mare nero

La marea nera avanza verso le coste degli Usa, in rotta di collisione con la Louisiana. Si parla di migliaia di barili di greggio riversati in mare ogni giorno, ma i numeri, nella loro asetticità quantitativa, aiutano a capire fino ad un certo punto. Ora che siamo di fronte ad una strage ambientale di questa portata, il mondo civilizzato si gratta la testa e si batte il petto, promettendo interventi milionari, investimenti, mobilitazioni. Con un mantra, ripetuto allo sfinimento: mai più, mai più. Sappiamo tutti che non sarà così. La devastazione ambientale prosegue, in nome del mito dello sviluppo, del progresso, ma soprattutto in ragione del profitto smisurato di qualcuno. E' una logica che di logico non ha nulla e che anzi si sta rivelando perdente ogni giorno di più, ma pazienza: gli ultimi fuochi del capitalismo d'accatto necessitano che il barile sia raschiato fino in fondo, e che le risorse ambientali e naturali, che sono di tutti, vengano predate fino all'ultima oncia. Perché noi siamo così: straordinariamente osservanti dei precetti biblici quando si tratta di sfruttare quell'ecosistema, quell'ambiente che a conti fatti è tutto quello che abbiamo e che, ampliando di un poco lo sguardo, è anche tutto quello che ha la specie umana. Non è solo un problema di cultura, del tutto assente, ma anche una questione di buonsenso, se vogliamo metterla su un piano contabile, che forse è quello che lorsignori baroni capiscono meglio. Mi chiedo quante sono le devastazioni compiute ogni giorno: quanti fiume Lambro (di cui per inciso non si sa più un cazzo) e quante maree nere vengono taciute ogni giorno in ogni parte del mondo, in un silenzio mediatico che ci rende tutti responsabili, tutti, dal primo produttore di residui tossici all'ultimo pirla che scarica la tazza del water in una discarica abusiva.

naufragi

Fa un certo effetto sentire la dirigenza del Milan parlare per l'ennesimo anno di campagna acquisti morigerata, esangue, con pochi investimenti e tanto materiale di recupero. Suona curioso perché il calcio del giorno d'oggi, quello dei milioni, dei diritti televisivi, del merchandising impazzito, delle spa e spesso dei debiti, l'ha in un certo senso inventato Berlusconi, con quelle sue faraoniche presentazioni in elicottero, i suoi colpi di mercato miliardari, la panchina lunga e così via. Il giocattolo però si è rotto, l'elastico è stato teso all'ennesima potenza fino a spezzarsi in due lembi. La partita ora è stare a galla, svendere, mobilitare. Tentare il colpo di fortuna affidandosi a qualche esordiente assoluto. A ventidue anni da quel mitico, primo scudetto, la situazione complessiva dei club europei è molto cambiata. Molte squadre di blasone sono sull'orlo del fallimento, altre si affrettano a cedere quote societarie per avere un po' di ossigeno, mentre la baracca affonda tra un decreto salvaclub e l'altro, tra uno scandalo e l'altro. E nonostante ciò il calcio, oggi, in Italia, rappresenta il maggior cuscinetto sociale che esista: la distrazione massima, la carta assorbente che distoglie l'attenzione del pubblico per proiettarla nella dimensione assolutamente virtuale del gioco e dei milioni, dei calciatori e delle veline. E l'ex ricco Milan è il primo a farne le spese, anche se seguendo un certo ordine logico: il primo club a rivoluzionare le strategie societarie e comunicative del mondo del calcio è anche il primo a pagare il contrappasso, finendo nell'oblio dei soldi che non ci sono. Hai voglia ora a invocare moralità. Proprio ora che anche gli altri si sono adeguati al tuo modello.

Sinistrati di Edmondo Berselli

Ho letto con uno stato d'animo particolare Sinistrati, uno degli ultimi pamphlet di Edmondo Berselli, il giornalista scrittore scomparso di recente. In bilico tra metodo e ironia, la scrittura di Berselli ci accompagna in un cammino storico culturale di sorprendente chiarezza, che non rinuncia agli aneddoti e ai ritratti gustosi ma che nemmeno si tira indietro quando c'è da fare l'affondo, quando si tratta di dare la stoccata ai luoghi comuni del potere e nello specifico del potere politico. In Sinistrati si avverte tutto l'affetto per un mondo che non c'è più, quello della sinistra democratica e di cultura: l'autore fa di tutto per negare (e negarsi) ogni concessione malinconica, ma di fatto il libro denuncia un'irrefrenabile nostalgia per una rivoluzione non compiuta, per un intero sistema di valori (che potremmo definire con qualche approssimazione gramsciano) che nonostante anni di forte influenza politica non è mai riuscito ad arrivare al governo, e quindi al potere esercitato. L'analisi si snoda fino a qualche mese fa, dicembre per l'esattezza. Le soluzioni per un futuro alternativo a questo tipo di destra, però, nemmeno Berselli era in grado di suggerircele, visto che, nella parte finale, si lascia andare ad una considerazione tanto schietta quanto in fondo vera: come mai a livello planetario la gente ha dato credito alle parole di una parte politica che non ha mai risolto niente e che con ogni probabilità ha anzi contribuito, non solo negli Usa, al dissesto economico globale? Domanda che aleggia, inquietante. Una sola risposta possibile: dare la sensazione di fare. Agitarsi, muoversi, dare risposte superficiali ma di grande impatto ai bisogni più strillati della gente, sostenendo il tutto con campagne mediatiche massicce. E' accaduto in Italia, ma anche in Francia e in Russia. Ora i francesi, forse, si stanno riavendo dalla sbornia, ma in Italia, stiamone certi, ci vorrà molto più tempo. Chissà che ne direbbe Berselli.

