Non ricordo con esattezza quando ho conosciuto Emil Cioran. So che ad un certo punto è entrato nella mia vita, e lì è rimasto in pianta stabile, e che con minore o maggiore energia si è mosso in quello che pensavo e facevo. Dico così perché in realtà mi piacerebbe avere in mente una data precisa, o anche solo approssimativa, in cui il filosofo franco rumeno ha cominciato ad interagire e dialogare con me, perché ciò mi consentirebbe di chiarire alcune cose con me stesso, e stendere queste brevi note con una consapevolezza diversa. Purtroppo, al momento non mi è possibile trovare riferimenti precisi. Come tutte le grandi scoperte, si è trattato di un processo graduale, passato attraverso vari gradi di consapevolezza, dall’impatto iniziale alla meditazione più accurata.
Non ho avuto la fortuna di conoscerlo, e questo, insieme al non aver potuto assistere ad una messa in scena dal vivo di Carmelo Bene, è uno dei più grandi rimpianti che mi gravino sul cervello. Del pensiero di Cioran si sa tutto, di Cioran uomo poco o nulla. Doveva essere un tipo abitudinario e preciso, spartano e dedito al proprio lavoro, senza illusioni e senza pretese di gloria. Pietro Citati ce ne dà un bellissimo ritratto, in cui descrive con affetto il suo studio a Parigi, la sua routine semplice e quasi ossessiva. Me lo immagino come un uomo con cui fosse un piacere parlare, dal pensiero straordinariamente aperto e disponibile al confronto. Cioran non ha avuto niente delle vippaggini che hanno contraddistinto altri intellettuali del novecento, da Sartre a Heidegger, celebrato maestro il primo, venerabile professore il secondo. Cioran è andato oltre le etichette, non ne ha mai accettata nessuna: ha condotto un’esistenza fuori dal tempo, che era anche l’unica che potesse andare bene per un temperamento ombroso e incredibilmente sensibile come il suo. Era un apolide, non aveva più nazionalità. Nato in Romania, era riuscito a rimanere in Francia grazie a qualche innocuo sotterfugio, e lì era rimasto, eleggendo la Ville Lumiere a proprio rifugio e musa ispiratrice. Non si trattava di una brutta scelta: Parigi è sempre stata il centro del mondo, il termometro delle ambizioni di un’Europa che dopo la guerra annunciava già tutte le contraddizioni che l’avrebbero portata nei decenni successivi al dissesto economico e sociale. E poi in Romania c’era stata l’adorata infanzia, quel periodo felice e sereno concluso il quale si era scontrato con quel senso del vuoto e del precario che non lo abbandonerà più, fino alla fine dei suoi giorni. Nonostante il successo internazionale, nonostante schiere di ammiratori tenaci: Cioran non sapeva che farsene. Era un solitario, viveva in un piccolo studio che Citati paragona alla tana di un cane o a una gabbia per uccelli. Col tempo, si era accontentato di pochissimo, si era ritirato per una precisa scelta: si era ritirato per tutta la vita, ma allo stesso tempo la sua coscienza era avanzata fino a confini che un comune lettore può solo vagamente intuire. Si dichiarava ateo, ma aveva stretti rapporti con quel dio assente, quel convitato di pietra, quell’ospite muro: era una delle sue poche compagnie, in fondo. Per il resto c’erano le lunghissime passeggiate per Parigi, per le campagne, o anche negli amati giardini del Luxemburg. Verso la Romania provava sensazioni velate di tristezza e disapprovazione: nonostante sia stato uno dei suoi figli più illustri, le valutazioni sulla sua terra di origine variavano dalla rabbia alla compassione. Era un apolide, un uomo senza radici, scaraventato nel mondo e fuori dal mondo stesso.
