si allinei e si normalizzi. Speranza forse non del tutto peregrina la prima, meno realizzabile la seconda.
modesta proposta di sopravvivenza
sabato 13 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Non penso che la scuola faccia bene alla letteratura, non questo tipo di scuola perlomeno. La letteratura comincia da una passione, si snoda attraverso l'applicazione e si concretizza nella possibilità di modellarla, di rielaborarla in modo creativo. La scuola non insegna la libertà suprema che la letteratura rappresenta. Basta vedere quale sia il concetto che la gente comune ha delle lettere: un'idea quantitativa. Pagine da imparare, memoria, quantità di libri, schematismi: questo è quello che rimane, insieme ad un senso d'odio che non permetterà mai, e non senza motivo, di coltivare la materia. Sono utopico, ma pazienza: anche la stessa valutazione è uno strumento inadeguato, la figura del professore così com'è è inadeguata. Servono maestri che accompagnino in un viaggio di scoperta, non buffoneschi controllori che si occupano più di medie aritmetiche e di corsi di recupero che dell'essenza della materia. Il povero Manzoni, tanto per dirne uno, è odiato per via del cattivo servizio che gli ha prestato la scuola di massa; ma si potrebbe dire lo stesso anche per Foscolo, d'Annunzio (non parliamone) e per molti altri. Anche la tragica riforma che sta andando in porto in queste ore non ha tenuto minimamente conto dell'aspetto formativo e culturale che l'istituzione scolastica dovrebbe rivestire, limitandosi a giocherellare con i bilanci e con i nomi, e tutto per tagliare sui fondi. L'ennesima motivazione strettamente economica insomma. Ecco perché l'approccio alla materia, ormai, dev'essere di carattere privato, individuale: se non si ha la fortuna di avere un Virgilio ci si deve assumere anche il ruolo di guida. Si può fare, con costanza, con impegno, ma si può tranquillamente fare. E ridere di ogni tentativo di limitazione, di giudizio e di valutazione che qualche parruccone tenta di fare, perché siamo i padroni assoluti del nostro mondo mentale. E' il vecchio trucco di Truffaut (un grande cultore letterario tra l'altro): di' di sì a tutti, e poi fai come ti pare.
il trucco c'è e si vede
venerdì 12 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Mette un po' di tristezza osservare il video in cui uno dei tanti addetti suggerisce al presidente di non esagerare e gli passa anche un copione con delle bozze di risposta per eventuali domande. Al di là di tutti gli aspetti penali, che segnano il confine tra onestà e disonestà, c'è un altro aspetto, sicuramente non penalmente rilevante, ma forse più squallido: quello della sistematica insincerità. Mister B ha dato ampia prova, nei tempi remoti e vicini, di essere sostanzialmente una faccia, o per meglio dire una facciata, un'impalcatura imponente che nasconde pochezza di contenuti umani prima ancora che politici. Già si sapeva, sapevamo, non c'era bisogno di vedere il fazzoletto con la cipria pronto uso per capirlo, solo che vedere il video e l'audio della messinscena perpetua fa decisamente un altro effetto; è il prestigiatore al capolinea che sbaglia il numero, il coniglio bianco che scappa dal cilindro, la sigaretta che brucia il foulard. In questi pochi secondi c'è il retroscena miserabile di un mondo di cartapesta che rivela fatalmente le sue carte, mostrandosi per un attimo nudo e patetico, come il meccanismo che agita gli spettri nella casa stregata di un luna park. Nemmeno lo sforzo di rispondere, nemmeno forse la capacità per farlo: c'è l'addetto con le risposte già fatte, come in un bigino, ma questa è la logica prosecuzione di una parte politica che ha fatto degli slogan la sua cifra distintiva, che ha azzerato il ragionamento e la dialettica dietro formule di facile presa, per vendere meglio il prodotto. Le "ipotesi di risposta" sono quasi eleganti al confronto di certi spot elettorali con le foto della famigliola rivolte in favor di telecamera.