c'era una volta il cinema


In un'intervista, alla domanda secca su quale fosse il mio film preferito, ho risposto C'era una volta in America. Avrei potuto citare molti altri film che hanno segnato la mia formazione: Otto e mezzo, Il cacciatore, Novecento, Ultimo tango a Parigi, Taxi driver, il cinema di Herzog. Ma l'istinto alla fine ha puntato sull'ultimo film di Sergio Leone. A ripensarci a freddo, con tutta la comodità di disporre del proprio pensiero, sono soddisfatto, perché è una buona risposta. In C'era una volta in America c'è tutto, in effetti. E' un film cumulativo, che ha la pretesa spropositata di parlare di un'infinità di argomenti; una cifra che in altri film è un peccato mortale e che invece nel film di Leone diventa una scelta stilistica precisa: quella dell'enormità. E' un film che racchiude il senso della poetica del regista, ma non solo: costringe lo spettatore a confrontarsi con i rottami del proprio passato, quei cascami che ciascuno si porta dietro in forma più o meno inconfessabile. E' un film al maschile, una triste saga di uomini soli e violenti, che vivono il sesso come merce di scambio o come belluino sfogo fisiologico. Forse anche per questo motivo ogni sequenza si carica di un significato al tempo stesso semplice e complesso, che racconta l'universo maschile nei suoi aspetti più struggenti e nefandi meglio di tante rubriche da cuori infranti dove a rispondere c'è spesso qualche zitella dai bollori spenti. Quando si arriva alle ultime scene, viene difficile non pensare agli amici; a quelli che non si vedono più da anni. Alle vecchie fiamme, che nemmeno il tempo e la malinconia riescono a ridurre a ciarpame della memoria. Difficile non provare, almeno per qualche istante, una specie di furore primitivo, che Leone ha cristallizzato nelle squallide gesta dei suoi antieroi e che lo spettatore attento rivive nella sua stessa biografia, pensando, magari di sfuggita: ho rischiato anche io di diventare così.

il commento del passeggiatore solitario

Lo strappo politico di ieri, consumatosi sotto le volte antiprofetiche dell'auditorium della Conciliazione, ha portato almeno un refolo di verità nella stagnazione di cartapesta del potere berlusconiano. Dopo cartonati cieli azzurri, claque generose, applausi e demagogia a strafottere, un minimo di realtà ha invaso lo scontro tra i due ex amici. Un po' di rosso carne dopo il marrone del fondo tinta. Del Cavaliere sappiamo già tutto. Di tutto e di più: non vorrà nessuna fronda interna e farà di tutto per spazzarla via. Resta da capire il destino di Fini. Che non potesse reggere a lungo era chiaro anche ai sassi, ma ora, alla prova del fuoco, forse non basterà la sua incredibile ars oratoria per venirne fuori a ciglio asciutto. Perché Fini, parliamoci chiaro, è un oggetto misterioso. Nella sua vita politica ha sostenuto tutto: fascismo e antifascismo, proporzionale e maggioritario, gollismo e liberalismo. Proviene da un'area politica storicamente autarchica ma col tempo si è convertito all'europeismo e alla causa extracomunitaria; si è dichiarato prima non credente, poi fervente cattolico con tendenze papiste. Salvo poi far saltare il banco dichiarandosi strenuo difensore della laicità dello Stato. Definì il partito del predellino "la farsa finale" (me lo ricordo come se fosse ieri), ma dopo un paio di giorni svendette la sua creatura per un piatto di lenticchie. Politicamente, c'è gente che ci ha lasciato le penne per molto meno; lui no: è sempre vincente, anche in virtù di una capacità parolaia senza eguali nel panorama italiano. Come parla lui, non c'è nessuno. Ha il tono di voce giusto, il tatto, il garbo, le citazioni giuste, tutte meravigliosamente corrette che fanno pensare all'uditorio: questo qui è proprio bravo. Gli si perdonano anche quelle "e" aperte tutte sbagliate e squisitamente regionalistiche. Dice sempre verità fumose, ma proprio per questo credibili: come disse il compianto Berselli, Fini possiede "il gusto del buonsenso apparente che piace alle zie". Più che sufficiente per evitare di pagare dazio fino ad oggi, ma ora? Vedremo se sotto il fumo c'è qualcosa.

