Una decina di anni fa, quando ancora non sapevo fino a che punto e in che misura mi sarei occupato di letteratura e di lavoro culturale in genere, mi immaginavo un mondo di divulgazione cartacea, tangibile, che potesse passare fisicamente di mano in mano, che si ammonticchiasse nel vero senso della parola negli angoli delle librerie e delle credenze. Pur usando da sempre il computer e pur frequentando un web ancora piuttosto involuto rispetto a quello di oggi, adottavo un procedimento che era ancora novecentesco: assumevo cioè la veicolazione dell'informazione come un fatto di esclusiva competenza di riviste, giornali, quotidiani, case editrici e via dicendo. A mia discolpa posso dire che intorno alla fine degli anni novanta inizio anni zero era ancora piuttosto difficile ipotizzare, specie per un ragazzino, la capillarità raggiunta dal mezzo internet, ma questa è solo una parentesi. Fatto sta che oggi come oggi mi trovo ad usare internet come mezzo esclusivo di comunicazione letteraria: rispetto al panorama di qualche lustro fa, il passo è stato notevole. Da vetrina, specie di catalogo smisurato, il web è diventato il tramite stesso, come la carta e più della carta, assorbendo la funzione stessa della veicolazione e ponendosi come vettore esclusivo. Probabilmente sono più i pro dei contro: in un clima asfittico, dove gli editori che fanno il proprio mestiere sul serio sono pochi, e dove le possibilità creative per chi non ha padri e padrini sono poche o nulle, la rete ha assolto alla facoltà di scambio e di interpolazione di cui ogni autore, ogni critico, ogni operatore culturale ha bisogno. Servirsi di internet non è più un vezzo, o una moda o una scorciatoia, ma una necessità e, insieme, un esercizio di libertà e di sopravvivenza, laddove la dittatura dei tanti ha fatto terra bruciata intorno a chi non è amico o figlio o cugino o nipote di qualcuno.
riflessione di fine anno/2
lunedì 27 dicembre 2010
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Ariberto Terragni
Ho appena dato una scorsa ai romanzi che ho letto durante questo soccombente 2010 e ne ho ricavato un'impressione incoraggiante, visto che la media, letteraria e stilistica, si è mantenuta su livelli alti, senza sconfinare nei territori perigliosi della noia o del "farsi piacere" a tutti i costi qualcosa. Per esempio: Cent'anni di solitudine non mi piace, ho tentato di farmelo piacere ma non ci sono riuscito e in conclusione me ne sono fatto una ragione. Al di là di questo, mi incuriosisce rivedere il percorso intrapreso durante quest'anno; proviamo ad assegnare degli Oscar allora.
Nella categoria Riletture, Premio Speciale della Giuria a: Il mestiere di vivere, di Cesare Pavese, indispensabile caleidoscopio novecentesco, guida spirituale per scoprire un autore, modello di officina letteraria e umana di inesauribile ricchezza. Ex aequo, sempre nella stessa categoria, con Viaggio al termine della notte di Cèline, odissea nell'inferno umano dove tragedia personale e collettiva si fondono in un'unica miseria; affresco potente, irrinunciabile.
Nella categoria Sorprese, premio a: Trilogia della città di K., di Agota Kristof, libro da leggere, da capire, da tenere a portata di mano. Romanzo allucinato e allucinatorio che confonde il lettore, lo prende alle spalle, lo lascia stordito.
Nella categoria Romanzi Italiani, il romanzo che in assoluto mi è piaciuto, mi ha intrigato, mi ha convinto di più è stato Corporale di Paolo Volponi. I perché li ho già scritti nella relativa recensione: definirlo romanzo probabilmente è troppo poco, intrico di simboli e rimandi, mappa intellettuale di forze contrastanti. Un libro difficile, ma appagante per chi è in grado di arrivare fino alla fine, ma anche per chi al massimo arriva a qualche capitolo. Vorrei sfatare il falso mito per cui un romanzo va letto da cima a fondo, dalla prima all'ultima pagina: non è necessariamente così, non è una regola. Lo scrisse anche Daniel Pennac mi pare.
