Ricordo una delle tante dichiarazioni assurde del non rimpianto George W. Bush. In un'intervista, sempre con quel suo fare a metà tra il babbeo e il pastore mormone, dichiarò solennemente, scandendo bene le parole: "Io credo nella sanità privata." Che cosa intendesse il buonuomo con questa frase francamente non lo so, ma mi serve da spunto per un'altra osservazione. Come si fa a credere in qualcosa di privato? Come si fa a credere in qualcosa che ci chiede soldi (tanti) in cambio di prestazioni e che ci valuta non come persone ma come utenti paganti? Non credo che Bush sappia la risposta. Se dovessi dare una risposta da privato cittadino direi: io credo nella ricerca della giustizia sociale. Non nella felicità, che con questa storia ci hanno sempre fregato, ma nella giustizia sociale. Che non è un retaggio tardocomunista, ma un principio di equità. Garantire sanità di alto livello a tutti, per esempio, garantire l'istruzione, garantire che le tasse le paghino tutti e che tutti le paghino in proporzione ai beni posseduti. Lo Stato, nelle mie idee, dovrebbe essere garante soprattutto di questo: del fatto cioè che il volume complessivo delle risorse nazionali vengano ridistribuite in modo equo. La giustizia sociale, in fondo, non è che questo. La felicità all'americana non c'entra niente, non è questo a cui ambisco, non è questo che voglio, non è questo che serve. Il presidente Obama, giocandosi tutto nella riforma sanitaria, forse ha voluto dirci proprio questo: non credo nella sanità privata, ma credo nella possibilità della gente di costruire una società basata su valori solidali. E finché ci sarà uno squilibrio così marcato, così netto, così razzista tra chi ha e chi non ha, tra chi è garantito e chi non lo è non potremo dirci una democrazia compiuta. Non potremo nemmeno dirci una nazione, ma un ammasso di interessi privati, dove chi vince è il più furbo, il più spregiudicato.
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