parola di consigliere

Apprendo di essere governato, tra gli altri, anche dal figlio di Umberto Bossi, Renzo. Leggo con crescente sconcerto della sua elezione a consigliere regionale. Non bastasse leggo anche la sua prima dichiarazione ufficiale: non tifo la nazionale italiana di calcio. E fin qui, chi se ne frega potrei anche dire, non siamo condannati ad essere tutti tifosi pallonari. Ma è la chiosa che mi mette in allarme: "Il Tricolore identifica un sentimento di cinquant'anni fa." Una frase, tanto per fare i precisi, che non significa nulla. Forse il nostro consigliere intendeva sessantaquattro anni fa, quando nacque ufficialmente la Repubblica Italiana, il 18 giugno del 1946, perché nel 1960 non mi risulta che sia avvenuto qualche fatto inerente alla storia repubblicana. O forse, più semplicemente, non voleva dire niente. Ha dato aria ai denti con una frase che potrebbe anche essere liquidata come scadente e superficiale, se non fosse che questo Tricolore è stato conquistato con il sangue di tanta gente, specialmente giovane, che è morta in nome della causa unitaria, è morta perché l'Italia smettesse di essere "un'espressione geografica". Male informato, il caro Renzo. E dire che ormai è un politico di livello, con uno stipendio altrettanto di livello da cui sarebbe lecito pretendere non solo il rispetto dovuto a un valore che è di tutti e che è incarnato da quella bandiera, ma anche, perlomeno, un minimo di decenza istituzionale, un minimo di intelligenza politica. Già che ci siamo, sarebbe anche bello dire agli amici leghisti che non solo la Padania non esiste, ma che non è mai esistita e che non esiste nessuno straccio di fondamento storico politico e culturale che giustifichi l'esistenza di questa entità, se non forse solo nella fantasia di qualcuno. E se proprio l'Italia fa tanto schifo, si potrebbe andare a fare il consigliere regionale da qualche altra parte.

L'uomo nell'ombra di Roman Polansky

L'uomo nell'ombra è una favola nera, un thriller, un saggio di fantapolitica. C'è il primo ministro britannico che dietro le fragili spoglie di Adam Lang nasconde l'ombra di Tony Blair; c'è un ghost writer che deve scrivere la sua biografia. Ci sono la Cia e i servizi di intelligence. C'è il tribunale de L'Aja che intende processare Lang per crimini di guerra e crimini contro l'umanità. E' un mondo confuso e cinico quello di cui ci parla Polansky, dove le parti si invertono, le storie si intrecciano e la Moira, in combutta con l'avidità umana, gioca la sua parte. La narrazione convince: ci sono ritmo, qualità, suspence, e la critica del regista non si fa mai generica o qualunquista, ma sa farsi affilata, tagliente al limite della lesa maestà. L'uomo nell'ombra è un film che bilancia la qualità della scrittura con quella della regia e quella dell'interpretazione: un equilibrio sottile che unisce il taglio narrativo a quello cronachistico, rendendo riconoscibili fatti e persone, al punto da insinuare nello spettatore più di un dubbio circa la realtà politica che abbiamo vissuto negli ultimi anni. A un film non si può chiedere di più. Ottimo il comparto degli attori. Ewan McGregor, disincantato e ironico ghost writer, in bilico tra malinconia e azione; e poi un grande Pierce Brosnan, ex primo ministro in crisi, schiacciato dal peso di responsabilità troppo grandi: una prova di improvvise accensioni e repentini cali di tensione la sua. Forse la sua interpretazione più notevole, di sicuro una delle migliori. Menzioni anche per Tom Wilkinson, sempre più a proprio agio in ruoli sgradevoli e difficili e per Olivia Williams, first lady di ferro. Da notare, negli ultimi minuti, la sequenza del biglietto che passa di mano in mano e l'inquadratura finale, perché valgono tutto il film, e, nell'arte, rendono giustizia ad uno dei più importanti registi viventi. Nella speranza di vedere altri suoi lavori.

l'America di Dos Passos

42° Parallelo è forse il romanzo più importante di John Dos Passos; lo è nella misura in cui racchiude dentro di sé la migliore essenza dello scrittore, lo è per il sapiente intreccio di vite e di vissuti che si sfiorano, si accarezzano, senza la pretesa di interagire. Sono storie piccole e grandi quelle che Dos Passos racconta: vicende di segretarie emancipate, di meccanici in cerca di fortuna, di self made men non ancora fagocitati dalla deriva capitalistica. E su tutto incombe la Storia: quella della crudele ed epocale industrializzazione americana e quella dell'entrata in guerra degli Usa nel primo conflitto mondiale. Il romanzo è ciò che propriamente si definisce di solito un affresco: un'ampia voluta entro cui si narrano vicende di singoli che si fanno però paradigma di un'intera epoca. E' un'America ancora vergine quella che ci descrive lo scrittore: un paese che ancora crede nei suoi sogni, che ancora è disposto regalare qualche chance, ma in cui già si intravedono le contraddizioni destinate ad esplodere di lì a non molti anni, tra chimere di facile ricchezza e l'ombra di un capitalismo autoreferenziale che tratta gli uomini come merci. Ma 42° Parallelo è anche un saggio di scrittura, una tela su cui le parole scorrono e si intersecano libere e felici, raggiungendo un sorprendente connubio tra spontaneità e mediazione culturale che regala una delle prose più belle e ricche della letteratura nordamericana, con una lingua che gioca su più livelli e su più registri, come in una monumentale commedia umana: è un romanzo appassionante da leggere, al di là del suo denso contenuto. Non c'è traccia di moralismo in Dos Passos, ma piuttosto di una forte tensione etica e spesso anche politica, dove la presa di coscienza non offusca la lucidità dello scrittore ma anzi la esalta, regalando spunti di riflessione ad ogni pagina. Più di tante trovate editoriali dell'ultim'ora, 42° Parallelo può essere letto come un testo divinatorio, che dell'America ha detto tutto con ottant'anni di anticipo: leggere per credere.

