Stavo lavorando all'impaginazione di Inverno al Blocco 1, ieri sera, quando mi è arrivata la notizia della morte di Mario Monicelli. Non è stata una bella sensazione. A 95 anni, mi sono detto, ci può stare di andare all'altro mondo per un nonnulla. Solo qualche ora dopo, scartabellando su internet, ho saputo che si era gettato dalla finestra di un ospedale, dove era ricoverato, molto ammalato. Un temperamento come il suo, lucido fino alle estreme conseguenze, non poteva tollerare un finale del genere. Ha deciso del suo destino, come ha sempre fatto. La sua morte mi ha ricordato quella di un altro grande, tra l'altro della sua stessa generazione: lo scrittore ceco Bohumil Hrabal. Monicelli ora entra a far parte della Storia di questo paese, ci entra di diritto, spero con il minimo possibile di retorica, spero con pochi fronzoli e tanto affetto; spero entri a far parte della nostra memoria, e non di qualche manuale di scuola, spero che ciò che ci ha lasciato rimanga patrimonio fruibile dal pubblico, e non carne da macello per il corso magistrale di qualche professorino. Non sarò certo io, adesso, a stendere uno tra i tanti e inutili elogi funebri che sicuramente ingombreranno la nostra stampa nei giorni a venire; credo che il maggior rispetto che si possa portare a questo gigante dei nostri tempi sia l'affetto silenzioso di chi non si dimenticherà della sua lezione. Per questo motivo credo che il migliore omaggio che possa fargli sia quello di riproporre, qui di seguito, una recensione scritta anni fa in occasione del suo ultimo lungometraggio, Le rose del deserto.
ciao, Mario
Stavo lavorando all'impaginazione di Inverno al Blocco 1, ieri sera, quando mi è arrivata la notizia della morte di Mario Monicelli. Non è stata una bella sensazione. A 95 anni, mi sono detto, ci può stare di andare all'altro mondo per un nonnulla. Solo qualche ora dopo, scartabellando su internet, ho saputo che si era gettato dalla finestra di un ospedale, dove era ricoverato, molto ammalato. Un temperamento come il suo, lucido fino alle estreme conseguenze, non poteva tollerare un finale del genere. Ha deciso del suo destino, come ha sempre fatto. La sua morte mi ha ricordato quella di un altro grande, tra l'altro della sua stessa generazione: lo scrittore ceco Bohumil Hrabal. Monicelli ora entra a far parte della Storia di questo paese, ci entra di diritto, spero con il minimo possibile di retorica, spero con pochi fronzoli e tanto affetto; spero entri a far parte della nostra memoria, e non di qualche manuale di scuola, spero che ciò che ci ha lasciato rimanga patrimonio fruibile dal pubblico, e non carne da macello per il corso magistrale di qualche professorino. Non sarò certo io, adesso, a stendere uno tra i tanti e inutili elogi funebri che sicuramente ingombreranno la nostra stampa nei giorni a venire; credo che il maggior rispetto che si possa portare a questo gigante dei nostri tempi sia l'affetto silenzioso di chi non si dimenticherà della sua lezione. Per questo motivo credo che il migliore omaggio che possa fargli sia quello di riproporre, qui di seguito, una recensione scritta anni fa in occasione del suo ultimo lungometraggio, Le rose del deserto.
strettamente riservato
divagazione
la coscienza di Zeman
in piazza
veri o presunti
parola mia
pizza, mandolino & Co.
La carta e il territorio di Michel Houellebecq
La carta e il territorio è sbarcato sul mercato librario dopo una trepidante e giustificata attesa; il suo autore infatti può essere annoverato tra le maggiori personalità letterarie viventi, in Europa e non solo. Michel Houellebecq è uno dei pochi, grandi cantori del disfacimento contemporaneo: da analista, osserva il corpo che si sgretola, la memoria che non c'è più, l'organismo sociale che scende a patti con tutto e con tutti pur di sopravvivere nel nome del benessere acquisito. Va da sé che la critica dello scrittore nasce da una notazione tanto semplice quanto per certi versi illuminante: l'accumulo, nella società tardocapitalistica, è presagio di morte; l'insaziabile e ingordo arricchimento di cose prefigura un crollo verticale, perché la produttività spinta all'estremo, la competizione senza senso nel nome degli oggetti e della prevaricazione quantitativa può risolversi solo in un processo autodistruttivo.