Altri due riconoscimenti: a Via Gemito di Domenico Starnone, che mi ha riconciliato con la lettura della narrativa italiana contemporanea dopo un breve ma travagliato periodo di sfiducia, e Hitler, di Giuseppe Genna, abile messa in scena del male, sottile indagine fenomenica non priva di qualche scivolone retorico, ma nondimeno potente nell'esito finale.
In conclusione, i due romanzi che avrei fatto meglio a non leggere: Macno di Andrea De Carlo, assurda e sgangherata ipotesi di futuro in piena involuzione stilistica anni 80. Un libro di carta velina. La svastica sul sole di Philip K. Dick, anche qui, romanzo distopico che in quanto a spessore non supera il cadeau di un sacchetto di patatine; ricostruzioni storiche improbabili, recondito razzismo nei confronti degli italiani, scrittura da terza elementare.
riflessione di fine anno/1
venerdì 24 dicembre 2010
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Ariberto Terragni
Verso la fine dell'anno, da qualche capodanno a questa parte, mi assale un pensiero tremendo, ma temo non del tutto infondato. Con quelli che la pensano come me (non pochi) discutiamo spesso del dopo Berlusconi, come se dietro l'angolo dovesse esserci la svolta, il naturale cambio generazionale che per magia riequilibrerà le devastazioni con le speranze, i mali morali con il riscatto della dignità. Ma forse sfugge un dettaglio, tanto più recondito quanto più macroscopico: il berlusconismo ha già vinto. Non sono un sociologo e non ho sfere di cristallo, ma leggendo, girando, osservando il clima sociale in cui viviamo, ho avuto la netta impressione che i danni causati da questa specie di controideologia sono molto più profondi di quanto possa sembrare. Un domani ci ritroveremo con un vuoto politico che nessuno si sta attrezzando per colmare; un vuoto di illusioni, di plastica, di cianfrusaglie su cui questa perversa forma di potere ha basato ogni millimetro quadro della propria essenza, e con cui è riuscita, a botte di lavaggi del cervello televisivi e mediatici, ha cancellare meglio di qualsiasi altra forma di costrizione ogni taccia di tensione civile e culturale. Ora, ci sono delle sacche di ossigeno, altrimenti l'Italia non potrebbe continuare bene o male a stare a galla, ma sappiamo che ormai si tratta di eccezioni che la mediocrità congenita di questo status politico fa di tutto per contrastare e piegare; c'è uno zoccolo duro e irriducibile che continua bene o male a funzionare, a progettare, a pensare in grande. E poi c'è la contingenza, quella che viviamo sulla nostra pelle, tutti i giorni: questa ferita profonda che serviranno generazioni per poter riparare. Una volta tramontato il berlusconismo (speriamo presto ma temo non tanto presto) rifioriranno tutti quei problemi, tutte quelle angosce annose che non sono mai state risolte e che nel frattempo, celate ma non cancellate, si sono ulteriormente ingigantite e articolate. E in più ci accorgeremo che anche ogni traccia di coesione sociale è andata perduta, ogni passo in avanti conquistato sul piano della civiltà vanificato. Ha già vinto, ha già scoccato il dardo mortale che possiamo solo provare a schivare alla bell'e meglio. Ha già vinto, e tutti i dettagli di fine impero, dalla questione giudiziaria in giù, sono, per l'appunto, solo dettagli.