Per quanto riguarda le sue idee, ci sono i libri che ha scritto. Non moltissimi per la verità. Sono pagine sanguinanti, frutto di un corpo a corpo con il mondo, la ragione e l’intelligenza, stilisticamente perfette, nitide come un’opera della classicità. Non era un pessimista, e neanche un nichilista, semplicemente era un uomo che non credeva più a niente, e che nonostante il peso di questo vuoto era in grado di guardare con gratitudine alle piccole cose, alle amicizie vere, alla bellezza di un paesaggio, alle parole rubate per strada dalla bocca di uno sconosciuto. Cioran era in grado di far prendere forma ad un pensiero anche da un tratto banale della quotidianità, rovesciando il punto di vista comune per ottenere una visione nuova eppure già essenziale: era un mago del rovesciamento di fronte. Come riesci ad afferrare un concetto, lui è capace di confonderti, di rivoltarlo completamente e di farti apprezzare una prospettiva che non eri nemmeno in grado di ipotizzare. Ma non era un sofista: era uno scettico, come lui stesso amava definirsi. Grande ammiratore di Epicuro, se non fosse che il filosofo greco avesse scritto tanto, raffinato conoscitore di Georg Simmel e Schopenhauer, ma anche cronista critico del pensiero, divulgatore del negativo sempre sul filo di una sottile e corrosiva ironia.
Non ha lasciato un sistema di pensiero, o, girando i termini, non ha mai costruito una filosofia sistematica, in cui teorizzazioni e procedimenti appaiano in sequenza, secondo una logica ferrea. Diceva di avere il frammento nel sangue, e questo è stato il suo lascito: aforismi, apologhi, brevi saggi in cui condensava una cultura e un’intelligenza senza pari; didascalie chirurgiche, lampi di genio improvvisi con cui demoliva un preconcetto o avanzava una riserva. In un gioco di associazione mentale, se dovessi scegliere un termine da affiancare all’immagine di Cioran opterei per “dubbio”: quest’uomo è stato divorato dal dubbio, dominato dall’incertezza, e per questo tanto più portato a denigrare e demolire tutti quei sistemi fondati su assiomi o verità assolute. Guai a definirlo ateo, però. In Cioran, per quanto possa sembrare paradossale, la tendenza al sacro è presente quasi in ogni frangente: una propensione spesso negativa, conflittuale e violenta, da cui però emana la sensazione di una ricerca ininterrotta. La parabola dolente dello straniamento lo porterà a rinnegare la propria lingua per abbracciare quella francese, scrivendo quella decina di capolavori o poco più che costituiscono la summa del suo pensiero: da L’inconveniente di essere nati fino a Confessioni e anatemi. Il primo e l’ultimo, due raccolte di epigrammi. Due modi di esprimere l’urgenza della vita che soccombe al Banale e al Caso. Due modi anche di dare sfogo a quella sua vena intrinsecamente orientale, che troverà conforto nella filosofia buddista e nella sua divulgazione, assimilata e acclimatata, in numerose tracce della sua prosa. In un certo senso, lo stesso percorso compiuto da Schopenhauer, ma sottratto al sistema, alla ritualità, alla ricerca della compostezza formale. In Cioran tutto è magma, risalita di materiale incandescente dal profondo della terra, impasto di segni e sentimenti che affondano in una cultura complessa e composita, la sua: mitteleuropea, francese, orientale.
Questo distillato finissimo troverà la sua maggiore espressione negli ormai mitici Quaderni, dove il tutto troverà finalmente la requie di un punto fermo, di un approdo: è quella pagina vergata quotidianamente, con pazienza e con sforzo, quella pagina che lo salverà tante volte dal suicidio e che conserverà la parte più privata e inviolabile della sua natura, quel nucleo vivente che poi si trasmette ai lettori di oggi, così potente e vitale ancora adesso. I Quaderni sono il suo ultimo lascito, la sua verità inconfessabile. Mai letto niente di così denso e disperato insieme. Nemmeno Kafka ha potuto tanto nei suoi diari. La descrizione di ciò che rappresentano questi scritti quotidiani porterebbe via molto spazio però. Siamo in un territorio troppo scosceso, troppo ricco di significati perché si possa anche solo tentarne un sunto.