Volendo aprire una piccola digressione, ho notato una specie di doppio binario in Houellebecq: se da un lato la sua adesione al principio di alienazione individuato da Marx è evidente (l'uomo non è più consapevole di quello che fa, non sa perché lavora né ha coscienza di ciò che produce se non i un'ottica di quantità), dall'altro si avverte un distacco netto dalla visione materialistica della storia, per cui il progredire storico dell'uomo non può essere assimilato alla sua produzione di beni, né dal punto di vista del come né del quanto. Dire forse che Houellebecq tenti di recuperare il senso hegeliano del processo spirituale della Storia, sarebbe forse eccessivo: di certo, una volta presa coscienza della propria condizione alienata, l'uomo narrato dallo scrittore francese ha un moto di ribellione interiore, fatto non sempre sufficiente a salvarlo, ma quasi sempre necessario nell'ottica del riscatto personale. Esemplare, sotto questo profilo, il bellissimo finale della sua prima prova romanzesca (o se si vuole narrativa), Estensione del dominio della lotta, quando il protagonista oppone al moderno, al contemporaneo, il perdersi letteralmente nei meandri di una foresta: si ritroverà, si smarrirà? Non lo sappiamo, non è compito del narratore dircelo. Ciò che conta è la descrizione della presa d'atto, culmine di un vero e proprio processo di autocoscienza.
La carta e il territorio si pone generalmente nel solco di questa convinzione. Dico generalmente perché quest'ultimo romanzo segna una piccola frattura rispetto alla produzione precedente dell'autore: gli ingredienti tipici di Houellebecq ci sono tutti, ma dosati in modo differente, come se certe tendenze – la malinconia, la solitudine, l'intima consapevolezza che ognuno è abbandonato al proprio destino – fossero sempre presenti, ma giocate in modo meno rabbioso. Il disincanto, in questo romanzo, ha la meglio su tutto. Anche il vitalismo precario e insufficiente rappresentato dal sesso, altro grande topos dello scrittore, qui è del tutto assente: l'umanità di cui ci parla è in balia delle cose, dei soldi, ma anche qui senza la carica dirompente del rampantismo o della scalata sociale: la macchina economica non è che l'ennesimo meccanismo, innescato dal bisogno e alimentato dall'abitudine.
La carta e il territorio ci parla di un artista, Jed Martin, talentuoso pittore fotografo che ha successo grazie all'intuizione (qui veramente geniale) di elaborare graficamente le carte geografiche della Michelin; il romanzo ci parla della sua vita, dei suoi incontri, dei suoi ripensamenti artistici: il passaggio dalla fotografia alla pittura, le mostre, il rapporto difficile con il padre. Martin è il classico personaggio alla Houellebecq: solitario, insofferente, alla ricerca di un senso che intuisce impossibile da trovare; anche stavolta si tratta di un uomo ricco, un ricco quasi per caso: la fortuna economica arride in abbondanza, all'improvviso, senza peraltro risolvere quasi nulla. Spesso in Houellebecq i protagonisti hanno molto denaro: liberi dagli obblighi formali, possono affrancarsi dalla macchina della produzione per osservare il mondo dall'esterno: sono degli ex alienati in un mondo di alienati, uomini senza catene in un panorama di schiavi. Il denaro serve per intraprendere una nuova perversione: quella dell'autoisolamento dal mondo, nella convinzione, mai smentita ma sempre in bilico, che la vera ricerca sia quella dentro di sé.
Tra i personaggi con i quali Martin si confronta ce n'è uno in particolare: Michel Houellebecq stesso, l'autore che si fa attore della propria scrittura, l'autore che interagisce in prima persona, in un salto mortale all'interno del genere metaletterario. Trovata letteraria di pessimo gusto? Colpo di teatro di uno scrittore alla corda? La presenza di Houellebecq, possiamo dirlo subito senza rovinare nulla della lettura, non serve a niente. Ripeto: non serve a niente. I paragrafi dedicati al rapporto di Martin con il suo “creatore” avrebbero potuto essere risolti con qualsiasi altro personaggio: non ci sono ragioni specifiche per cui l'autore abbia voluto mettere in scena se stesso. Le cause, ammesso che abbia senso cercarle, si trovano da un'altra parte: nel territorio impervio della psicologia di Houellebecq, nel suo narcisismo decadente, ora vellutato, ora, come in questo caso, decisamente morboso. Se nelle prove precedenti, soprattutto ne Le particelle elementari, la scoperta andava di pari passo con la decomposizione, ne La carta e il territorio siamo in piena necrosi senza riscatto: l'artista è nelle cose negli eventi, e tutto ciò che può opporre è la sua arte, il suo tentativo, generoso ma destinato a fallire, di dare una forma al mondo, di cristallizzarlo in una paradossale visione tangibile. Martin è un uomo che “funziona nonostante tutto”, come quella caldaia che procede a singhiozzo, quella caldaia riparata in qualche modo che scalda troppo o troppo poco, metafora finanche facile dell'incompletezza dell'individuo, che vive, ma solo in mancanza di meglio.
