La carta e il territorio è sbarcato sul mercato librario dopo una trepidante e giustificata attesa; il suo autore infatti può essere annoverato tra le maggiori personalità letterarie viventi, in Europa e non solo. Michel Houellebecq è uno dei pochi, grandi cantori del disfacimento contemporaneo: da analista, osserva il corpo che si sgretola, la memoria che non c'è più, l'organismo sociale che scende a patti con tutto e con tutti pur di sopravvivere nel nome del benessere acquisito. Va da sé che la critica dello scrittore nasce da una notazione tanto semplice quanto per certi versi illuminante: l'accumulo, nella società tardocapitalistica, è presagio di morte; l'insaziabile e ingordo arricchimento di cose prefigura un crollo verticale, perché la produttività spinta all'estremo, la competizione senza senso nel nome degli oggetti e della prevaricazione quantitativa può risolversi solo in un processo autodistruttivo.
Volendo aprire una piccola digressione, ho notato una specie di doppio binario in Houellebecq: se da un lato la sua adesione al principio di alienazione individuato da Marx è evidente (l'uomo non è più consapevole di quello che fa, non sa perché lavora né ha coscienza di ciò che produce se non i un'ottica di quantità), dall'altro si avverte un distacco netto dalla visione materialistica della storia, per cui il progredire storico dell'uomo non può essere assimilato alla sua produzione di beni, né dal punto di vista del come né del quanto. Dire forse che Houellebecq tenti di recuperare il senso hegeliano del processo spirituale della Storia, sarebbe forse eccessivo: di certo, una volta presa coscienza della propria condizione alienata, l'uomo narrato dallo scrittore francese ha un moto di ribellione interiore, fatto non sempre sufficiente a salvarlo, ma quasi sempre necessario nell'ottica del riscatto personale. Esemplare, sotto questo profilo, il bellissimo finale della sua prima prova romanzesca (o se si vuole narrativa), Estensione del dominio della lotta, quando il protagonista oppone al moderno, al contemporaneo, il perdersi letteralmente nei meandri di una foresta: si ritroverà, si smarrirà? Non lo sappiamo, non è compito del narratore dircelo. Ciò che conta è la descrizione della presa d'atto, culmine di un vero e proprio processo di autocoscienza.
La carta e il territorio si pone generalmente nel solco di questa convinzione. Dico generalmente perché quest'ultimo romanzo segna una piccola frattura rispetto alla produzione precedente dell'autore: gli ingredienti tipici di Houellebecq ci sono tutti, ma dosati in modo differente, come se certe tendenze – la malinconia, la solitudine, l'intima consapevolezza che ognuno è abbandonato al proprio destino – fossero sempre presenti, ma giocate in modo meno rabbioso. Il disincanto, in questo romanzo, ha la meglio su tutto. Anche il vitalismo precario e insufficiente rappresentato dal sesso, altro grande topos dello scrittore, qui è del tutto assente: l'umanità di cui ci parla è in balia delle cose, dei soldi, ma anche qui senza la carica dirompente del rampantismo o della scalata sociale: la macchina economica non è che l'ennesimo meccanismo, innescato dal bisogno e alimentato dall'abitudine.
La carta e il territorio ci parla di un artista, Jed Martin, talentuoso pittore fotografo che ha successo grazie all'intuizione (qui veramente geniale) di elaborare graficamente le carte geografiche della Michelin; il romanzo ci parla della sua vita, dei suoi incontri, dei suoi ripensamenti artistici: il passaggio dalla fotografia alla pittura, le mostre, il rapporto difficile con il padre. Martin è il classico personaggio alla Houellebecq: solitario, insofferente, alla ricerca di un senso che intuisce impossibile da trovare; anche stavolta si tratta di un uomo ricco, un ricco quasi per caso: la fortuna economica arride in abbondanza, all'improvviso, senza peraltro risolvere quasi nulla. Spesso in Houellebecq i protagonisti hanno molto denaro: liberi dagli obblighi formali, possono affrancarsi dalla macchina della produzione per osservare il mondo dall'esterno: sono degli ex alienati in un mondo di alienati, uomini senza catene in un panorama di schiavi. Il denaro serve per intraprendere una nuova perversione: quella dell'autoisolamento dal mondo, nella convinzione, mai smentita ma sempre in bilico, che la vera ricerca sia quella dentro di sé.
Tra i personaggi con i quali Martin si confronta ce n'è uno in particolare: Michel Houellebecq stesso, l'autore che si fa attore della propria scrittura, l'autore che interagisce in prima persona, in un salto mortale all'interno del genere metaletterario. Trovata letteraria di pessimo gusto? Colpo di teatro di uno scrittore alla corda? La presenza di Houellebecq, possiamo dirlo subito senza rovinare nulla della lettura, non serve a niente. Ripeto: non serve a niente. I paragrafi dedicati al rapporto di Martin con il suo “creatore” avrebbero potuto essere risolti con qualsiasi altro personaggio: non ci sono ragioni specifiche per cui l'autore abbia voluto mettere in scena se stesso. Le cause, ammesso che abbia senso cercarle, si trovano da un'altra parte: nel territorio impervio della psicologia di Houellebecq, nel suo narcisismo decadente, ora vellutato, ora, come in questo caso, decisamente morboso. Se nelle prove precedenti, soprattutto ne Le particelle elementari, la scoperta andava di pari passo con la decomposizione, ne La carta e il territorio siamo in piena necrosi senza riscatto: l'artista è nelle cose negli eventi, e tutto ciò che può opporre è la sua arte, il suo tentativo, generoso ma destinato a fallire, di dare una forma al mondo, di cristallizzarlo in una paradossale visione tangibile. Martin è un uomo che “funziona nonostante tutto”, come quella caldaia che procede a singhiozzo, quella caldaia riparata in qualche modo che scalda troppo o troppo poco, metafora finanche facile dell'incompletezza dell'individuo, che vive, ma solo in mancanza di meglio.
