Stavo sfogliando il bello e prestigioso volume di poesie del Federiciano in cui, per una serie di coincidenze astrali, mi è accaduto di venire inserito, con una poesia che, riletta adesso, ha assunto dei contorni per me falsati, allo stesso tempo tenui e distinguibili. Sì, l'ho scritta io, me ne assumo la responsabilità. L'ho scritta tempo fa, quando ancora di poesie ne scrivevo in massa, un po' per dare un senso alle parole, un po' per riordinare l'esperienza con un linguaggio evocativo e forse comunicativo. Non mi sono mai definito poeta né del resto credo di esserlo; uso con parsimonia il termine poesia, perché ne ho pudore, come se con il solo fatto di nominarla mi addentrassi in una dimensione troppo vasta, complessa, ma anche infinitamente intima e privata. Ho letto molta poesia, specie negli anni dell'adolescenza, perciò al massimo riesco a definirmi un lettore di poesia, ma del resto fatico anche solo a considerare lettore uno che non frequenti la poesia con devozione e rispetto. Quanto allo scrivere, quello è sempre stato uno sfogo, anche e soprattutto nel fare poetico che però, per quanto mi riguarda, è andato scemando nel tempo, visto il contemporaneo dilatarsi dell'attività narrativa. Non so nemmeno perché sto scrivendo queste frasi sconclusionate. Forse è solo per l'effetto inaspettato del trovarmi davanti a questa antologia, nella quale fatico ad individuarmi come me stesso, ma solo come autore, personalità scissa e distante che ha ricavato il massimo da uno sforzo tutto sommato ridotto, come è quello del fare poetico (almeno per quanto mi riguarda). A che cosa serve la poesia? Domanda di tutte le domande. Serve a chi la fa e a chi la legge, tutto qui. Diffidare di chi abusa di "cuore", "amore", "sentimento" e via dicendo. Sono tutti dei falsi.
0 commenti:
Posta un commento