Stupisce, come si diceva sopra, l'assenza dell'elemento sessuale, da sempre presenza ingombrante ed esagitata dell'immaginario houellebecquiano: quell'estremo anelito di ribellione, cercato spesso e volentieri nel rapporto mercenario, qui lascia spazio ad una elegia rassegnata e quasi indifferente: le donne, e in generale i rapporti con gli altri, passano nell'impossibilità di afferrare l'istante. Le donne, in un'altra metafora (questa volta ostica e quasi odiosa), percorrono una via parallela a quella del denaro e delle amicizie: capitano. L'unico incontro, decisivo e sofferente, è quello con il padre architetto: ma qui siamo nel mondo dell'incomunicabile. I due avrebbero molto da dirsi e tutta la buona volontà per farlo, ma la differenza di alfabeti rende impossibile ogni scambio, e persino la morte – convitato di pietra di ogni narrazione che si rispetti – non basterà a ricomporre il quadro.
Nel complesso, la prova di Houellebecq è, nella mia personale convinzione, al di sotto delle aspettative. Non trovo ne La carta e il territorio i motivi di entusiasmo che la critica di mezzo mondo ha riscontrato: il sangue, questa volta, è solo un coagulo, un residuo. La vita di Martin, alter ego dell'artista, non ha nulla di esemplare o memorabile, e anche in questo suo sostanziale anonimato, non riesce mai a farsi paradigmatica; non è uno Zeno Cosini tanto per intenderci, e il suo travaglio interiore, questa volta, lascia a tratti perplessi. E questo perché Martin non è un tipo umano, ma solo un tipo economico: un artista anche troppo compreso, inserito in una girandola produttiva di cui lui si limita a coglierne, a tratti addirittura passivamente, i frutti. Non è né antipatico né simpatico, né coraggioso né inetto: la sua figura si inserisce in una zona che è grigia a tutti gli effetti e che non ha la forza, non ha la caratura per imprimersi nella memoria.
A conferma di questa tesi, la mania di Houellebecq per la citazione di marche e caratteristiche tecniche esonda, senza controllo, senza più alcun freno: l'intero romanzo è un'orgia di apparecchi, libretti di istruzione, citazione a più non posso di marche e prodotti. Logica commerciale, sicuramente, ma anche pericolosa tensione iperrealista dell'autore, che se spesso lo salva dal melenso e dal patetico (due malattie da cui Houellebecq è assolutamente immune, onore al merito) da un altro punto di vista lo condanna ad una spirale di puro utilitarismo, di minimale funzione didascalica che non gli rende francamente giustizia.
Ne risente la lingua: in ribasso. L'impianto propriamente linguistico segna un passo indietro rispetto agli altri scritti. Quella lingua così tersa, chiara, logica, si è deteriorata fino a diventare poco più di uno standard narrativo o, se si vuole, una traccia semantica di qualità medio bassa, incapace di farsi realmente personale, come avvenuto in altri casi (Estensione del dominio della lotta o Le particelle elementari). Anche la pessima e approssimativa traduzione di questa prima edizione Bompiani, con ogni probabilità, ha contribuito a questa regressione. Tra i tanti esempi, non è accettabile ripetere l'aggettivo “ditirambico” per più di una volta, e non credo che il traduttore si sia preso la libertà di modificare la resa di un termine così particolare e così inutile.
