Tra i sempre più goffi argomenti che gli irriducibili del presidente muovono contro chi, come me, non fa che stupirsi giorno per giorno di quanto sia profondo questo abisso chiamato berlusconismo, ne spicca uno: l'invidia. "Ce l'avete con lui perché siete invidiosi". Riferito, non potrebbe essere altrimenti, ai suoi soldi. L'obiezione, in sé, è povera cosa, come del resto lo sono in genere tutti i tentativi di dialettica pidielliani. Se dovessimo accettare la categoria dell'invidia come metro valido, allora dovremmo anche concludere che tutti i ricchi sono un esempio a cui tendere, deduzione naturalmente falsa e tendenziosa che non mi prendo neanche la briga di confutare con qualche esempio, tanto si tratta di un concetto evidente. Interessante è però notare come l'accusa di invidia - ma dire accusa è dire troppo, dovremmo definirla stentata ripicca e basta - non si basi in realtà su un fattore di merito, se non in senso lato, ma su un dato di fatto tangibile: su un dato cioè di mera quantità. Non importa chi sei, cosa fai e soprattutto come lo fai, ma il quanto fai. L'argomento dell'invidia, cioè, è sintetizzabile in un'unica, spiacevole formula: invidia dei suoi soldi. Vorrei confortare, almeno per quanto mi riguarda, la folta falange dei difensori d'ufficio: l'invidia non c'entra niente. Il fatto dell'invidia dei soldi, semmai, dovrebbe dirla lunga sul perché non sia possibile appellarsi a nessun altro tipo di invidia, tipo quella per la capacità politica, per la cultura, per l'intelligenza, per la saggezza, per l'avvedutezza; tutti quegli ingredienti che, insomma, costituiscono da che mondo è mondo l'armamentario caratteriale grazie a cui uno statista in genere passa alla storia. Non per niente nessuno, credo, si è mai sognato di dare dell'invidioso a un oppositore di De Gasperi o di Churchill o di Adenauer. Tra tutti gli esempi quotidiani di quanto sia deprimente il nostro dibattito pubblico, penso che questo sia uno dei più illuminanti.
nuovi modelli di stile
martedì 29 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Quale apporto possano dare queste "lezioni di scrittura" proposte dal Corriere, resta un mistero nel quale ho un po' di timore ad addentrarmi. Resta secondo me difficile da capire quale contributo possano dare alla materia letteraria Roberto Saviano e Beppe Severgnini, intervistati come supposti maestri di stile e mestiere. Del primo abbiamo ammirato l'oratoria civile e la straordinaria battaglia anticamorra, del secondo non ho capito ancora bene. Sono due nomi ugualmente enigmatici ed emblematici, e credo vadano tenuti separati. Saviano vive un'esposizione mediatica abbastanza folle, tanto fuori controllo che parlare di lui come intellettuale diventa un'impresa densa di rischi: la sua meritoria battaglia non va confusa con la scrittura nuda e cruda, e se il suo impegno è fuori discussione, altrettanto non si può dire per il fatto concreto del suo scrivere.
Non credo sia un bravo scrittore in senso puro. A livello narrativo non ha in pratica offerto ancora nulla, a livello di racconto/saggio, al di là di Gomorra che è un unicum difficilmente analizzabile sotto il profilo letterario, la sua prosa non presenta sostanziali caratteri di novità, palesando semmai un flusso di ritorno verso modelli arcaici della scuola meridionale. Niente a che vedere con Sciascia e Vittorini, tanto per dire, che stilisticamente sembrano avanti di almeno due generazioni. Dicevo, al di là di Gomorra. Mi ricordo di un brano in particolare, un'intervista a Leo Messi riproposta nella raccolta di articoli La bellezza e l'inferno. Per quanto mi riguarda, un piccolo compendio di come non scrivere: enfasi a profusione, mancanza di approccio critico, concetti risaputi. Molta retorica, in altre parole, in un lungo articolo intossicato da una vena di compiacimento nel giusto - vero grande tallone d'Achille del Saviano scrittore - che alla lunga non ho retto. Non sono riuscito ad arrivare alla fine, confesso.
Di Severgnini lo Spendibile (da una sua perifrasi ricorrente, "spendibile sul mercato") posso dire ben poco, se non che non lo apprezzo. Non ho letto i suoi libri, mi sono accontentato dei suoi articoli sul Corriere e delle sue precettose risposte ai lettori. Che posso dire? Non è nelle mie corde, non è in quello che mi piace pensare sia letteratura. Non credo che i pur simpatici Interismi vari né la produzione semiseria - o ironica come va di moda dire - accertino granché. Né d'altra parte posso pensare che sicumera intellettuale o pseudo tale di un onesto professionista del giornalismo serva in qualche modo a compensare quel tanto di inventiva, animalità e spinta vitale che in ogni epoca ha contraddistinto l'eccellenza letteraria.