il monito del passato

Non ho grande fiducia nella Storia. Non so se la curva del progresso possa dirsi costante in virtù di guerre e conflitti. La Storia appare nei libri come un resoconto della nostra supposta civiltà, della ricerca umana del proprio equilibrio, ma nella prassi è stata un'ondata di sangue, di barbarie, di prevaricazione. Alle prime, primitive e legittime lotte per la sopravvivenza al movimento dei più disparati interessi economici, fino alle recenti follie post 11 settembre. Ripensavo alle parole dette più volte da Gino Strada, ma anche ad un piccolo aneddoto personale, che penso possa essere di un qualche interesse anche per gli altri. Il Sud Tirolo per me ha un significato speciale, è una terra che amo molto e per svariate ragioni; è una terra unica, di rara bellezza paesaggistica, culturalmente ricca e forte, e venata di contraddizioni, di spaccature. In tutti i cimiteri del Trentino Alto Adige si possono trovare lapidi che ricordano i morti delle due guerre mondiali: lapidi semplici, che ricordano ragazzi giovani e giovanissimi morti in situazioni disperate, pochissimi ufficiali, tanta truppa strappata alla propria casa in nome dell'onor di Patria. Patria che però è cambiata: Impero Austroungarico nel 15 - 18, forze dell'Asse nel 40 - 45. Meglio dire forse dell'Asse, perché i reclutati, viste le peculiarità culturali della zona, ebbero la possibilità di scegliere tra Regio Esercito Italiano e Wermacht, propendendo quasi sempre per la seconda. In comune hanno la morte, tragica, inutile. Di diverso hanno le cause che servirono, cause imposte dall'alto, precipitate loro addosso da dinamiche politiche e ideologiche che spesso non li riguardavano o che li toccavano solo marginalmente. Vale la pena di visitare questi cimiteri, per respirare tutto l'assurdo che le guerre portano con sé, specie quando si richiamano a chissà quali valori e che invece si rivelano solo immense stragi, dispersione di energie e di idee, morte di generazioni intere. Da visitare anche le trincee delle Tofane, dove combatterono all'ultimo sangue due fronti che qualche anno dopo si ritrovarono tragicamente uniti nella sconfitta.

io sto con Emergency


Da qualche giorno espongo qui a destra il logo di Emergency. Lo lascio in bella vista perché credo sia necessario testimoniare, anche in piccolo, stima e solidarietà. Stima nei confronti di un'associazione composta da persone che rischiano la pelle per scopi umanitari, solidarietà a fronte dei violenti attacchi verbali subiti in questi giorni. Fa uno strano effetto vedere tanti garantisti comprovati, campioni della legalità in formato televisivo, scagliarsi con tanto furore nei confronti di Emergency e di Gino Strada: il terzo grado di giudizio vale evidentemente solo per il padrone, per tutti gli altri possono bastare anche metodi più spicci e alla buona. Bastano poche, scarne, confuse informazioni provenienti da non si sa quale fonte per imbastire un processo e uscirsene dopo cinque minuti con una condanna definitiva. Dicono che Emergency abbia un fondo "ideologico", come dire che avere delle idee (da cui ideologia), sia una colpa. E come dire che in fondo era inevitabile che finisse così, con armi ammassate nello stipetto dell'ospedale. Ho ascoltato Gino Strada più volte nel corso delle sue non frequenti ma incisive apparizioni mediatiche, e non l'ho mai sentito dire qualcosa di eversivo o pericoloso. O forse sì: sostiene che la guerra è la più infame delle pratiche. Per il sangue versato, per le dinamiche economiche che sottende. Forse questa è una delle chiavi di lettura per capire la ferocia riversata nei confronti di un medico, di un uomo, che al di là di ogni dietrologia ha speso tutta la sua vita per rimettere in sesto esseri umani, nelle peggiori condizioni e nei luoghi più martoriati della terra. Il fatto che uomini così animino un'associazione indipendente, che non è al soldo di nessuno e che si interessa esclusivamente della salvaguardia della vita umana desta preoccupazione, di più: è uno scandalo tanto più incomprensibile perché non motivato da ragioni economiche. Se poi dire che le guerre dei padroni che ammazzano soldati e civili ci fanno schifo è un reato, allora condannateci tutti e finiamola qui.