Stupisce, come si diceva sopra, l'assenza dell'elemento sessuale, da sempre presenza ingombrante ed esagitata dell'immaginario houellebecquiano: quell'estremo anelito di ribellione, cercato spesso e volentieri nel rapporto mercenario, qui lascia spazio ad una elegia rassegnata e quasi indifferente: le donne, e in generale i rapporti con gli altri, passano nell'impossibilità di afferrare l'istante. Le donne, in un'altra metafora (questa volta ostica e quasi odiosa), percorrono una via parallela a quella del denaro e delle amicizie: capitano. L'unico incontro, decisivo e sofferente, è quello con il padre architetto: ma qui siamo nel mondo dell'incomunicabile. I due avrebbero molto da dirsi e tutta la buona volontà per farlo, ma la differenza di alfabeti rende impossibile ogni scambio, e persino la morte – convitato di pietra di ogni narrazione che si rispetti – non basterà a ricomporre il quadro.
Nel complesso, la prova di Houellebecq è, nella mia personale convinzione, al di sotto delle aspettative. Non trovo ne La carta e il territorio i motivi di entusiasmo che la critica di mezzo mondo ha riscontrato: il sangue, questa volta, è solo un coagulo, un residuo. La vita di Martin, alter ego dell'artista, non ha nulla di esemplare o memorabile, e anche in questo suo sostanziale anonimato, non riesce mai a farsi paradigmatica; non è uno Zeno Cosini tanto per intenderci, e il suo travaglio interiore, questa volta, lascia a tratti perplessi. E questo perché Martin non è un tipo umano, ma solo un tipo economico: un artista anche troppo compreso, inserito in una girandola produttiva di cui lui si limita a coglierne, a tratti addirittura passivamente, i frutti. Non è né antipatico né simpatico, né coraggioso né inetto: la sua figura si inserisce in una zona che è grigia a tutti gli effetti e che non ha la forza, non ha la caratura per imprimersi nella memoria.
A conferma di questa tesi, la mania di Houellebecq per la citazione di marche e caratteristiche tecniche esonda, senza controllo, senza più alcun freno: l'intero romanzo è un'orgia di apparecchi, libretti di istruzione, citazione a più non posso di marche e prodotti. Logica commerciale, sicuramente, ma anche pericolosa tensione iperrealista dell'autore, che se spesso lo salva dal melenso e dal patetico (due malattie da cui Houellebecq è assolutamente immune, onore al merito) da un altro punto di vista lo condanna ad una spirale di puro utilitarismo, di minimale funzione didascalica che non gli rende francamente giustizia.
Ne risente la lingua: in ribasso. L'impianto propriamente linguistico segna un passo indietro rispetto agli altri scritti. Quella lingua così tersa, chiara, logica, si è deteriorata fino a diventare poco più di uno standard narrativo o, se si vuole, una traccia semantica di qualità medio bassa, incapace di farsi realmente personale, come avvenuto in altri casi (Estensione del dominio della lotta o Le particelle elementari). Anche la pessima e approssimativa traduzione di questa prima edizione Bompiani, con ogni probabilità, ha contribuito a questa regressione. Tra i tanti esempi, non è accettabile ripetere l'aggettivo “ditirambico” per più di una volta, e non credo che il traduttore si sia preso la libertà di modificare la resa di un termine così particolare e così inutile.
Intendiamoci, La carta e il territorio supera di netto la media qualitativa delle pubblicazioni di questi anni: è un romanzo che si interroga su temi ultimi, che cerca un'indagine psicologica e sociologica del mondo. Ma da un fuoriclasse sarebbe stato lecito aspettarsi di più. Ho difeso Houellebecq anche di fronte alle aspre critiche rivolte a La possibilità di un'isola, ma qui, di fronte a La carta e il territorio, il passo indietro è evidente: in termini di ambizione, ma anche di resa complessiva del meccanismo narrativo, ed è un giudizio difficile da esprimere, perché ci troviamo al cospetto di uno dei due o tre autori di questi anni destinato a rimanere, di uno dei pochi che siano stati in grado di dirci quello che siamo. Rispetto alla narrativa italiana a cui ormai siamo assuefatti, Houellebecq resta di un livello inaccessibile: confinato in un territorio di amara consapevolezza e disordine interiore che è prerogativa solo dei grandi autori. Ancora una volta, comunque, anche in quest'ultima prova, la capacità dello scrittore di tenersi al di fuori di qualsiasi tentazione consolatoria è ammirevole, e speciale. Proviamo ad immaginarci un autore italiano che non tenti in extremis di salvare il salvabile con amore, famiglia, religione o altri palliativi. Quasi un'utopia. Questa nettezza, questa lucidità estrema è di scuola illuminista, non materialista o peggio ancora positivista, ma illuminista: un campo in cui la ragione è costretta a misurarsi con l'assurdo senza ricorrere alle scappatoie dello scientismo. E in quest'arte, Houellebecq è maestro indiscusso.
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