In Italia, fino a una trentina d'anni fa, convivevano autori come Landolfi, Manganelli, Montale, Moravia, Garboli, Citati, Raboni e via di questo passo fino a domani mattina; oggi uno dei quotidiani più prestigiosi del paese propone il suo personale parnaso dei maestri, che invito ad andare a visionare, giusto per rendersi conto dello spostamento - non voglio chiamarlo in altro modo per evitare equivoci - qualitativo a cui stiamo assistendo. Sarebbe facile definirlo segno dei tempi, sintomo di una crisi irreversibile o altro. Ognuno ha il diritto, e forse anche il dovere, di farsi un'idea, specie ora che i mezzi critici scarseggiano, e vendere il piombo per oro colato è una pratica tanto diffusa, quanto, per pigrizia mentale, ampiamente accettata.
Da dove sto chiamando
sabato 26 marzo 2011
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Ariberto Terragni
In che direzione procede la letteratura italiana? A che punto siamo? Il romanzo è morto o no? Beh, sono tutte domande a cui francamente non so dare risposta. Mi rendo conto che possa sembrare strano, per il lettore, prendere atto di una dichiarazione del genere in principio di post, ma i fatti sono questi, e proverò a spiegarli brevemente. Se un tempo - diciamo fino a un venticinque, trent'anni fa, più o meno fino ai così detti "narratori selvaggi" - era ancora possibile individuare a spanne delle categorie, o meglio delle scuole, dei filoni entro cui gli autori contemporanei si individuassero, oggi un esercizio del genere non è più possibile. La frammentazione, il post del post moderno, hanno a tal punto diversificato l'offerta, spesso anche smembrandola, da non lasciare più spazio a considerazioni di gruppo o, come si sarebbe detto appunto negli Ottanta, generazionali. Perché non c'è più una generazione, ma tante esperienze diverse, che si cristallizzano in esperienze letterarie altrettanto varie, che in comune hanno a malapena l'anagrafe, o l'ambientazione: il romanzo, visto che di romanzo si parla, si colloca quasi sempre in ambiente cittadino o metropolitano, considerando anche il fatto che la provincia, terreno di caccia privilegiato dei "selvaggi", si è andata a confondere con le estreme propaggini della grande città, stemperandosi in un clima molto più assimilato e omogeneo rispetto ad un tempo.
D'altra parte una considerazione non può non essere fatta: viviamo nell'epoca dell'istant book, e questo dovrà pur significare qualche cosa. Se un tempo i vari Porci con le ali, Boccaloni e via dicendo si inscrivevano in una dinamica contemporanea (e non avrebbe potuto essere altrimenti trattandosi di vissuti "generazionali"), oggi siamo riusciti ad accorciare ulteriormente lo iato che separa il dato empirico dell'esperienza dalla sua metabolizzazione: in altre parole il tempo di digestione di ogni fatto, di ogni evento piccolo o grande, personale o pubblico si è accorciato tanto da faticare a distinguersi dal dato di cronaca. In questo senso la strada che risulta più battuta, in termini di narrativa pura, è ancora quella del genere senza compromessi: il fantasy made in Italy, oppure, in modo secondo me ancora più significativo, il giallo o noir (le tue etichette sono ormai tanto contigue da essere intercambiabili anche se in origine non era così). Il giallo, da Montalbano a tutti gli altri, ha una sua fetta di mercato consistente e tenace, forte di uno zoccolo duro di appassionati e fedelissimi, che vivono il momento della letteratura come una parentesi di pura evasione, di divertimento, in un certo senso di depensamento. Il giallo riassume in sé tanti spezzoni emotivi della vita quotidiana: c'è la descrizione cittadina e borghese che risulta subito familiare al lettore; c'è l'elemento perturbante del delitto e del male (e in quest'ottica la cronaca nera a pioggia diffusa a piene mani dai media finisce per renderci familiare anche il crimine), c'è una vicenda ben delineata in una scansione consequenziale fatta apposta per non intralciare i normali processi deduttivi, e soprattutto c'è un finale. Come dire: il romanzo ha un capo e una coda, cosa che non sempre è sintomo di logicità, se non ad un livello di lettura basico.
Quello che manca, è anche il dato saliente: lo sperimentalismo. Se dagli anni Cinquanta in poi, diciamo per comodità, la letteratura è vissuta su una pluralità di indirizzi che spaziavano dall'esistenzialismo al sotto genere industriale, dalla nascente fantascienza al fenomeno beat e via dicendo in una summa di possibilità impressionante, oggi stiamo assistendo ad un generale stallo, specialmente in Italia ma non solo. La stagnazione, per quanto ho potuto vedere, penso sia dovuta proprio alla mancanza di un collante culturale tra tutti gli scrittori: quelli che potevano essere i denominatori comuni del passato, dalla guerra partigiana alla militanza sessantottina, oggi non ci sono. Le scritture che avanzano sono tante solitudini, portatrici di un tassello che quasi mai combacia con un altro, rendendo di fatto impraticabile la costruzione di un mosaico coerente pur nel rispetto e anzi nella promozione delle diverse sensibilità. Non è detto che sia un male a prescindere: sono per una scrittura, un cinema, un teatro, una cultura della crisi. Ma a patto che sia la qualità a uscirne vincitrice. E se siamo costretti a prendere atto dell'esistenza di un Moccia all'interno di una scala di valori letteraria, seppure agli ultimi posti, significa che qualcosa non funziona. Perché il fatto stesso che non esista, ora come ora, una richiesta di qualità da parte dei lettori, specie giovani, significa che siamo sulla strada sbagliata, che le opportunità che una crisi porta sempre con sé rischiano di essere malamente sprecate.