Del resto è Cioran stesso che mal sopporta una collocazione critica definitiva o anche solo tentata: quando si ha a che fare con un sistema asistematico, con un fluire libero e rigoroso di idee, diventa difficile mettere ordine filologico prima ancora che filosofico: la mente di Cioran tende a dilatarsi in moti lunghissimi, così come cade spesso in brusche ritirate, di cui è difficile tracciare le coordinate e le ragioni. Ne sono un esempio le ricerche saggistiche sul popolo ebreo ne La tentazione di esistere, sorta di ricognizione privata e atemporale della storia di un popolo, di una cultura che “sconcerta la Storia”: l’autore discerne, medita, studia i materiali e propende per la sintesi divulgativa. Ma è solo un passaggio. Il movimento interiore di Cioran è troppo grande, troppo esigente perché possa essere messo a tacere: la sua voce è un soffio interrotto, un silenzio carico di senso. Caso curioso per un alfiere del non senso, della casualità delle cose, e della loro fondamentale inutilità. La spiegazione in questo caso potrebbe essere la più semplice: la sua è una filosofia della prassi, quella che un tempo si sarebbe detta empirica, e come tale non può sottrarsi al reale, all’immanente, agguantando l’essere per la coda, per un soffio, ma nondimeno cogliendolo. La sua linea di pensiero è come non mai viva, presente: non può limitarsi alla negazione (anche se di questa fu un vero, grande maestro). Detto in altre parole, Cioran non propone vie d’uscita (semplicemente perché non ce ne sono), ma in questo modo già ci dice qualcosa sulla natura umana che di per sé è molto più che una risposta: è la salvezza. Non contando nulla, non avendo nulla da chiedere e meno ancora da dare, l’uomo ha trovato la sua collocazione: in un limbo dove a vincere può essere solo il dubbio. Con uno sforzo di immaginazione, si potrebbe azzardare un parallelo con un altro grande della negazione: Albert Camus. Un filosofo che dicendo di no, già ci dice qualcosa, e non è detto che la natura di questo qualcosa sia per forza negativa: piuttosto un invito alla resistenza, al recupero del senso (o della sua parvenza, ma poco cambia) attraverso la resistenza nell’immanenza. Nel caso di Cioran anche attraverso gli espedienti più sconcertanti: come considerare l’idea di suicidio l’unica strada percorribile. L’idea, non il suicidio in sé, che comunque sarebbe sempre insufficiente. L’idea di eliminarsi è una soluzione a portata, buona per tenere a freno il proprio, devastante essere per la morte, tenendo il bilico l’esserci con la sua antitesi, in un equilibrio precario che però si presenta come l’unica e più dignitosa strada percorribile. Una scelta estrema e crudele, a cui però l’autore rumeno si atterrà sempre con straordinaria coerenza, come se in fondo tutto il suo io altro non fosse che l’estrema sintesi di questo gioco al massacro che alla fine non vedrà prevalere nessuno. Nemmeno la morte, perché, come Epicuro ci insegna, quando c’è lei non ci sono io.
Cioran non ci ha lasciato una dottrina, e nemmeno un credo. Non c’è traccia di progettazione, così come non ci sono tentativi di recupero in extremis nel suo dialogo con il mondo, e questo resta probabilmente uno dei suoi meriti maggiori: non ha cercato la consolazione, non ha voluto porre a suggello della sua opera una via di fuga, provando magari a ricorrere a qualche espediente retorico o sofistico. Il suo capolavoro sta nella teorizzazione della noia. Noia, o per meglio dire cafard, quella bellissima parola francese che descrive proprio quello stato d’animo ineffabile partecipe di malinconia e noia appunto. In questa dimensione rarefatta e dilatata il tempo perde del tutto di senso, e lo recupera l’io: cosa comunque piccola, misera, inadeguata per qualsiasi utilizzo. Ma, al contrario di quanto si possa pensare, questa ammissione di impotenza, di piccolezza, non costituì alcun tipo di sollievo, anzi: fu una dannazione per certi versi definitiva. La grande battaglia di Emil Cioran si consumò nella perfetta consapevolezza della sconfitta finale; la sua parabola è nel segno della più perfetta umiltà, laddove umiltà non significa falsa modesta, ma adesione al male del mondo, stoica accettazione, in un parallelo – etico, emotivo – con la grande tradizione moralistica francese.
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