scegliere il male
giovedì 11 marzo 2010
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Ariberto Terragni
L'altra sera è andato in onda su Raitre un episodio della Grande Storia, intitolato Alla corte di Mussolini. Si parlava tra gli altri di gerarchi come Balbo, Starace e Farinacci, ma l'episodio a suo modo più significativo del documentario è stato probabilmente quello dedicato ad Alessandro Pavolini. Figura complessa e delicata la sua. Uomo di cultura, cresciuto in ambiente agiato e di ampie vedute, scrittore di livello, organizzatore di eventi culturali che celava in sé il lato oscuro di uomo violento, squadrista implacabile, inventore delle famigerate Brigate Nere. Lessi anni fa una bellissima e sconcertante biografia del personaggio, scritta da Arrigo Petacco: L'ultima raffica di Salò, rieditata anni dopo con il titolo di Alessandro Pavolini, il superfascista, oggi entrambi introvabili o quasi. Nonostante le letture fatico ancora a comprendere che cosa significò l'adesione al fascismo più intransigente e massimalista per una personalità come quella di Pavolini; di certo non i soldi o qualche brama di potere, perché per il fascismo ci restò secco, tanto da trovare la sua ragione di vita (e anche una specie di allure epica) nella coerenza portata fino alla fine, fino in fondo, laddove molti scapparono o si convertirono in extremis. Pavolini no. Questo non basta, naturalmente, ad assolverlo. La bestialità cieca delle sue azioni rimane: una ferocia che lo portò ad uccidere indistintamente per salvare ciò che restava della Rsi, senza più nemmeno l'ombra di quell'onore di cui andava vagheggiando e di cui la retorica fascista si riempiva la bocca. Il mio interrogativo, in fondo, è semplice: come poté un uomo della sua levatura trasformarsi in una macchina di sterminio? Le ragioni affondano nella psiche dell'uomo e di un'intera generazione, traviata da anni di propaganda e cresciuta nel culto del regime. Ma anche qui, ci sarebbe da dire: come collocare allora Giuseppe Bottai? Anche lui fu gerarca, anche lui fu uomo di cultura, eppure ad un certo punto nella sua vita crebbe la consapevolezza che il fascismo stava portando la nazione al disastro. Si chiamò fuori, votò contro Mussolini nella seduta del Gran Consiglio il 25 luglio 1943 e infine si arruolò, ultraquarantenne, nella Legione Straniera francese, come espiazione. Difficile dire se Pavolini, per contro, ebbe mai un momento di incertezza.
roba da ricchi
martedì 9 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Piccola esperienza personale. Dovendo andare a Roma per lavoro, ho incautamente individuato nel treno il mezzo di trasporto più adatto allo scopo. Gli aerei della tratta Linate - Fiumicino sono monopolio Alitalia, con tutte le conseguenze economiche del caso; di auto neanche a parlarne. Senza aggiungere altri dettagli il biglietto è ammontato a 165 euro, con oltre tre settimane d'anticipo sul viaggio e in seconda classe, incluso un miserabile sconto di quindici euro sul biglietto di ritorno. Il treno è il mitico Freccia Rossa: fiore all'occhiello di questo deserto dei Tartari entro cui si muove la mobilità nazionale, specchio di un sistema moribondo. Non è possibile arrivare a Roma in tempi ragionevoli con un'altra tipologia di treno, il che significa che spostarsi da Milano alla capitale è una faccenda per ricchi signori che possono permettersi di spendere. E queste sono Ferrovie dello Stato, anche se si sa quale sia l'organigramma di queste simpatiche società del ritardo. Non sarebbe esagerato sostenere che il diritto allo spostamento e ad andare da un punto all'altro della nazione in cui vivo e sono nato è di fatto leso. Ho speso meno ad andare in Francia, dove tra l'altro i musei costano meno che da noi, Louvre compreso. E la gente del fare che fa, a parte i fatti propri? Progetta il ponte sullo Stretto, anche quando la rete ferroviaria nazionale è indegna di un paese civile e le autostrade, vedi Salerno - Reggio Calabria, versano nella situazione che tutti sanno. E' come per il limite di velocità più alto per le auto più potenti: anche in treno solo chi ha più soldi può permettersi di andare più veloce e di arrivare prima. Questo è il concetto democratico di questa accolita, questo è quello che forse ci meritiamo per non averla saputa arginare per tempo e con più energia.
Presentazione del romanzo
domenica 7 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Presentare il mio romanzo di fronte ad un pubblico amico è stata un'esperienza da ricordare. Per la prima volta ho avuto modo di chiarire anche a me stesso diversi punti del libro, proprio perché, più che una presentazione, ho cercato di fare un'analisi in pubblico, senza filtri, senza reticenze. Il risultato è stato a mio avviso molto buono. Perfettibile, come tutte le cose, ma soddisfacente. Ho avuto la fortuna di avere di fronte un uditorio attento e partecipe, che in alcuni passaggi ha saputo trasmettermi sensazioni, addirittura indicazioni. Davanti mi sono trovato volti noti, altri sconosciuti, ma nel complesso ho avuto modo di percepire il calore della gente, la sua capacità di interagire con me, non solo con gli interventi e con le domande, ma anche con una tensione emotiva che ha saputo svilupparsi nel corso di tutto l'intervento. Il mio intento era quello di portare all'attenzione i meccanismi interni di Un uomo da abbattere: le sue premesse psichiche, sociali, emozionali; nonché i motivi che mi hanno portato a scriverlo in quel modo e non in un altro. Sarà un criterio che credo adotterò anche nelle prossime presentazioni: la storia, il plot, è qualche cosa che ogni lettore può afferrare. Ciò che ritengo sia un valore aggiunto è rappresentato invece da ciò che sta dietro: il meccanismo appunto, l'obbligatorietà di alcune scelte, la necessità di alcune autocensure. Ad ogni modo, una giornata da ricordare, che mi ha consentito di mettere a fuoco alcuni temi, di perfezionare le mie parole. Ho iniziato il mio discorso con una piccola premessa sui volti: i volti dicono davvero molto. Sono un una sorta di geografia, sono ciò che ci rimane impresso anche a distanza di anni. Sono in fondo la storia più vera che possiamo raccontare, il nostro diario, la nostra presentazione. E ognuno se la guadagna come può.