rileggendo i Cantos, di Ezra Pound
mercoledì 23 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Dopo cinque giorni di rilettura ossessiva e un po' invasata dei Cantos di Ezra Pound, mi trovo qui a volerne scrivere qualcosa, ma all'improvviso sono come bloccato, quasi che tutta la massa di sensazioni e di suggestioni prodotte da questo maremoto in forma di poesia mi abbia tolto anche la facoltà di parlarne. Probabilmente è così. Chi sono io per parlare dei Cantos? Chi potrebbe parlarne? La prima considerazione è proprio questa: il materiale critico su cui basarsi non è moltissimo. Perché Pound è un autore difficile, perché i Cantos sono materia complessa e incandescente in cui pochi si sono addentrati, spesso alla buona e con informazioni indirette.
Ovviamente io non dispongo di niente di più di quel poco di intuito che chiunque si occupi in pianta stabile di letteratura alla fine riesce più o meno a guadagnare; e visto che ci sono una definizione la tento: i Cantos sono un percorso poetico. Non un poema in senso stretto, ma un cammino, un tracciato, una lunghissima sfida storica che si articola in vari momenti e in infiniti richiami. Impossibile dire dove iniziano e dove finiscono: sono un continuum, sono la poesia nel suo farsi, ma rappresentano anche il fardello umano, estetico, esistenziale di un uomo che per almeno venti, trent'anni della sua vita si è dedicato a queste pagine criptiche e dense, scritte sotto l'effetto di una febbre inesausta, infiammate da ricordi e da passioni civili non sempre condivisibili (non starò qui a ricordare le controverse simpatie politiche del poeta).
Un'altra chiave di lettura potrebbe essere quella di considerare l'intera opera come un tentativo monumentale e fallito di dare all'America un suo poema nazionale, nel solco della tradizione di Dante, Confucio, Omero eccetera. Questa ipotesi risulta affascinante, ma sfortunatamente con pochi appigli concreti. Resta la testimonianza dell'impasto linguistico sbalorditivo che segna queste pagine: inglese, latino, greco, italiano, cinese con termini che si accavallano, si inseguono, si intersecano fino a ricreare una lingua nuova, per certi versi scandalosa, che strappa il lettore dal suo sonno per metterlo di fronte alla vitalità polisemica della poesia: vitalità che secondo me è la vera matrice distintiva di Pound. D'altra parte la cultura smisurata del poeta affonda le sue radici nella letteratura trobadorica e nello studio sistematico della letteratura italiana (dedicò in giovane età un saggio a Guido Cavalcanti).
Pound amava l'Italia. Qui formò il suo gusto, qui sposò in modo folle e quasi isterico la cattiva causa del fascismo. Qui morì, a Venezia, dove riposa tutt'ora. Avendo più spazio ci sarebbe molto da dire sul suo rapporto con il nostro paese; mi accontento di un dato di fatto: i canti che vanno dal LXXII al LXXIII sono scritti in italiano, completamente: sono la sezione che nella scansione proposta da sua figlia aprono la strada ai celebri Canti Pisani, composti durante la prigionia al termine della Seconda Guerra Mondiale, dove Pound, accusato di collaborazionismo, finì incarcerato dalle forze angloamericane.
Da lettore, ho notato un fatto: i Cantos sono un poema iniziatico. Non per tutti, direi per nessuno. L'autore mostra tutto se stesso, ma con un alfabeto di difficile decifrazione. Non possiamo capirlo, non fino in fondo almeno: si ha la sensazione della grandissima poesia, ma si fa fatica a forzarne le chiusure, come se il tesoro più intimo e prezioso restasse confinato nel nucleo, lontano dai nostri sguardi e dalla nostra capacità di comprensione. Pound, è un poeta che non ci guarda, che ha lo sguardo puntato altrove, in un assoluto, in un astratto che non ci è dato sapere. Pasolini, in un suo intervento, denunciava giustamente questa distanza attribuendola ad uno stato fondamentalmente confusionario, genialmente confusionario dell'autore. Può essere, ma non basta a spiegare questo immane intrico di segni e simbologie.
I Cantos universo per pochi. Eppure per tutti. Scriveva Pound stesso in un suo saggio del 1934, Abc del leggere: "Il ritmo è una forma incisa nel tempo, così come il disegno è una definizione dello spazio". Criptica allusione a quello che forse è l'unico modo possibile di avvicinarsi alla sua opera: quello di affidarsi alla cadenza della parola stessa, di affidarsi al suo valore, e in definitiva al ruolo intrinseco di ogni fonema. Ma ho dei dubbi anche su questa interpretazione. Quello che deve secondo me rimanere chiaro ad ogni lettore è che ci troviamo di fronte ad un poeta primitivo: primitivo perché cerca un senso nella natura storica delle cose. Da qui il richiamo alla grecità, alla Cina arcaica, al mondo perduto. Vedeva il nucleo delle cose in una pluralità di fonti, all'apparenza sparpagliate ma accomunate da un'indole premoderna. Il senso del tragico batte forte, come un cuore ingolfato, in ogni singolo verso.