a margine del foglio
giovedì 23 dicembre 2010
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Ariberto Terragni
Stavo sfogliando il bello e prestigioso volume di poesie del Federiciano in cui, per una serie di coincidenze astrali, mi è accaduto di venire inserito, con una poesia che, riletta adesso, ha assunto dei contorni per me falsati, allo stesso tempo tenui e distinguibili. Sì, l'ho scritta io, me ne assumo la responsabilità. L'ho scritta tempo fa, quando ancora di poesie ne scrivevo in massa, un po' per dare un senso alle parole, un po' per riordinare l'esperienza con un linguaggio evocativo e forse comunicativo. Non mi sono mai definito poeta né del resto credo di esserlo; uso con parsimonia il termine poesia, perché ne ho pudore, come se con il solo fatto di nominarla mi addentrassi in una dimensione troppo vasta, complessa, ma anche infinitamente intima e privata. Ho letto molta poesia, specie negli anni dell'adolescenza, perciò al massimo riesco a definirmi un lettore di poesia, ma del resto fatico anche solo a considerare lettore uno che non frequenti la poesia con devozione e rispetto. Quanto allo scrivere, quello è sempre stato uno sfogo, anche e soprattutto nel fare poetico che però, per quanto mi riguarda, è andato scemando nel tempo, visto il contemporaneo dilatarsi dell'attività narrativa. Non so nemmeno perché sto scrivendo queste frasi sconclusionate. Forse è solo per l'effetto inaspettato del trovarmi davanti a questa antologia, nella quale fatico ad individuarmi come me stesso, ma solo come autore, personalità scissa e distante che ha ricavato il massimo da uno sforzo tutto sommato ridotto, come è quello del fare poetico (almeno per quanto mi riguarda). A che cosa serve la poesia? Domanda di tutte le domande. Serve a chi la fa e a chi la legge, tutto qui. Diffidare di chi abusa di "cuore", "amore", "sentimento" e via dicendo. Sono tutti dei falsi.
un po' di moderazione
lunedì 20 dicembre 2010
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Ariberto Terragni
L'esistenza di "un'area moderata", di una "casa dei moderati" o anche semplicemente di qualcuno che possa mettere il cappello sulla parola "moderati", rivendicandone il possesso esclusivo, significa che da qualche parte esiste anche una Casa degli Smodati, un Parnaso dei Casinari, una Congrega degli Esagitati. In realtà siamo di fronte all'ennesimo caso in cui la politica, una certa parte della politica, si concede il lusso di martoriare un povero vocabolo che ha il solo torto di suonare qualunquista e vago quanto basta per consentire di tutto un po' a chi ne fa uso. Di moderazione, in questi lunghi e penosi anni, ce n'è stata fin troppa. Affannosi lustri di totale moderazione, di totale immobilità, che ci hanno consegnato ad un presente viscido e fangoso, dove la salutare contrapposizione tra gli opposti non esiste, o semmai si stempera in una solenne ammucchiata al centro, ma anche qui, dobbiamo capire che cosa sia il centro: un non luogo popolato da residui politici vari ed eventuali, una Casa del Nulla che sbandiera valori di carta velina e fa del sofismo verbale l'unico campo in cui la moderazione davvero eccelle. Non so, forse moderazione è correre da un lato all'altro dell'arco politico o rifugiarsi sotto questo o quello scranno; forse moderazione è davvero lo spettacolo deprimente e grottesco messo in scena nei giorni scorsi in parlamento, dove nemmeno la decenza è stata in grado di mantenersi entro termini moderati. Insomma, se la contendono un po' tutti questa moderazione: da Silvio (moderato?!) a questo nuovo terzo polo, dove di nuovo forse c'è la carta da parati (mi pare di aver adocchiato da quelle parti La Malfa, ma forse è stata una moderata allucinazione). In buona sostanza la forza politica che rifiuta questa categoria avrà ottime possibilità di aggiudicarsi il mio voto.