la battaglia del pane

Il caso dei bambini figli di insolventi lasciati a pane e acqua in un comune del Veneto scopre uno scenario inquietante, e per molti aspetti irrecuperabile. Appellarsi ad un presunto codice di giustizia per giustificare il fatto che dei bambini vengano discriminati nel piatto della mensa mi pare francamente un eccesso. Il piglio da forcone con cui lo si è fatto, poi, sottende un senso dell'equità paesano e un po' taglionesco che fa poco onore a noi tutti; manca solo che venga chiuso il ragionamento con un bel: "Così imparano". Imparano che cosa questi bambini? La discriminazione, l'umiliazione dei diversi, dei figli di un Dio minore, che cosa? Un tempo i figli della comunità erano figli di tutti, perché era uso che ciascuna famiglia si prendesse carico anche un po' dei figli degli altri. Non c'erano porte, non c'erano inferriate. Comunità, del resto, viene proprio da comune, ossia condiviso: luogo fisico e culturale in cui nessuno viene lasciato solo, specie se è più debole o in difficoltà. La famiglia, ora come ora, capita spesso sia un luogo di solitudine, di arroccamento, quasi che ogni tinello fosse l'estremo ridotto da difendere con le unghie e con i denti. Il risultato è una guerra subdola, strisciante, che non guarda in faccia a nessuno, che tira in ballo regole che ogni buon senso si guarderebbe bene anche solo dal citare. I probi contro gli accattoni, la brava gente contro gli ignobili approfittatori. In una comunità le tasse si pagano anche per venire incontro a chi è rimasto indietro, secondo le proprie possibilità: questo si chiama stato sociale, questa è la principale possibilità civile che ci resta di fronte all'egoismo più sfrontato che cerca di farsi portatore di legge.

riabilitazioni

Il Vaticano riabilita, quarant'anni dopo lo scioglimento, i Beatles. Dopo averli definiti satanici, pericolosi e via discorrendo arriva l'assoluzione postuma, e non richiesta. Esemplare, da questo punto di vista, la risposta del pimpante Ringo Starr: "I couldn't care less", non me ne può importare di meno, coro al quale siamo credo in molti ad unirci. Il perdono papale arriva in ritardo di quasi mezzo secolo, non voluto e non avvertito come necessità da nessuno: i Beatles sono storia e lo sono con o senza il consenso della gerarchia cattolica, lo sono per via dell'impronta popolare che hanno lasciato, per il modo in cui hanno influenzato la cultura di una grossa parte di mondo, diventando simbolo oltre ogni tempo. Il Vaticano non capì allora e non capisce nemmeno adesso, visto che l'Osservatore tiene a specificare che la riabilitazione avviene nonostante la vita di eccessi dei fab four; come dire: ti perdono nonostante non mi piaccia il tuo stile di vita. L'entrata, sguaiata e sgangherata, diventa comica se si pensa a quanti fan dei Beatles cattolici ci siano stati nel corso degli anni e ci siano tutt'ora: persone rispettabilissime, inserite nella società, ottemperanti al proprio credo, che nemmeno in piccola parte sono stati deviati dal presunto messaggio esoterico satanico dei quattro di Liverpool. Se allarghiamo il discorso ai non cattolici (fan dei Beatles e brave persone) ci troviamo di fronte all'ennesima sconfitta delle frange più retrive della gerarchia cattolica, un conglomerato di potere bravissimo a dare addosso alle innocenti passioni altrui ma indulgente e omertoso quando si tratta di giudicare se stesso. E ora questa assurda riabilitazione. Mi piacerebbe sapere quanti cattolici fan dei Beatles si sentano sgravati da un peso di coscienza ora che i loro beniamini sono rientrati (a forza) in seno ad una Chiesa in cui non credono e alla quale non devono assolutamente nulla. I couldn't care less too, Ringo.

la strage emozionale

L'emozione è una categoria che va molto di moda. E' un bene comodo, facilmente propinabile tramite le vaste falangi mediatiche. E' un bene trasversale, consolatorio che si adatta con facilità a molteplici situazioni; ci emozioniamo con canzonette, con balletti, con struggenti tragedie familiari. Ci emozioniamo per i delitti, per le assoluzioni, per i fatti di cronaca, per le cagnette che adottano cuccioli di iena. Ci emozioniamo quando vediamo qualcuno piangere (è il trucco più vecchio che i registi conoscono per far commuovere nei propri film), ma ci emozioniamo anche quando spariamo a zero su qualcuno in un processo televisivo, quando ci sentiamo migliori di qualcun altro che non sa le risposte di un quiz. L'emozione facile, accattona, è da sempre il piede di porco usato per sobillare le folle, azzerando la loro capacità critica, coinvolgendole in un unico rito di massa, dove la differenza tra giusto e sbagliato ma anche tra bello e brutto viene di fatto oltrepassata. Il fatto che l'emozione sia tanto in voga è un segno dei tempi, o meglio: è il segno di una specifica fase del costume, forse non solo italiano; una fase che predilige le sensazioni basiche a quelle complesse e che tende progressivamente a sostituire il ragionamento con i singulti della pancia, la difficoltà della comprensione con l'immediatezza della pelle. L'emozione è un po' il termometro di un pensiero rovesciato, che ha capovolto le categorie mentali (o forse le ha turpemente assecondate) privilegiando l'impatto alla sostanza, al solo scopo di solleticare le voglie più popolari della gente, rassicurandola con qualcosa di semplice, immediato, che non richiede troppi sforzi. Il male sarebbe finanche accettabile se alla gggente fossero date delle alternative, ma con tutta evidenza permane il mito del "popolo bambino", bisognoso di cure e di carezze, perché ritenuto naturalmente incapace di padroneggiare realtà complesse e differenziate. E' una forma di razzismo, tanto più subdolo perché strisciante, presentato sotto nobili vesti ed eleganti fattezze. Ma sotto c'è sempre il Minculpop.