In modo del tutto arbitrario, mi piace concludere questo breve approccio con un'osservazione che Nietzsche propone ne La nascita della tragedia: "Per comprendere questo scatenamento totale di tutte le capacità simboliche, l'uomo deve essere già giunto a quel vertice di alienazione di sé che in quelle capacità vuole esprimersi simbolicamente". Non è forse la migliore definizione sintetica per i Cantos? In modo sbrigativo, verrebbe quasi la tentazione di considerare Pound come un sacerdote alle prese con il dilagare dei tempi e della storia, un alchimista in comunicazione con un altro mondo che tenta di contenere una realtà dilaniante con le sue sole forze.
Franny e Zooey, di J.D. Salinger
lunedì 21 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Franny e Zooey si propone come un dialogo in forma di romanzo, o se si vuole come una rappresentazione da camera, intima, confidenziale. La narrazione è divisa in due momenti: il primo riguarda l'incontro tra Franny e Zane, il suo fidanzato, il secondo descrive, in un'unica e ampia voluta, un momento familiare in casa Glass, dove a occupare la scena sono la stessa Franny, suo fratello Zooey e la loro madre Bessie. La ragazza, in crisi spirituale e materiale, ha un lungo confronto con il fratello. I due racconti che compongono questo romanzo non romanzo sono i primi due pezzi del mosaico che narra gli avvenimenti della famiglia Glass, epicentro letterario attorno a cui Salinger tornerà diverse volte negli anni, sia con un altro romanzo (Alzate l'architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione) sia con racconti sparsi. Rispetto al celebre Giovane Holden, in questa tappa dello scrittore americano si entra in una cerchia di avvenimenti più compatti, dove il tono cronologico è dato dalla scansione di piccoli eventi quotidiani: farsi la doccia, radersi, consumare un pranzo al ristorante, scambiare chiacchiere con la propria madre, fumare una sigaretta dietro l'altra. Salinger non ha fretta, ci descrive la vita nelle sue piccole schegge rivelatrici, visto che, come l'autore sostiene in brano, gli oggetti che rivelano davvero il nostro carattere sono quelli apparentemente casuali lasciati sparsi sul comodino. Ma liquidare Franny e Zooey come un tentativo di romanzo di conversazione sarebbe ingeneroso e sbagliato: ogni riga ha il potere straordinario di dire effettivamente qualcosa, di parlare per mezzo di un linguaggio universale che buca le barriere del tempo e dello spazio geografico. L'azione che si svolge in America quasi sessant'anni fa è la stessa che potrebbe svolgersi qui, oggi, con gli stessi pensieri, gli stessi dubbi, la stessa smania di vivere e di farsi capire. Personalmente ho amato molto il Giovane Holden, ma non ho avuto difficoltà a ritrovarmi anche in queste pagine: Salinger mi dice qualcosa ad ogni pagina, mi parla, sa in anticipo quello che penso e subito prepara una risposta, in un gioco di assonanze e richiami che ha del miracoloso. La semplicità, la schiettezza, la verità del suo linguaggio sono la linfa stessa della scrittura made in America, quella scrittura che salvò - letteralmente - la letteratura europea dalla palude del manierismo e la costrinse a misurarsi con la vita di tutti i giorni, con le sue incertezze e le sue paure. Salinger non è un minore: è uno dei grandi. Ha raccolto la tradizione dei vari Hemingway, Steinbeck, Sherwood Anderson e l'ha rielaborata a modo suo, in un percorso originale, dove i valori che emergono non sono più ossequiosi di un mito, ma deflagrano in aperta ribellione con la tradizione borghese e perbenista incapace di schiudersi nei confronti della vita. Prima del fenomeno beat, e ben al di fuori da esso, in quella tensione tra arte ed esistenza che possiamo chiamare senza problemi stile.
memorie dall'Unità
venerdì 18 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Stupisce, piacevolmente, il forte riscontro popolare che le celebrazioni per il 150° dell'Unità hanno raccolto un po' in tutta la penisola. Stupisce, e giustifica qualche riflessione. La prima è la più lampante: c'è una grande voglia di identità che serpeggia nel paese. Una voglia di identità che non ha nulla a che vedere con le favole della Lega, ma che piuttosto c'entra con dei riferimenti storici precisi, e sotto molti aspetti emozionanti: le Cinque Giornate di Milano mi vengono in mente, ma anche il sacrificio di tanti, tantissimi giovani provenienti da ogni parte d'Italia che si sono immolati in nome di un'ideale dal 1848 fino alla Grande Guerra. Mi viene in mente che La leggenda del Piave fu scritta non da un veneto, ma da un napoletano; mi viene in mente anche che Alessandro Manzoni, che conosceva meglio il francese dell'italiano, sentì l'esigenza di scrivere la sua opera principale, I promessi sposi, dopo un periodo di studi a Firenze, per meglio padroneggiare la lingua, arrivando al paradosso di far parlare due popolani del Lago di Como in un curioso idioma più vicino al fiorentino che al lombardo. Sono esempi sparsi che mi suggeriscono una cosa sopra ogni altra: la narrazione che avverte la gente, o comunque una consistente fetta di popolazione, ha poco o nulla a che vedere con la visione deformata che ne dà il Palazzo. Tanto che, alla prova dei fatti, l'affetto che la popolazione, gli italiani, hanno nei confronti della loro casa suona quasi come una stranezza, mentre invece è solo la naturale conseguenza di un processo storico lento e difficile, ma che nonostante tutto ha mosso dei passi avanti nel corso di questo secolo e mezzo. Ritrovare questo spirito di cooperazione potrebbe essere la chiave di volta per partire, una buona volta, in una direzione comune, scrollandoci di dosso questi anni schifosi che con il tempo e il sacrificio potranno essere messi tra parentesi come un momento di sbandamento collettivo e di bancarotta spirituale. Come recita Mameli: "Uniti, perdio!"