Intendiamoci, La carta e il territorio supera di netto la media qualitativa delle pubblicazioni di questi anni: è un romanzo che si interroga su temi ultimi, che cerca un'indagine psicologica e sociologica del mondo. Ma da un fuoriclasse sarebbe stato lecito aspettarsi di più. Ho difeso Houellebecq anche di fronte alle aspre critiche rivolte a La possibilità di un'isola, ma qui, di fronte a La carta e il territorio, il passo indietro è evidente: in termini di ambizione, ma anche di resa complessiva del meccanismo narrativo, ed è un giudizio difficile da esprimere, perché ci troviamo al cospetto di uno dei due o tre autori di questi anni destinato a rimanere, di uno dei pochi che siano stati in grado di dirci quello che siamo. Rispetto alla narrativa italiana a cui ormai siamo assuefatti, Houellebecq resta di un livello inaccessibile: confinato in un territorio di amara consapevolezza e disordine interiore che è prerogativa solo dei grandi autori. Ancora una volta, comunque, anche in quest'ultima prova, la capacità dello scrittore di tenersi al di fuori di qualsiasi tentazione consolatoria è ammirevole, e speciale. Proviamo ad immaginarci un autore italiano che non tenti in extremis di salvare il salvabile con amore, famiglia, religione o altri palliativi. Quasi un'utopia. Questa nettezza, questa lucidità estrema è di scuola illuminista, non materialista o peggio ancora positivista, ma illuminista: un campo in cui la ragione è costretta a misurarsi con l'assurdo senza ricorrere alle scappatoie dello scientismo. E in quest'arte, Houellebecq è maestro indiscusso.
crolli
senza terra
la bustina di tè
Incontro con Cioran
Non ricordo con esattezza quando ho conosciuto Emil Cioran. So che ad un certo punto è entrato nella mia vita, e lì è rimasto in pianta stabile, e che con minore o maggiore energia si è mosso in quello che pensavo e facevo. Dico così perché in realtà mi piacerebbe avere in mente una data precisa, o anche solo approssimativa, in cui il filosofo franco rumeno ha cominciato ad interagire e dialogare con me, perché ciò mi consentirebbe di chiarire alcune cose con me stesso, e stendere queste brevi note con una consapevolezza diversa. Purtroppo, al momento non mi è possibile trovare riferimenti precisi. Come tutte le grandi scoperte, si è trattato di un processo graduale, passato attraverso vari gradi di consapevolezza, dall’impatto iniziale alla meditazione più accurata.
Non ho avuto la fortuna di conoscerlo, e questo, insieme al non aver potuto assistere ad una messa in scena dal vivo di Carmelo Bene, è uno dei più grandi rimpianti che mi gravino sul cervello. Del pensiero di Cioran si sa tutto, di Cioran uomo poco o nulla. Doveva essere un tipo abitudinario e preciso, spartano e dedito al proprio lavoro, senza illusioni e senza pretese di gloria. Pietro Citati ce ne dà un bellissimo ritratto, in cui descrive con affetto il suo studio a Parigi, la sua routine semplice e quasi ossessiva. Me lo immagino come un uomo con cui fosse un piacere parlare, dal pensiero straordinariamente aperto e disponibile al confronto. Cioran non ha avuto niente delle vippaggini che hanno contraddistinto altri intellettuali del novecento, da Sartre a Heidegger, celebrato maestro il primo, venerabile professore il secondo. Cioran è andato oltre le etichette, non ne ha mai accettata nessuna: ha condotto un’esistenza fuori dal tempo, che era anche l’unica che potesse andare bene per un temperamento ombroso e incredibilmente sensibile come il suo. Era un apolide, non aveva più nazionalità. Nato in Romania, era riuscito a rimanere in Francia grazie a qualche innocuo sotterfugio, e lì era rimasto, eleggendo la Ville Lumiere a proprio rifugio e musa ispiratrice. Non si trattava di una brutta scelta: Parigi è sempre stata il centro del mondo, il termometro delle ambizioni di un’Europa che dopo la guerra annunciava già tutte le contraddizioni che l’avrebbero portata nei decenni successivi al dissesto economico e sociale. E poi in Romania c’era stata l’adorata infanzia, quel periodo felice e sereno concluso il quale si era scontrato con quel senso del vuoto e del precario che non lo abbandonerà più, fino alla fine dei suoi giorni. Nonostante il successo internazionale, nonostante schiere di ammiratori tenaci: Cioran non sapeva che farsene. Era un solitario, viveva in un piccolo studio che Citati paragona alla tana di un cane o a una gabbia per uccelli. Col tempo, si era accontentato di pochissimo, si era ritirato per una precisa scelta: si era ritirato per tutta la vita, ma allo stesso tempo la sua coscienza era avanzata fino a confini che un comune lettore può solo vagamente intuire. Si dichiarava ateo, ma aveva stretti rapporti con quel dio assente, quel convitato di pietra, quell’ospite muro: era una delle sue poche compagnie, in fondo. Per il resto c’erano le lunghissime passeggiate per Parigi, per le campagne, o anche negli amati giardini del Luxemburg. Verso la Romania provava sensazioni velate di tristezza e disapprovazione: nonostante sia stato uno dei suoi figli più illustri, le valutazioni sulla sua terra di origine variavano dalla rabbia alla compassione. Era un apolide, un uomo senza radici, scaraventato nel mondo e fuori dal mondo stesso.