rumori di rivolta
venerdì 17 dicembre 2010
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Ariberto Terragni
Il politically correct, ci piaccia o meno, mal si accompagna con la ribellione. Non esiste, sotto nessun punto di vista, una ribellione che possa essere pacifica, democratica, o che dir si voglia. Una ribellione che non passa attraverso un'iniziazione che sappia metterla sul piano della potenziale autodistruzione è di per sé un tentativo abortito, e dunque sterile. L'atto del dire no, non può iscriversi, come il Potere pretende, entro i canoni dell'Istituzione: non può farlo se non a costo di smentirsi, di snaturarsi, di castrarsi in nome della Regola stessa che la ribellione si propone di abbattere. E' un circolo vizioso, e non se ne esce facilmente. Da un lato il logoro "senso di responsabilità" a cui si appella l'ancien regime, dall'altro la necessità, da parte del nuovo, di rompere le tenaglie e riscrivere la società secondo le proprie regole, con un alfabeto che non solo non è riferibile al "vecchio", ma che sotto il profilo storico politico e finanche linguistico, è del tutto incompatibile con i canoni del passato. La politica d'apparato ha in realtà compreso benissimo questo scarto, e lo teme. Prova ne è che per contrastarlo, in tutta Europa non solo in Italia, sta opponendo le solite armi della delegittimazione, della derisione, della repressione silenziosa; ma sono armi spuntate, perché appunto figlie di un universo di simboli e di prassi legate ad un regime morente, e un regime morente può poco o nulla contro il potenziale biologico del nuovo. Il potere, inteso come politica d'apparato e come Istituzione, può tollerare al massimo qualche manifestazione di stampo borghese, ossia comunque legata ai codici del potere stesso e di conseguenza liquidabile con i soliti giri di parole, con qualche promessa, qualche risibile concessione. Ma il punto è proprio questo: la ribellione non ammette concessioni; la ribellione prende, e basta; la ribellione si configura come un atto che sfugge all'alfabeto pre-costituito per inventarne un altro, tutto suo, cosa che l'apparato non può comprendere, se non a livello istintivo, e può solo provare a stroncare prima che sia troppo tardi. Ma è una gara senza storia, e per una ragione molto semplice: l'Istituzione ha tutto da perdere, il ribelle no. Contenere la forza distruttrice di una rivolta è assurdo prima che ridicolo. L'elemento barbarico, in altri termini, è l'essenza stessa della ribellione: ma è una barbarie carica di vita, di energia, di codici nuovi, di possibilità che il vecchio non era in grado nemmeno di sospettare. La rivolta non ammette ragioni che esulino dalla sua, e, la Storia ci insegna, accetta di trattare solo a tabula rasa, quando il manico del coltello è già passato di mano.
un giorno di ordinario schifo
mercoledì 15 dicembre 2010
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Ariberto Terragni
Quello che si è consumato ieri in parlamento, al di là del dato numerico in sé, è la più vera e pesante rappresentazione del potere a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Il potere nella sua forma più pura e nitida si è organizzato per rimanere esattamente dov'è; ieri, tra quegli scranni vellutati, si è determinata la frattura definitiva e insanabile tra potere (apparato politico) e oggetto del potere (noi). In un attimo tutte le chiacchiere su "bene comune", "bene del paese", "responsabilità nazionale" (questa frescaccia secondo me merita la Palma d'Oro) sono miseramente crollate, mostrando l'unico, vero volto che questa classe dirigente ha e abbia mai avuto: quello del mantenimento di se stessa ad ogni costo. In un miscuglio di compravendite, proclami, bugie pure e semplici, l'orgia parlamentare ha disvelato i suoi tratti peggiori ma, viene da dire, gli unici che abbiano un qualche valore di verità: tratti bestiali, incattiviti, tanto più spaventosi perché ormai palesi, dichiarati al pubblico senza più bisogno di ricorrere a salotti televisivi e make up da quattro soldi. La summa di questo porcile, il tratto esemplare che rimarrà nelle menti di tutti, è probabilmente quello dei parlamentari transfughi, gli indecisi, i voltagabbana, quelli che fino all'ultimo hanno provato, in modo patetico, a difendere la loro indifendibile posizione adducendo chissà quali ragioni politiche e cercando di infinocchiare tutti, ancora una volta, circa la moralità delle proprie scelte. Il potere invece ha un solo valore: il proprio mantenimento, e ieri ha fatto quello che sa fare, escludendo i cittadini da qualsiasi possibile rapporto ambivalente, perché i cittadini, ieri, erano l'ultimo dei pensieri di questi signori. Se la democrazia è soprattutto scambio, ieri abbiamo assistito nel contempo ad un'orgia e a un funerale, dove sotto terra è finita la dignità parlamentare, ossia democratica, ossia nostra.