la primavera nucleare
mercoledì 16 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Visto che nonostante la tragedia che si sta consumando in Giappone e nonostante l'insensatezza dell'idea già in partenza, stanno tentando in tutti i modi di plagiare l'opinione pubblica in senso pro nucleare, provo a scrivere un po' di domande della serva, o dell'uomo della strada, o di uno che non sa nulla e si basa sugli spizzichi e bocconi che capta in giro.
1) Il nucleare in Italia è stato respinto da un referendum nel 1987. Non mi risulta che i referenda decadano di valore con il passare del tempo. Altrimenti anche il nostro status di Repubblica Democratica sarebbe in pericolo.
2) La Germania, il paese economicamente più produttivo d'Europa, ha programmato di dismettere progressivamente le centrali nucleari fino alla totale chiusura entro una ventina d'anni. Ne consegue che stanno già puntando su altri tipi di risorse energetiche.
3) Qualora l'Italia insistesse su questa linea, riuscirebbe a mettere in piedi le centrali nel migliore dei casi tra vent'anni, quando con tutta probabilità il nucleare sarà già superato e i paesi tecnologicamente più avanzati avranno altre forme di sostentamento energetico.
4) Il problema delle scorie. Nessuno sa come smaltirle. In Italia circolano ancora quelle di venticinque anni fa. Negli Usa si cerca da più di dieci anni di costruire un centro di smaltimento a Yucca, vicino a Las Vegas, ma finora senza successo. Noi in che modo eventualmente ci organizzeremmo per affrontare la questione?
5) Non siamo in grado di gestire la spazzatura ordinaria, non siamo stati in capaci di diffondere la cultura della raccolta differenziata in tutte le aree del paese, perché, in nome del cielo, dovremmo essere invece in grado di smaltire le scorie radioattive?
6) Certamente, nel caso in cui questa storia andasse in porto, ci sarebbe una massiccia rincorsa affaristica alla speculazione e all'accaparramento degli appalti, chi garantirebbe la qualità, la certezza dei tempi e dei risultati? Ricordiamoci della nostra disastrosa situazione logistica (vedi Salerno - Reggio Calabria e simili) e della patologica incapacità italiana di tenere il malaffare fuori dalle imprese pubbliche.
un'altra idea di ricchezza
lunedì 14 marzo 2011
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Ariberto Terragni
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Ricordiamoci bene queste parole. Ricordiamoci bene da dove vengono e con quale spirito sono state scritte. Prima di asserire che l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli (art. 11), prima di sancire che la libertà personale è inviolabile (art.13), la Costituzione stabilisce che la cultura, la ricerca e il patrimonio storico, artistico e paesaggistico della Nazione vadano tutelati e promossi. In quanto bene di tutti, aggiungo sommessamente io, e non credo di tradire lo spirito costituzionale. Questa carta, oltre a rappresentare la diga più solida di cui disponiamo a fronte della barbarie giuridica, riconosce anche il nostro diritto a godere della bellezza in cui viviamo: non è un dettaglio di poco conto. Attribuire un valore legale e giuridico al criterio di bellezza significa automaticamente, e con mossa quantomai felice, mettere al bando la speculazione, la razzia, la depredazione di tutta la ricchezza culturale e segnatamente artistica in cui l'Italia affonda le sue radici. Con saggezza i Padri costituenti presero in considerazione un eventuale sciacallaggio del territorio, stupro di massa che avrebbe privato una cospicua parte di cittadinanza di un bene di tutti. Sappiamo come è andata a finire: vediamo ogni giorno come il patrimonio artistico e paesaggistico italiano sia sempre più preda non solo di squallide speculazioni, ma anche di incuria, menefreghismo e ignoranza anche da parte di chi, nelle vesti governative, dovrebbe difendere questa ricchezza, rilanciarla e renderla sempre più fruibile da parte di ogni cittadino. Italiano e non solo, visto che gran parte di questa bellezza è patrimonio dell'umanità. E' bello vedere come il nostro patrimonio culturale sia davvero nostro, e non di qualche ricco padrone: nostro, con tutte le implicazioni e le responsabilità che questo concetto comprende, al punto che se dovesse deperire o cadere in preda alle colate di cemento di qualche sciacallo autorizzato, non potremmo chiamarci fuori dicendo, vigliaccamente: io non c'entro. La Costituzione, nel sancire un diritto, ci ricorda anche un dovere.