Per quanto riguarda le sue idee, ci sono i libri che ha scritto. Non moltissimi per la verità. Sono pagine sanguinanti, frutto di un corpo a corpo con il mondo, la ragione e l’intelligenza, stilisticamente perfette, nitide come un’opera della classicità. Non era un pessimista, e neanche un nichilista, semplicemente era un uomo che non credeva più a niente, e che nonostante il peso di questo vuoto era in grado di guardare con gratitudine alle piccole cose, alle amicizie vere, alla bellezza di un paesaggio, alle parole rubate per strada dalla bocca di uno sconosciuto. Cioran era in grado di far prendere forma ad un pensiero anche da un tratto banale della quotidianità, rovesciando il punto di vista comune per ottenere una visione nuova eppure già essenziale: era un mago del rovesciamento di fronte. Come riesci ad afferrare un concetto, lui è capace di confonderti, di rivoltarlo completamente e di farti apprezzare una prospettiva che non eri nemmeno in grado di ipotizzare. Ma non era un sofista: era uno scettico, come lui stesso amava definirsi. Grande ammiratore di Epicuro, se non fosse che il filosofo greco avesse scritto tanto, raffinato conoscitore di Georg Simmel e Schopenhauer, ma anche cronista critico del pensiero, divulgatore del negativo sempre sul filo di una sottile e corrosiva ironia.
Non ha lasciato un sistema di pensiero, o, girando i termini, non ha mai costruito una filosofia sistematica, in cui teorizzazioni e procedimenti appaiano in sequenza, secondo una logica ferrea. Diceva di avere il frammento nel sangue, e questo è stato il suo lascito: aforismi, apologhi, brevi saggi in cui condensava una cultura e un’intelligenza senza pari; didascalie chirurgiche, lampi di genio improvvisi con cui demoliva un preconcetto o avanzava una riserva. In un gioco di associazione mentale, se dovessi scegliere un termine da affiancare all’immagine di Cioran opterei per “dubbio”: quest’uomo è stato divorato dal dubbio, dominato dall’incertezza, e per questo tanto più portato a denigrare e demolire tutti quei sistemi fondati su assiomi o verità assolute. Guai a definirlo ateo, però. In Cioran, per quanto possa sembrare paradossale, la tendenza al sacro è presente quasi in ogni frangente: una propensione spesso negativa, conflittuale e violenta, da cui però emana la sensazione di una ricerca ininterrotta. La parabola dolente dello straniamento lo porterà a rinnegare la propria lingua per abbracciare quella francese, scrivendo quella decina di capolavori o poco più che costituiscono la summa del suo pensiero: da L’inconveniente di essere nati fino a Confessioni e anatemi. Il primo e l’ultimo, due raccolte di epigrammi. Due modi di esprimere l’urgenza della vita che soccombe al Banale e al Caso. Due modi anche di dare sfogo a quella sua vena intrinsecamente orientale, che troverà conforto nella filosofia buddista e nella sua divulgazione, assimilata e acclimatata, in numerose tracce della sua prosa. In un certo senso, lo stesso percorso compiuto da Schopenhauer, ma sottratto al sistema, alla ritualità, alla ricerca della compostezza formale. In Cioran tutto è magma, risalita di materiale incandescente dal profondo della terra, impasto di segni e sentimenti che affondano in una cultura complessa e composita, la sua: mitteleuropea, francese, orientale.
Questo distillato finissimo troverà la sua maggiore espressione negli ormai mitici Quaderni, dove il tutto troverà finalmente la requie di un punto fermo, di un approdo: è quella pagina vergata quotidianamente, con pazienza e con sforzo, quella pagina che lo salverà tante volte dal suicidio e che conserverà la parte più privata e inviolabile della sua natura, quel nucleo vivente che poi si trasmette ai lettori di oggi, così potente e vitale ancora adesso. I Quaderni sono il suo ultimo lascito, la sua verità inconfessabile. Mai letto niente di così denso e disperato insieme. Nemmeno Kafka ha potuto tanto nei suoi diari. La descrizione di ciò che rappresentano questi scritti quotidiani porterebbe via molto spazio però. Siamo in un territorio troppo scosceso, troppo ricco di significati perché si possa anche solo tentarne un sunto.