Storie dall'Altipiano
lunedì 13 dicembre 2010
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Ariberto Terragni
E' un po' difficile parlare di un libro che non si è ancora letto; è difficile ma non impossibile se il volume in questione è un grosso e prestigioso Meridiano Mondadori dedicato a Mario Rigoni Stern, scrittore e alpino scomparso di recente. Non ho ancora cominciato a leggerlo, ma so già che quello che ho di fronte agli occhi è un libro importante, un evento culturale non da poco, in cui i temi dell'etica e dell'estetica si fondono in modo naturale, con sobria e composta eleganza. Perché Mario Rigoni Stern è stato un grande italiano: una faccia buona e onesta in un mondo brutale e cattivo. Colpevolmente non ho ancora letto niente di suo, ed è una pecca che mi imbarazza un po' confessare, ma poco importa in fondo: rimedierò. Il desiderio di capire meglio l'opera dello scrittore dell'Altipiano è arrivata in modo credo curioso: ho ascoltato una sua intervista di qualche anno fa a Che tempo che fa, in cui, col pretesto di presentare un'opera, ha parlato di ricordi, di vita, di morte; ha raccontato della guerra e dell'odore della neve, di Primo Levi e del suo rapporto con la natura. Le parole non sembravano quelle di un uomo anziano, ma quelle di un uomo che ha molta vita alle spalle e che in tutta questa distesa di vita ha trovato un insegnamento, forse anche un senso. Quelle di Rigoni Stern non sono paternali, non sono nemmeno aneddoti sbiaditi dal tempo: sono parole pesanti, che si imprimono nella memoria come un marchio a fuoco, parole che non ci si stanca di ascoltare, e che finiscono per far parte di noi, della nostra esperienza. La sua figura mi ricorda tanto una di quelle luminose immagini bibliche dedicate alle senescenza, dove colui che se ne andava non era 'stanco' ma 'sazio' di vita, con tanta esperienza e tanti ricordi, sufficienti a poter dire di aver esaurito il proprio ciclo, con serenità, senza accanimento né rancori.
Il male oscuro, di Giuseppe Berto
venerdì 10 dicembre 2010
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Ariberto Terragni
Se volessimo a tutti i costi inserire in una casella Il Male oscuro di Giuseppe Berto, potremmo tentare di definirlo un romanzo saggio, con in aggiunta lo sfondo dichiaratamente autobiografico. L'autore è il protagonista di queste pagine, e in esse si mette a nudo, senza reticenze, senza giri di parole, anche a rischio di risultare indelicato o addirittura sgradevole. Il male oscuro è il diario di bordo di un nevrotico, alle prese con una vita che non quadra, con il peso schiacciante del passato e l'ingombrante ricordo del padre morto. Il libro, pubblicato nei primi anni sessanta, suscitò scalpore, reazioni vibranti, e la ragione non è difficile da intuire: il racconto senza filtro di una disfatta, la cronaca in tempo reale e con tutti i dettagli di un declino psicofisico, può essere urticante, sicuramente provocatoria. Berto parla di sé, ma anche dell'Italia fascista traghettata, non senza contraddizioni e ridicolaggini, nel nuovo corso democratico e repubblicano; parla della vita di provincia, ma soprattutto smitizza senza troppi complimenti il topos della famiglia patriarcale: il padre, convitato di pietra e destinatario inconfessato del romanzo, è la figura negativa che motiva la regressione sempre più marcata della psiche dell'autore - protagonista. Il padre carabiniere in congedo che si firma ostinatamente cognome e nome, il padre autoritario e ingiusto, il padre ipocrita, pasticcione, incapace di gestire la modesta attività di cappellaio ma sempre pronto a dispensare consigli e a profetizzare sventure