priva(tizza)zioni

Ricordo una delle tante dichiarazioni assurde del non rimpianto George W. Bush. In un'intervista, sempre con quel suo fare a metà tra il babbeo e il pastore mormone, dichiarò solennemente, scandendo bene le parole: "Io credo nella sanità privata." Che cosa intendesse il buonuomo con questa frase francamente non lo so, ma mi serve da spunto per un'altra osservazione. Come si fa a credere in qualcosa di privato? Come si fa a credere in qualcosa che ci chiede soldi (tanti) in cambio di prestazioni e che ci valuta non come persone ma come utenti paganti? Non credo che Bush sappia la risposta. Se dovessi dare una risposta da privato cittadino direi: io credo nella ricerca della giustizia sociale. Non nella felicità, che con questa storia ci hanno sempre fregato, ma nella giustizia sociale. Che non è un retaggio tardocomunista, ma un principio di equità. Garantire sanità di alto livello a tutti, per esempio, garantire l'istruzione, garantire che le tasse le paghino tutti e che tutti le paghino in proporzione ai beni posseduti. Lo Stato, nelle mie idee, dovrebbe essere garante soprattutto di questo: del fatto cioè che il volume complessivo delle risorse nazionali vengano ridistribuite in modo equo. La giustizia sociale, in fondo, non è che questo. La felicità all'americana non c'entra niente, non è questo a cui ambisco, non è questo che voglio, non è questo che serve. Il presidente Obama, giocandosi tutto nella riforma sanitaria, forse ha voluto dirci proprio questo: non credo nella sanità privata, ma credo nella possibilità della gente di costruire una società basata su valori solidali. E finché ci sarà uno squilibrio così marcato, così netto, così razzista tra chi ha e chi non ha, tra chi è garantito e chi non lo è non potremo dirci una democrazia compiuta. Non potremo nemmeno dirci una nazione, ma un ammasso di interessi privati, dove chi vince è il più furbo, il più spregiudicato.

riformatorio

Continuano le domande oziose, le domande ovvie a cui però non riesco a trovare risposta. Le riforme, per esempio, che cosa sono? Il sostantivo del momento, e va bene. Un'altra parola da massacrare ripetendola allo sfinimento, buona anche questa. Ma non basta. C'è qualche cosa di perverso nel continuare ad evocare ossessivamente le salvifiche riforme: sono diventate un mantra, una formula a metà tra il consolatorio e il rituale che getti la palla in avanti per alleggerire il pressing e sperare nel contropiede. In fondo ogni politico, per mestiere, legifera, e dunque può dirsi un riformista (o un riformatore? La linguistica insegna che i sinonimi non esistono), e pertanto: che bisogno c'è di evocare stravolgimenti ad ogni occasione? Dopo un lungo periodo di paziente osservazione sono giunto ad una mia personale ed opinabile conclusione: le riforme non sono niente. Sono un concetto astratto, una chimera più per chi le sogna che per chi le promette. Si pensa che con un paio di leggine, due commi e il resto mancia si risolva magicamente ogni impaccio. Ma non è così. L'Italia è piena di leggi, zuppa di regolamenti, commissioni, regole e sottoregole. Eppure non basta. In un paese in cui è il senso della legalità a mancare, in cui sono proprio i controllori a disattendere ogni principio di equità, non ci si può aspettare che due righe in un codice bastino a salvare la baracca. Pensiamo alla riforma fiscale. Ripetiamo tutti in coro: riforma fiscale, pare già di sentirsi meglio, no? Ma io dico: non ha senso parlare di riforma fiscale in uno stato in cui l'evasione è ai vertici mondiali. Non ha senso promettere meno tasse e abbassamento delle aliquote se appena centomila persone e spiccioli dichiarano più di centomila euro all'anno. Come dire: è un problema culturale. La cultura del suv, della villazza e della sanità privata contro la cultura della comunità solidale e sociale. Inutile dire quale via stiamo imboccando con il sorriso sulle labbra.

