Baciami ancora, il film sulla generazione dei quarantenni, udite udite. Ma ha davvero senso parlare di generazione? E' un termine molto diffuso, comune, quasi banale. Generazionali sono i film, i libri, le parole d'ordine. Ma siamo sicuri che tutta questa trasversalità esista davvero? Ho provato a pensare a quale sia la principale fucina di questo enorme luogo comune: i media. Di per sé un singolo ha qualche difficoltà a percepire, con i suoi sensi, con il suo gusto, con la sua attenzione, un fenomeno vasto come una generazione. Allora i media corrono in aiuto, confezionano il mito, lo servono con contorno di canzoni, film, eventi simbolo. Ma la natura del singolo non può che ribellarsi a questa macelleria. I servizi degli scandalosi e modestissimi telegiornali, i film di qualche mediocre regista di casa nostra, non bastano a definire l'avventura di un gruppo di persone nate più o meno nello stesso periodo, per il semplice fatto che ognuno è storia a sé, storia della sua storia, dove, comunque, l'atto creativo o disperato o inerziale è sempre e comunque appannaggio di uno e uno solo. Non esistono responsabilità collettive, ma individuali. Il singolo paga per sé, e poco importa se dietro di lui c'era un movimento, una massa o un gruppo organizzato. L'alibi è già stato per così dire consumato da quella stessa generazione che ha scippato il futuro ai suoi figli, quella che ha cavalcato l'onda e ora ha il potere, ossia può fare, può decidere e deliberare. Si è data l'assoluzione, una generica, generale, generazionale assoluzione. Non c'è niente di poetico in tutto ciò, solo una dose abnorme di ipocrisia, di opportunismo, di aria fritta insomma. Non basta un film sui call center per dire come stanno le cose.
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