Zona disagio, di Jonathan Franzen
sabato 12 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Zona disagio è il primo libro di Jonathan Franzen che leggo. Non avevo ancora la chiara percezione del credito di cui gode questo scrittore, in ambito anglosassone e non solo: a dare un'occhiata su internet e dintorni si capisce come sia sul trampolino di lancio, prossimo al picco della curva ascendente. Alla luce di tutto ciò, Zona disagio mi ha deluso. E' un testo che si propone come una memoria narrativa, una ricostruzione a scenari dell'infanzia/ giovinezza dell'autore: sprazzi di vita domestica, ritratti di familiari e amici, ricordi di scuola. Si tratta di scritti in parte creati ad hoc, in parte ricomposti dopo essere stati pubblicati alla spicciolata su varie riviste. Le idee viaggiano a corrente alternata, ora offrendo qualche spunto interessante, qualche massima di vita azzeccata e non banale, ora addentrandosi nell'aneddotica più stravagante (la descrizione con tanto di disegnini dello scherzo al palo della bandiera è quasi imbarazzante tanto è noiosa e incomprensibile). Nel complesso il libro veleggia su livelli accettabili fino all'ultima sezione, intitolata, con l'ormai consueto nonsense programmatico (consueto nei romanzi americani degli ultimi anni), Il mio problema ornitologico. Ecco, qui, si ha la netta sensazione che l'autore perda del tutto il filo della vicenda: a crudo, senza nesso alcuno, inserisce una corposa trattazione sul birdwatching, elencando specie, ricordando appostamenti, riferendo luoghi e tappe dei suoi viaggi. Una parentesi surreale, uno scherzo tirato per le lunghe che alla fine non spiega nulla e non porta da nessuna parte. In Zona disagio lo scrittore accetta il rischio di fondersi con il protagonista, ma non sa poi come venirne fuori: il risultato è questa scombiccherata galleria di istantanee incoerenti, come tanti pezzi di un collage messi lì a caso, o per meglio dire appiccicati in maniera posticcia dopo una tragica decisione di editing. Possiamo provare a considerare le parti migliori, più per fare un favore a Franzen che per rispettare un vago criterio filologico: Zona disagio non si discosta dalla media americana dell'ultima produzione, quella delle scuole di scrittura, per intenderci, vera e propria catena di montaggio delle idee narrative, ultima tappa di un processo di degrado, monumento alla "normalizzazione" della scrittura. Un'operazione che nemmeno alla Russia sovietica era riuscito.
lingue
venerdì 11 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Ho cominciato a tradurre il latino parecchi anni fa, da autodidatta, con somma pazienza, qualche sbandata, molto esercizio. Il motivo? Mi sembrava importante. Leonardo da Vinci stesso si mise a studiarlo in età già piuttosto avanzata, lui che proveniva da una formazione tecnica e sentiva di dover colmare quella lacuna. Non mi servivano altre garanzie. Non ho mai creduto alla panzana delle lingue morte, anche perché nove volte su dieci la gente che si esprime in questo modo non ha alcuna pratica linguistica. Non sa, per esempio, che l'espressione "lingua morta" è impropria, per la semplice ragione che una lingua non muore mai, ma si evolve, diventa sempre qualcos'altro, in un percorso storico, sociale, antropologico a dir poco imprevedibile. Non starò qui a parlare di archeologia delle scienze sociali, non starò qui a parlare di storia della lingua. Mi rendo conto di quanto sia difficile comunicare così, in poche righe, il patrimonio di bellezza e di crescita intellettiva a cui si va incontro nello studio di una lingua antica (e anche contemporanea, beninteso, ma le lingue contemporanee godono dello status di "economicamente produttive" e non hanno bisogno di una difesa): si masticano parole che hanno una consistenza diversa rispetto alle nostre, parole che riflettono un sapere profondo, radicato nella nostra cultura e nella nostra coscienza che nel tessuto linguistico trova la sua perfetta collocazione. Non a caso il modo migliore di capire una civiltà passa attraverso lo studio del suo linguaggio, come diceva Foucault: nella lingua si depositano significati, mutamenti sociali, conquiste civili e scientifiche, ma anche crolli improvvisi, decadenza, corruzione. Latino, greco, aramaico, sanscrito e via di questo passo sono la nostra origine, e non, come buffamente sostiene qualcuno, il dialetto, che altro non è che una deviazione locale del latino parlato. Non sono le lingue a morire, ma la nostra capacità di comprenderle e di stabilire con loro un contatto, di farle entrare nel nostro vissuto perché ci rendano più forti, più consapevoli di noi e di quello che, ormai banalmente, viene definito identità. Si possono fare delle belle scoperte, le sorprese non mancano nell'universo linguistico che sta sotto di noi. Non alle spalle, ma sotto: perché ci è dato di camminare solo sulle spalle dei giganti.