parola di provinciale

Che cos'è la provincia? Quali sono i suoi desideri, quali le aspettative? Il ritratto che ne emerge, che mi sono delineato sia per esperienza personale che per raffronto di dati elettorali e non solo, è quasi desolante. Ne esce un'Italia arroccata sulla difensiva, che trova la sua salvaguardia nelle difesa dei bastioni cattoclericali e borghesi benpensanti, una vasta zona grigia dominata dal sospetto, da una certa forma di egoismo che, a seconda delle zone geografiche, prende forme diverse: ora l'omertà, ora l'evasione fiscale più alta d'Europa. Nonostante abbia "mandato i figli a studiare" questa provincia non convince. E' una porzione di globo che non vuole saperne di cosmopolitismo, ma che al contempo è anche allergica alle regole che non le convengono; tradizionalista e un po' vigliacca quando si tratta di difendere i fatti propri, ribelle quando c'è da opporsi a leggi che non le piacciono. Moralista e perbenista, ma guai a intercettarle le telefonate. E' un comportamento trasversale, che attraversa un po' tutta la penisola, ora palesandosi come aperte diffidenza, ora celandosi dietro l'etica del lavoro e dell'ordine. La provincia cantata da Tondelli negli anni ottanta, quella "capitale morale" della nazione che lasciava intravedere fuoco e fiamme, e un futuro ricco di spunti sociali e culturali, ha tradito le attese, lasciando spazio ad un orizzonte molto più modesto. La provincia della fauna d'arte, dei film makers, dei freak, dei ritrattini felliniani è andata a finire chissà dove. Era una provincia bonaria quella. Un po' ingenua, con molti cascami cattolici e campanilismi assortiti. Ma era una provincia buona, una fetta di mondo pacifica con più di un progetto a proposito del futuro. Ora abbiamo a che fare con una creatura incattivita, inacidita, che piuttosto che niente si dichiara disposta ad accettare l'ennesimo sogno a costo zero svenduto dal Venditore di Minestre. E' una provincia che non sa più nemmeno che cosa sia il sogno postmoderno, e che alla propria crescita culturale ha preferito un giardinetto ordinato, un frigorifero con ghiacciaia, un forno a microonde. E' una landa triste, che non ha perso il vizio di confondere morale con moralismo. Peccato.

La svastica sul sole, di Philip K. Dick

La svastica sul sole viene definito da qualcuno come il capolavoro di Philip K. Dick. La dicitura sulla copertina ci tiene a specificarlo. Le opinioni, scartabellando su internet, sono comunque discordi. Quanto a me, non sono un grosso frequentatore della letteratura di genere: lo dico senza false dichiarazioni d'umiltà: non è una letteratura che mi abbia mai granché interessato. Ci capito qualche volta, valuto caso per caso, ma senza mai farne un'ossessione. Così è avvenuto con questo romanzo di Dick: fantapolitica più che fantascienza. Storia possibile di un mondo in cui le forze dell'Asse hanno sconfitto quelle Alleate. Il mondo viene ripartito tra Germania e Giappone, mentre alla derelitta Italia non vengono date che le briciole. In questo universo parallelo si incrociano le esistenze di diversi personaggi, uniti dall'interesse per l'I - ching e da un romanzo proibito che narra le vicende di un mondo in cui a vincere sono state le forze Alleate. Pretesto avvincente (anche se già trattato da altri) che dà vita ad un romanzo di rara noia. Situazioni di debordante banalità, descrizioni piatte, dialoghi da telenovela. Il tutto condito da una forma nemmeno tanto recondita di razzismo nei confronti degli italiani: descritti come delle scimmie, dei vigliacchi, dei sottouomini. Dick ha letto poco, e studiato ancora meno. Non sa di Cefalonia, non sa di El Alamein. Non sa e non vuole sapere: si accontenta della vulgata per servire un bel groviglio di luoghi comuni, un brogliaccio insipido in cui non si capisce niente, tantomeno perché sia stato scritto. Il finale è un insulto. Il mio approccio al romanzo non sarà raffinatissimo da un punto di vista filologico, ma credo che la filologia serva a poco quando si ha a che fare con della narrativa di livello così basso: inesistente da un punto di vista intellettuale, noiosissima sul versante della pura fiction. L'autore pretende di fare un affresco con delle minutaglie, dei residui marginali. Sembra il libro di uno che ha sentito parlare di nazismo e di fascismo e che sulla falsariga di qualche chiacchiera abbia deciso di scrivere un romanzetto. Il personaggio italiano è il milanese Joseph Cinnadella. Joseph Cinnadella. Manco s'è sprecato a controllare qualche nome italiano e milanese un poco più probabile. Ottimo sottobicchiere, comunque.