forza Grecia
venerdì 5 marzo 2010
Pubblicato da
Ariberto Terragni
La vicenda della Germania che tra uno sghignazzo e l'altro propone in modo semiserio alla Grecia di vendere qualche isola per ripianare i bilanci, mi pare l'ennesimo atto di strafottenza gratuita perpetrato da un forte nei confronti del più debole. Un gesto grave, inopportuno, ignorato dalla maggior parte dei media che tutt'al più si sono limitati ad evidenziare, con colpevole ritardo, il carattere provocatorio della proposta. A quanto pare il vizio di sparare la prima cazzata che passa per la testa aggiungendo, a danno fatto, che si tratta solo di una provocazione non è solo una prerogativa italiana. Resterebbe da chiedere agli amici tedeschi quale sia l'utilità della loro provocazione, ma credo che nemmeno loro sarebbero in grado di dare una risposta, nonostante che l'iniziativa sia partita da due parlamentari, non da due buontemponi che se la raccontano al bar. L'inciviltà del gesto e l'annesso, sottile velo di razzismo che lo sottende, sono uno scandalo. Non ci sono molte altre parole. Se qualcuno avesse proposto agli Usa di vendersi le Hawaii per fornire un'istruzione di qualità a tutti i suoi cittadini indigenti, il mondo libero si sarebbe rivoltato, magari, vista l'aria che tira, agitando il cappio per aria; forse, e dico forse, anche nei confronti dell'Italia si sarebbe usato un po' più di riguardo. Ma sulla Grecia si può tranquillamente sparare ad alzo zero, impunemente, con in più un insopportabile retrogusto beffardo, da primi della classe. E' stato un episodio indecente, di cui nessuno si ricorderà più tra non molto. La solita storia del ricco contro il povero, del garantito contro il non garantito; la solita storia di giudizi variabili a seconda del portafoglio del coinvolto, il solito scandalo dei due pesi e due misure.
Pasolini & Bertolucci, un'amicizia
mercoledì 3 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Il rapporto artistico, umano e intellettuale tra Pier Paolo Pasolini e Bernardo Bertolucci è un capitolo di storia letteraria ancora tutto da scrivere. Il primo fu scopritore, fino ad un certo punto, del secondo: amico del padre, il poeta Attilio, chiese al giovanissimo Bernardo di fargli da assistente alla regia per Accattone, primo lungometraggio dello scrittore friulano. Questa è la storia che sappiamo tutti. Ben presto Bernardo capisce di avere altro da dire, e soprattutto in altro modo, e prende la sua strada, prima dirigendo un film di chiara matrice pasoliniana, La commare secca, e poi occupandosi personalmente anche delle sceneggiature, cogliendo, come si sa, un successo dietro l'altro. Da parte di Bertolucci non ci furono polemiche, anche perché il regista non ha mai nascosto il suo debito nei confronti di Pasolini, né tantomeno di dovergli in qualche modo il proprio battesimo: solo sentiva che era il suo momento e che era giusto cominciare un discorso proprio, che si distaccasse dallo schematismo di Pasolini pur senza mai rinnegarlo del tutto. Ma Pasolini a quanto pare non la prese benissimo, preziosa in questo senso è l'osservazione di Franco Cordelli: Pier Paolo non perdonò a Bernardo il suo successo immediato e straripante, il consenso all'estero, la fama, la consacrazione a maestro in età ancora giovanissima. Qui entra in gioco anche un altro aspetto poco toccato dalla critica nazionale: il lato oscuro di Pasolini, il suo risentimento fagocitante, talvolta meschino, riversato ora in cattive poesie ora in film oggettivamente inguardabili ora in articoli di dubbia matrice intellettuale. Ma Pasolini è issato su un altare, e nessuno potrà mai toglierlo da lì, consacrato da una critica che ha voluto eleggerlo a proprio santino, a dispetto di qualsiasi senso dell'obiettività. Per una corretta interpretazione filologica del problema io partirei da un assunto semplice, chiaro: Bertolucci è un grande regista, Pasolini no, se non forse nelle debordanti intenzioni. Non ci sarebbe niente di male a dire che i film di Pasolini sono piccoli film, noiosi, didascalici, realizzati in qualche modo, venati dalla sua inveterata e non richiesta vis pedagogica, mentre quello di Bertolucci è cinema, e lo sarà anche tra cento anni. Un argomento da approfondire comunque.
