In un'intervista, alla domanda secca su quale fosse il mio film preferito, ho risposto C'era una volta in America. Avrei potuto citare molti altri film che hanno segnato la mia formazione: Otto e mezzo, Il cacciatore, Novecento, Ultimo tango a Parigi, Taxi driver, il cinema di Herzog. Ma l'istinto alla fine ha puntato sull'ultimo film di Sergio Leone. A ripensarci a freddo, con tutta la comodità di disporre del proprio pensiero, sono soddisfatto, perché è una buona risposta. In C'era una volta in America c'è tutto, in effetti. E' un film cumulativo, che ha la pretesa spropositata di parlare di un'infinità di argomenti; una cifra che in altri film è un peccato mortale e che invece nel film di Leone diventa una scelta stilistica precisa: quella dell'enormità. E' un film che racchiude il senso della poetica del regista, ma non solo: costringe lo spettatore a confrontarsi con i rottami del proprio passato, quei cascami che ciascuno si porta dietro in forma più o meno inconfessabile. E' un film al maschile, una triste saga di uomini soli e violenti, che vivono il sesso come merce di scambio o come belluino sfogo fisiologico. Forse anche per questo motivo ogni sequenza si carica di un significato al tempo stesso semplice e complesso, che racconta l'universo maschile nei suoi aspetti più struggenti e nefandi meglio di tante rubriche da cuori infranti dove a rispondere c'è spesso qualche zitella dai bollori spenti. Quando si arriva alle ultime scene, viene difficile non pensare agli amici; a quelli che non si vedono più da anni. Alle vecchie fiamme, che nemmeno il tempo e la malinconia riescono a ridurre a ciarpame della memoria. Difficile non provare, almeno per qualche istante, una specie di furore primitivo, che Leone ha cristallizzato nelle squallide gesta dei suoi antieroi e che lo spettatore attento rivive nella sua stessa biografia, pensando, magari di sfuggita: ho rischiato anche io di diventare così.
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