mali culturali

Resta da capire quale sia esattamente i ruolo dei Beni Culturali in Italia. Un dicastero c'è, una sua elegante sede in Roma c'è. C'è anche un ministro, per quanto questi appaia più impegnato a difendere a mezzo tribuna televisiva il suo pigmalione che a gestire l'immenso patrimonio artistico e culturale italiano. Il ministero c'è e non c'è, come tutti gli apparati nebulosi che si rispettino: è un'entità che aleggia sui tamburini dei cantieri, un simbolo che di tanto in tanto patrocina qualche evento mondano, ma in soldoni non si sa esattamente quali siano i suoi compiti, specialmente negli ultimi anni. Come stiamo messi a valorizzazione del territorio? E il patrimonio artistico? Quali sono i progetti del ministero per le politiche culturali? Questo non è dato sapere. Di tutti i sottosegretari che sicuramente ci sono, non si sa quali siano i compiti e le funzioni. Il ministro, nelle sue pose evangeliche, non si è mai degnato di dire mezza parola circa la sua missione istituzionale: facile è invece trovarlo intento a dispiegare mezzi psicologici e risorse vocali per difendere ogni genere di causa, tranne quella che dovrebbe vederlo protagonista. Inutile dire che i Beni Culturali dovrebbero essere non solo il nostro fiore all'occhiello, ma anche e soprattutto la nostra punta di diamante, il volano che avrebbe tutte le carte in regola per consentire, unitamente al turismo, una rinascita economica e morale di buona parte della società. E invece calma piatta. Il fu governo Prodi, tra un disastro e l'altro, perlomeno fece la voce grossa con il Getty Museum per ottenere la restituzione di alcuni reperti trafugati. L'attuale governo ha invece preferito imboccare la strada che gli è più consona: massacrare la cultura italiana. Ignorandola, umiliandola, sbattendola nel dimenticatoio. D'altra parte da un agglomerato sottoculturale che ha prodotto Mediaset e relative mostruosità non era lecito attendersi molto di più.

mine vaganti

Scandalo pedofilia in seno all'ambiente ecclesiastico. Un ministro di Grazia e Giustizia che, anziché dichiarare battaglia all'abominio degli abusi sui minori in qualunque campo, manda degli ispettori a verificare l'operato di un magistrato che sta tentando di dipanare nebbie e reticenze in merito. La chiesa stessa che tra mille distinguo prova a barcamenarsi anche questa volta. Il mondo politico che tergiversa alla ricerca di una terza via che faccia tutti contenti. Le vittime che a quanto pare sono le ultime in ordine gerarchico, visto che nessuno parla di loro e nessuno ha fatto ancora niente per evitare che il fenomeno continui. Ma d'altra parte si sa, le regole sono materia variabile a seconda del giudicato. E' notizia di queste ore che l'Italia si conferma come uno dei maggiori mercanti di morte del mondo: l'industria bellica nel nostro paese non conosce soste, né crisi né frenate. Le esportazioni sono incrementate ancora, comprese quelle delle odiose mine antiuomo, quei graziosi oggettini colorati e invitanti confezionati apposta per menomare e fare a pezzi i bambini. Bambini che qualche eroe come Gino Strada prova poi coraggiosamente a rimettere insieme, ma che spesso chissà che fine fanno. La chiesa ha niente da dire su tutto ciò? La chiesa intesa come alte sfere gerarchiche vuole spendere qualche parola anche in merito a questo? Altrimenti significa che non ho capito proprio niente. Tentare con ogni mezzo di stoppare la pillola abortiva sì, bloccare il mercato di morte delle mine antiuomo no. Nemmeno un'enciclichina, nemmeno una noterella all'Angelus. Il governo del fare, poi, si guarda bene dal dire una sillaba in merito. E non parliamo delle ultime settimane, parliamo degli ultimi cinquant'anni: mai una parola contro l'industria bellica, mai una rimostranza, mai un appello. Ti pare, per una volta che qualcosa funziona in questo paese.

spaccature

Messa in cassa l'ennesima batosta elettorale, provo a fare due semplici ragionamenti. Il primo: la gente vuole questo centrodestra, non so se in mancanza di meglio o per convinzione, ma poco importa. Secondo: la sproporzione tra città e provincia, con la prima su posizioni nettamente progressiste, la seconda arroccata sulle fronde più reazionarie. E' come se ogni regione del paese presentasse una doppia lettura: Torino e il Piemonte, Venezia e il Veneto, Roma e il Lazio. Persino Milano, da anni ormai cuore reazionario e borghesotto della penisola, ha si può dire respinto al mittente l'istanza cattoleghista. Ma ci pensano le province, per l'appunto, periferia sterminata e magmatica che con un colpo di frusta rimette le cose a posto, nel segno della continuità retriva, ora cattoleghista ora nera. Siamo di fronte ad una dicotomia di antica data, oggetto di studi storici e storiografici che hanno spiegato solo in parte come sia possibile questo doppio binario. E' un fenomeno che in Italia è particolarmente evidente, ma che ha i suoi degni epigoni anche altrove, in Francia per esempio, dove è netta la distinzione tra Parigi e il resto del paese, oppure anche negli Usa, con lo scarto culturale che separa New York dall'Alabama o dal Texas. Ma perlomeno significa che c'è ancora una speranza. La contrapposizione tra strapaese e metropoli è forse il tema su cui si incentreranno sempre di più le tenzoni politiche e culturali dei prossimi anni, a patto che si lavori perché l'onda virtuosa proveniente dai capoluoghi sappia coinvolgere anche i centri meno forniti da un punto di vista culturale e politico, creando finalmente una connessione e uno scambio tra le diverse mentalità. Infine un mio personale respiro di sollievo: l'amata Venezia rimasta in buone mani. In tutta onestà vedere una delle città più belle del mondo in mano a quel buffo personaggio che parodia se stesso sarebbe stato un colpo forte. Ma i veri amori non tradiscono. Grazie.