agli altri. Quella del maresciallo in pensione, è una delle figure più grottesche e insieme tragiche della narrativa italiana contemporanea: un agglomerato inestricabile di meschinità e ipocrisia, di cinismo e luoghi comuni. In una parola, il ritratto della piccola borghesia italiana di ora e di sempre. Il Federì di Starnone, al confronto, è un simpatico scavezzacollo, capace di scoppi d'ira ma anche di improvvise tenerezze; in Berto qualsiasi tentazione bonaria, umana, sentimentale in senso lato, è azzerata. Il maresciallo è un muro contro cui continuare a sbattere, all'infinito, senza possibilità di confronto né di redenzione. Madre e sorelle sono quasi annullate, fagocitate dall'imponenza del padre. La moglie, poco più di un inciampo, di un fastidio. Ma per capire questo romanzo è impossibile prescindere dalla chiave psicanalitica: la svolta, nella vita dell'autore, giunge con la cura della psiche, o forse sarebbe meglio dire con la discesa ad occhi chiusi nel labirinto di Es e Super io, di pulsione e inconscio. Berto ne parla da esperto, vittima e complice di una scienza in cui talvolta crede e che talvolta giudica poco più di un placebo. La trama avvolgente e disperata con cui ci avvolge questo romanzo, romanzo saggio, metaromanzo (c'è la sensazione di un romanzo nel romanzo in qualche caso) può avvincere, o per contro disturbare: sono i due estremi in cui la coscienza dell'autore e quella del lettore possono sperare di incontrarsi.
John Lennon, trent'anni dopo
mercoledì 8 dicembre 2010
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Ariberto Terragni
Ricorre il trentennale della scomparsa di John Lennon, eroe contemporaneo, immagine ormai debordata nel mito, incorporea, eterea come quell'immagine di cui cantava nel celebre brano. Morto così, per la follia di un pazzo, per il gesto isolato di una mina vagante, l'artista ha finito per avere la meglio sull'uomo, l'arte sul segno, la potenza evocativa sul percorso esistenziale. La risonanza sociale, e ormai potremmo dire storica, di Lennon ha avuto la meglio sul tempo, raggiungendo quella gloria imperitura e quasi ingombrante a cui tutti i depositari di profonde verità alla fine ambiscono. O forse no, John Lennon, musicista di Liverpool proveniente da una realtà familiare non facile, avrebbe preferito fare a meno della gloria per continuare semplicemente a vivere, a scrivere e a cantare canzoni, a dare fastidio con la potenza del suo messaggio e a mobilitarsi per la giusta causa. Non sarebbe diventato un mito, forse, ma ci avrebbe tenuto compagnia più di molti falsi amici. Dopo trent'anni scopriamo che questo ragazzo dai mille volti (paffuto adolescente, ascetico guru anni settanta, barbuto chitarrista, occhialuto opinion leader) non solo è presente, ma ha addirittura precisato la sua collocazione, sì, perché con la giusta distanza abbiamo scoperto che le sue prese di posizione erano davvero rivoluzionarie, e non solo o non tanto una moda seguita e in qualche caso guidata con particolare senso etico ed estetico: erano carne, erano sangue, erano in una sola parola arte. La sua musica, da cui tutto è partito e a cui tutto torna, è ancora con noi, migliore e più sana di tutto il pattume che lo star system internazionale ci ha rovesciato addosso in questi decenni. E' la grande vittoria di Lennon: dopo le lotte per la pace, la lotta, forse ancora più grande, contro il conformismo. Sicuramente un John Lennon oggi sarebbe stato ancora più scomodo, ancora più inviso alla grande fabbrica dell'inutile che sorregge le nostre malandate economie. Ed è questa forse la ragione per cui oggi ci manca ancora più di trent'anni fa.