Per l'alto mare aperto, di Eugenio Scalfari
lunedì 7 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Di solito non scrivo a proposito di saggi che ho letto, mi sembra di girare a vuoto, di non centrare mai il punto, di ripetere in modo scialbo quello che l'autore ha già detto. In questo caso mi sento di fare un'eccezione. Per l'alto mare aperto di Eugenio Scalfari è prima di tutto un percorso: cavalcata intellettuale a metà strada tra la riflessione ad alta voce e la discussione aperta sul grande tema della modernità. Parlare di saggio in senso stretto sarebbe fuorviante prima ancora che riduttivo: l'ultimo libro di Scalfari propone un punto di vista su un argomento, rivisita, in pagine ad alto tasso qualitativo, i temi, le letture, le curiosità di una vita pensata, e pensata, in senso lato, in funzione di quella grande ampolla culturale che è la modernità. Scalfari non tenta definizioni: tutto il suo saggio è in fondo un'unica grande risposta alla domanda: che cos'è il moderno? Nel libro si tenta una risposta: si individua l'origine negli Essais di Montaigne, si percorre questo filo sottile attraverso le pagine di Hegel, Nietzsche, Rilke, Proust, Leopardi, per poi trovare la conclusione del cammino, forse a sorpresa, nelle estreme propaggini di Montale e Calvino. Moderno, per Scalfari, è tutto ciò che si oppone al dogmatismo, che instaura nelle coscienze un dubbio, che pone la ragione (e il ragionamento) come unico faro nel mare delle idee. La sconsolata tesi finale è che siamo andati oltre quella fase, consegnati ad un imbarbarimento di ritorno, ritorti in una prospettiva che ha esaurito i grandi modelli del passato, per consegnarsi nuda ad un modello nuovo, e inquietante. Quale sia questo futuro imminente, è ancora difficile da dire. Per l'alto mare aperto è una lettura stimolante, colta, che offre, ad un livello ancora accessibile, gli strumenti di base per accostarsi alle idee pure: proprio ciò che oggi viene più sistematicamente ignorato, o peggio ancora deriso. Scalfari ci riporta a questa dimensione intellettuale dimenticata, proponendola indirettamente come tramite da riscoprire per guadagnare di nuovo la voce del proprio io, depositario per eccellenza di dignità, indipendenza, capacità critica, tutti quegli antidoti che una certa società dei consumi ha tentato con tutte le sue forze di annullare. Belle e originali le pagine su Rilke e Hegel; un certa sensazione di risaputo nelle osservazioni su Nietzsche e Proust. Di certo Scalfari si dimostra più a suo agio nel ragionamento filosofico che non in quello letterario. Peccati veniali in una lettura da affrontare, che in epoca di istant book e cialtronate di ogni genere riporta in primo piano i temi alti. Gli unici, in una vita così breve, che valga la pena di affrontare.
Dylan Dog e una istantanea sul significato
venerdì 4 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Rovistando tra una pila di fumetti consunti e oltraggiati dalle angherie domestiche, ho ritrovato alcuni Dylan Dog sopravvissuti alle decimazioni materne. Sono albi di un po' di anni fa, in uno stato di conservazione tutto sommato decente. Ero un fan critico dell'indagatore di Craven road; pur percependo la genialità dell'impianto narrativo, e l'originalità dell'idea di Sclavi, non riuscivo ad apprezzare completamente quell'impasto di horror, giallo, humor. Avvertivo la dinamica complessa, e di rimando, di molte di quelle storie: richiami letterari di genere alto e meno alto, riferimenti storici, incubi mescolati a realtà. Giunsi alla conclusione che Dylan Dog non faceva per me, e per una ragione abbastanza chiara: di molte storie non capivo quasi nulla. Non riuscivo, pur con tutta la buona volontà, a trovare il bandolo, il nesso, il significato. Era quasi frustrante, perché in quegli anni, nella fascia di età dagli undici ai sedici, avevo un disperato bisogno di senso. Non che ora non ce l'abbia più, ma, come dire, quell'esigenza pressante ha ceduto il posto ad una contemplazione più aperta e conciliante della cosiddetta questione testuale. In altre parole, con la crescita, quel tanto di maturazione, e quel tanto di riflessione culturale che ai tempi ancora non avevo, da un lato ho cercato di affinare il gusto, ma dall'altro sono arrivato a capire che il senso, in un'opera, non sempre è l'elemento più importante. Il senso è il significato, e ha un suo ruolo e una sua finalità, ma il traguardo per così dire estetico che qualsiasi lettore/fruitore si pone, si poggia su altre basi, che in Dylan Dog (che in quanto fumetto è un dispositivo narrativo oltre che un'arte sequenziale, come diceva Eisner) si accatastano e si confondono: queste basi sono i disegni? I riferimenti? Il piacere di viaggiare con la mente? Non ho ancora trovato una risposta, e forse nemmeno mi interessa trovarla. Come spesso accade, il vero interesse sta nel cercare. Per spendere un paragone importante ma non del tutto insensato secondo me, potrebbe valere per l'eroe di Sclavi lo stesso discorso fatto per il Leopold Bloom di Joyce. Con le dovute proporzioni, ovvio. Ma non siamo in presenza in entrambi i casi di una storia che poco o nulla ha a che vedere con la trama? Oscuro paradosso narrativo.