sua eccellenza
martedì 2 marzo 2010
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Sembra che per un po' ci porteremo addosso anche questo nuovo tormentone, quello dell'eccellenza. Non so bene che cosa sia, ma a quanto pare i potentati mediatici che dettano leggi e gusto ci contano molto: una specie di marchio di garanzia che divida la feccia da ciò che invece è meritevole di essere salvato, con un'operazione di merchandising molto simile a quella attuata per il digitale terrestre. Si prende un prodotto qualunque, si bombarda il cervello della gggente dicendole che si tratta di un bene irrinunciabile e che solo noi siamo in grado di farlo così bene e il gioco è fatto: l'eccellenza è creata. Solo che anche in questo caso per rendere qualche cosa un'eccellenza bisogna prima di tutto svilirla a bene di consumo, ad oggetto della domanda e dell'offerta, con le conseguenti contraddizioni. Nell'equivoco restano coinvolti settori come la cultura e la sanità, tanto per dirne due. Ma soprattutto si tende a privilegiare il privato. Sta passando il messaggio: privato è meglio, perché ciò che è privato è esente dalle pastoie e dalle inefficienze della pubblica amministrazione, e quindi è più competitivo. Molti genitori deficienti potrebbero già pensare alla scuola elementare dei loro figli come una piccola fabbrica che deve occupare e difendere le sue quote di mercato, badando a rispettare certi parametri, e soprattutto ad inculcare nelle menti dei loro pargoli il mito della competitività e della produttività. Quale consesso migliore di una scuola privata allora? Ma anche ospedali, cliniche, e presto anche vigilanza privata: la vigilanza eccellente. Quest'ultimo potrebbe sembrare un paradosso, ma mica poi tanto: laddove le forze dell'ordine vengono disossate dai tagli e dagli ostacoli legislativi (stoppare le intercettazioni per esempio) a qualcuno un domani potrebbe venire in mente di istituire il suo esercito privato (le ronde non vanno già in questa direzione?).
Egon Schiele in mostra
lunedì 1 marzo 2010
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Ariberto Terragni
Bella e necessaria mostra su Egon Schiele a Palazzo Reale a Milano. Un percorso sufficientemente ampio, una quarantina di lavori, che ripercorrono per sommi capi il breve itinerario dell'artista austriaco, vissuto agli albori del Novecento e scomparso a soli 28 anni, nel 1918, a causa dell'influenza spagnola. Percorso drammatico e sensuale il suo, attraversato da visioni da incubo, rappresentazioni metaforiche e ossessive (il sesso, gli organi sessuali, la nudità squallida), che gli costarono anche la galera. La storia di Schiele è accessibile a tutti, ad ogni modo, ma è osservando dal vivo le sue opere che si coglie tutta la prepotente forza d'urto della sua visione: un mosaico di accostamenti e ricadute che fanno di lui un autore autenticamente moderno, in anticipo di decenni sull'arte a lui coeva. Oggi come oggi sarebbe stato un disegnatore, come e più di Lautrec, poco ma sicuro. Personalmente ho colto la singolare somiglianza con i disegni di Angelo Stano, il creatore grafico di Dylan Dog, che quasi certamente ha trovato in Schiele più di un motivo di ispirazione. Il tormento, la forza, la decadenza ma anche la struggente dolcezza dei suoi tratti sono ancora oggi un'esperienza estetica di raro coinvolgimento: perché Schiele è in grado di avvolgere con la pastosità delle sue linee, di risucchiare chi osserva nel fondo cupo della tela. La Vienna dei suoi tempi fu un crogiolo di talenti e intuizioni, non ultime quelle di Freud, la cui teoria dell'inconscio fu recepita da Schiele e in qualche modo impressa sulla tela. Schiele autore interiore? Probabilmente sì. C'è troppa sofferenza in ogni opera, in ogni schizzo, in ogni scorcio genitale tra le cosce aperte delle modelle per non parlare di straordinaria profondità psicologica. Non è sessualità frustrata, e nemmeno morbosità, piuttosto umanità dolente, dignità ferita, miseria delle membra ritratte nella loro posa più indifesa.