l'urlo
venerdì 3 dicembre 2010
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Ariberto Terragni
Ho sempre creduto nella forza e direi nella necessità della politica. Spontaneamente, non sono mai riuscito a scindere il discorso intellettuale da quello dell'impegno civile, non so se per via della formazione o dell'educazione o di che altro. Istintivamente, fin dagli anni dell'adolescenza, sentivo l'indicazione di Pericle (ma anche di Platone) secondo cui chi non si interessa alla vita pubblica è non solo inutile ma anche dannoso, come un modello non dico assoluto (capisco chi non riesce ad avere una visione politica della società, per quanto ossimorico possa sembrare), ma intelligente, utile, quasi indispensabile per chi, come me, stesse maturando un'idea di mondo e di relazioni tra le persone. Perché amo considerare la politica soprattutto come un sistema di relazioni, dove per relazione non si intende la clientela o peggio ancora il favore assurto al ruolo di istituzione fondante, ma un concetto di inferenze, di scambi, di vissuti condivisi in progetti e sperimentazioni che abbiano come scopo un miglioramento progressivo. In opposizione a Hobbes e Machiavelli, ma in vicinanza con il modello greco, tanto per dire: non sono mai riuscito a concepire uno Stato come un modello artificiale, un Leviatano prodotto da una serie di azioni meramente meccaniche, atte a raggiungere un equilibrio e una forma che se tende alla pace e alla collaborazione lo fa solo per utilitarismo. Ci sono le contingenze storiche ovviamente, come ci insegna Aristotele: la migliore politica è quella che garantisce la migliore forma di governo possibile in una data situazione, ma mantenendo, come dire, una tensione verso l'ideale utopico, ossia l'irrealizzabile governo ideale. Il discorso diventerebbe lunghissimo a volerlo sviscerare anche alla luce delle teorie espresse dal novecento, che qui non cito nemmeno. Ma la mia domanda di fondo, alla luce di tutto ciò, è una sola: che cosa rimane della politica nella prassi di palazzo quotidiana? Nulla. Lo scambio, anche simbolico, tra le ramificazioni in cui si articola una società è inesistente, azzerato, o addirittura banalizzato come una perdita di tempo. Per questo il dibattito politico del nostro paese (non so degli altri) è di basso, bassissimo profilo: perché non ha forza dialettica. E se prendiamo per buono il concetto che vuole l'uomo animale sociale, e dunque individuo che si realizza per mezzo dello scambio con gli altri, siamo costretti a concludere che abbiamo raggiunto il perfetto fallimento di tutte le istanze filosofiche che hanno costruito il pensiero fino ai giorni nostri: vale a dire un patrimonio millenario sprecato in cambio di niente. Una conoscenza barattata per le esangui (diciamo così per puro eufemismo e per non incorrere in querele) figure che popolano la nostra politica: piccole persone, con piccoli progetti e poca grammatica. Chiudo con un'immagine, che può sembrare al di fuori del ragionamento fin qui esposto, ma che secondo me è emblematica di tutta una fase: il discorso del nostro ministro della Pubblica Istruzione diffuso a mezzo youtube: io a questo esponente politico non so che cosa dire. Non so quale codice espressivo usare, quale alfabeto mi possa consentire di entrare in contatto con lei, perché il problema, a questo punto, è anche di codice. E' di sensibilità, di cultura, di interessi. In quelle parole, così povere, così banali, non si trova traccia di politica, non si trova traccia di progetto. Di più, non si trova traccia di cultura. Per quello che mi riguarda nelle parole di quel messaggio si registra l'inquietante grado zero della politica, ammesso che per politica siamo disposti ad assumere qualche modello alto, e non questo scribacchiare mediocre, scadente, che ci trascina in basso come una zavorra e che pretende di essere la nostra guida. C'è una libertà che è una libertà di spirito, di opinione, di pensiero che consente di non sottostare a tutto questo, che permette di scavalcare questi orizzonti da tinello che nella bassezza dei luoghi comuni ci è impossibile individuare: quell'orizzonte siamo noi, con la nostra capacità di pensare, di scegliere, di capire che la realizzazione di una società parte dalla coscienza dei singoli, e che il vizio del pensiero è contagioso, prezioso, difficile da coltivare, ma impossibile da contenere.