la voce che si spense
giovedì 3 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Mi riesce difficile spiegare il mio rapporto con Carmelo Bene. Mi dico sempre che prima o poi dovrò scrivere qualcosa di serio e documentato, invece delle note sparse che gli ho dedicato nel corso degli anni, ma ogni volta sono sempre costretto a rimandare. Un po' per una mia personale idiosincrasia verso gli scritti a tesi, un po' perché non sono sicuro che un saggio piccolo o grande gli avrebbe fatto piacere. L'insegnamento di C.B. è stato così vasto e profondo che non saprei nemmeno con esattezza da che parte cominciare. Prenderei degli appunti, mi rivedrei interviste, spettacoli, film, letture pubbliche, leggerei di nuovo la sua opera scritta, pubblicata da Bompiani in quel volume folle e genialmente assurdo finito sotto la voce Classico. Ma perché Carmelo Bene? Che cosa ha fatto di così importante, che cosa ha detto? E' stato un artista che ha pagato col sangue una vita di artista, sangue con cui ha impastato la terra, e ha creato la sua sabbia, il suo colore, la linfa con cui ha tracciato linee eretiche e sporcato le nostre certezze. Non ha avuto predecessori - qualcuno dice Artaud, ma è un paragone che regge solo in parte - ma tanti motivi ispiratori, musicali, letterari, pittorici, e soprattutto filosofici. L'opera di Carmelo Bene appartiene a pieno diritto ad un contesto culturale squisitamente filosofico, dove il regno dell'idea, o di quell'inconfessato noumeno sia kantiano che platonico, fa da impalcatura al detto e non detto della sua opera. Per me è stato ed è un maestro: di arte, di comunicativa, di pensiero.
Tutta questa premessa per dire che ho rivisto il suo primo lungometraggio, Nostra signora dei Turchi, tratto dal libro omonimo, sempre opera di C.B. Ancora una volta ha saputo spiazzarmi. Più cresco, più mi accorgo che questo film non film, negazione dell'immagine e perfetta macchina per immagini, ha una tavolozza di colori e significati pressoché inesauribile. Dentro a Nostra signora c'è un mondo interiore in continua agitazione, un perenne maremoto di sensi e pensieri, specchio di una mente e al tempo stesso della nostra mente. E' un'opera che va al di là del provocatorio, o che per meglio dire si inscrive nella categoria del provocatorio in senso etimologico: chi guarda è chiamato allo scoperto, non può non rivelarsi. L'ingorgo di richiami e di evocazioni dottissime quasi spaventa: l'universo intellettuale dell'artista si riversa in un caleidoscopio spigoloso e urticante. Ma bellissimo. Ecco, non trovo nessun altro aggettivo: c'è bellezza in ogni fotogramma, c'è arte, sofferenza, impossibilità di dire e urgenza di capire. Il primo lungometraggio di C.B. è un meccanismo esagerato, folle, compresso, che tracima dall'immagine ed esonda in un territorio difficile da definire. Il tentativo di andare oltre al cinema, in C.B., rimane un tentativo estremo, fallito in partenza, grande forse proprio per questa ragione: Nostra signora resta un punto d'arrivo e un punto a sé stante nel percorso artistico beniano, un atollo tempestoso, contro il mondo, contro la vita.
hi, Oscar!
martedì 1 marzo 2011
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Ariberto Terragni
Il vero cinema, mi sono convinto, non è nella cerimonia dell'Oscar. Lì ci sono solo damazze in bilico sui tacchi, attori col trucco pesante, lacrime alla glicerina, cinema che è solo una rassegna di americanate (va bene, bravo Colin Firth, vorrà dire che il suo Oscar pareggia quello scandalo dato a Cage nel '96), major che si spartiscono la torta in un tripudio di cartapesta e scemenze. Il cinema se vuole avere un senso deve rischiare qualcosa, deve essere giocato sulla pelle. Altrimenti non è arte, è uno spot. Ci sono due registi iraniani, Jafar Panahi e Mohammad Rasulov, che sono stati condannati a sei anni di reclusione e a venti di interdizione artistica (non potranno più realizzare film), da un regime violento e incivile. In tutta onestà mi sembra più degno di nota questo aspetto della questione cinema, che non i premi dorati di un gruppo di divi fuori dal mondo, confinati in un universo parallelo - quello americano - sempre più autoreferenziale e sempre più propenso a darsi premi addosso. Credo, con altrettanta onestà, che la macchina infernale delle statuette non possa essere considerata cultura, ma un modo tremendo e ipocrita di fabbricare affari, in un movimento macchinale che ormai sopravvive a se stesso, scevro di contenuti originali, lontano mille miglia dai cambiamenti di un mondo in ebollizione. Impossibile è anche paragonare gli stenti e le difficoltà realizzative dei cineasti indipendenti, che rischiano la pelle spesso in senso non metaforico, con le cialtronate dei pubblicitari americani, adagiati in poltrone di pelle umana, in mezzo a dive di plastica, a storie di amorazzi e a tutta quella paccottiglia che ormai rende buona parte del cinema americano la parodia del se stesso che fu.