Del resto è Cioran stesso che mal sopporta una collocazione critica definitiva o anche solo tentata: quando si ha a che fare con un sistema asistematico, con un fluire libero e rigoroso di idee, diventa difficile mettere ordine filologico prima ancora che filosofico: la mente di Cioran tende a dilatarsi in moti lunghissimi, così come cade spesso in brusche ritirate, di cui è difficile tracciare le coordinate e le ragioni. Ne sono un esempio le ricerche saggistiche sul popolo ebreo ne La tentazione di esistere, sorta di ricognizione privata e atemporale della storia di un popolo, di una cultura che “sconcerta la Storia”: l’autore discerne, medita, studia i materiali e propende per la sintesi divulgativa. Ma è solo un passaggio. Il movimento interiore di Cioran è troppo grande, troppo esigente perché possa essere messo a tacere: la sua voce è un soffio interrotto, un silenzio carico di senso. Caso curioso per un alfiere del non senso, della casualità delle cose, e della loro fondamentale inutilità. La spiegazione in questo caso potrebbe essere la più semplice: la sua è una filosofia della prassi, quella che un tempo si sarebbe detta empirica, e come tale non può sottrarsi al reale, all’immanente, agguantando l’essere per la coda, per un soffio, ma nondimeno cogliendolo. La sua linea di pensiero è come non mai viva, presente: non può limitarsi alla negazione (anche se di questa fu un vero, grande maestro). Detto in altre parole, Cioran non propone vie d’uscita (semplicemente perché non ce ne sono), ma in questo modo già ci dice qualcosa sulla natura umana che di per sé è molto più che una risposta: è la salvezza. Non contando nulla, non avendo nulla da chiedere e meno ancora da dare, l’uomo ha trovato la sua collocazione: in un limbo dove a vincere può essere solo il dubbio. Con uno sforzo di immaginazione, si potrebbe azzardare un parallelo con un altro grande della negazione: Albert Camus. Un filosofo che dicendo di no, già ci dice qualcosa, e non è detto che la natura di questo qualcosa sia per forza negativa: piuttosto un invito alla resistenza, al recupero del senso (o della sua parvenza, ma poco cambia) attraverso la resistenza nell’immanenza. Nel caso di Cioran anche attraverso gli espedienti più sconcertanti: come considerare l’idea di suicidio l’unica strada percorribile. L’idea, non il suicidio in sé, che comunque sarebbe sempre insufficiente. L’idea di eliminarsi è una soluzione a portata, buona per tenere a freno il proprio, devastante essere per la morte, tenendo il bilico l’esserci con la sua antitesi, in un equilibrio precario che però si presenta come l’unica e più dignitosa strada percorribile. Una scelta estrema e crudele, a cui però l’autore rumeno si atterrà sempre con straordinaria coerenza, come se in fondo tutto il suo io altro non fosse che l’estrema sintesi di questo gioco al massacro che alla fine non vedrà prevalere nessuno. Nemmeno la morte, perché, come Epicuro ci insegna, quando c’è lei non ci sono io.
Cioran non ci ha lasciato una dottrina, e nemmeno un credo. Non c’è traccia di progettazione, così come non ci sono tentativi di recupero in extremis nel suo dialogo con il mondo, e questo resta probabilmente uno dei suoi meriti maggiori: non ha cercato la consolazione, non ha voluto porre a suggello della sua opera una via di fuga, provando magari a ricorrere a qualche espediente retorico o sofistico. Il suo capolavoro sta nella teorizzazione della noia. Noia, o per meglio dire cafard, quella bellissima parola francese che descrive proprio quello stato d’animo ineffabile partecipe di malinconia e noia appunto. In questa dimensione rarefatta e dilatata il tempo perde del tutto di senso, e lo recupera l’io: cosa comunque piccola, misera, inadeguata per qualsiasi utilizzo. Ma, al contrario di quanto si possa pensare, questa ammissione di impotenza, di piccolezza, non costituì alcun tipo di sollievo, anzi: fu una dannazione per certi versi definitiva. La grande battaglia di Emil Cioran si consumò nella perfetta consapevolezza della sconfitta finale; la sua parabola è nel segno della più perfetta umiltà, laddove umiltà non significa falsa modesta, ma adesione al male del mondo, stoica accettazione, in un parallelo – etico, emotivo – con la grande tradizione moralistica francese.