Rileggere il diario di Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, significa entrare in contatto con il farsi di una vita e di una poetica. Tra le sue pagine si rintraccia qualche cosa che va oltre la letteratura, e che pure giustifica la letteratura stessa, le conferisce spessore e credibilità. Nel diario emerge un autoritratto senza sconti, dolente, malinconico, ora attraversato da sprazzi di ironia, pennellate di tonalità più tenui che alleggeriscono il cupo di tutta un'esistenza. Il diario non tradisce rassegnazione, ma una forma alta di consapevolezza, quella amara presa di coscienza che Pavese covava in sé fin dalla prima giovinezza, quando già all'orizzonte sembravano addensarsi le ombre che avrebbero poi alimentato il famigerato vizio assurdo. Il diario abbraccia il periodo 1935 - 1950, pochi giorni prima del suicidio dello scrittore, in un albergo di Torino: la parabola si disegna con sorprendente coerenza e nitidezza, senza indugiare nel compatimento o nel melenso. Anche nella forma diaristica si rispecchia uno stile: quello della compostezza e dell'asciuttezza, tratti cari al poeta delle Langhe, lo scrittore delle estati e della calura, del sudore, del sesso frustrato. Pavese è l'altra faccia di una generazione: quella torinese che tra molte difficoltà e pericoli è alla fine riuscita a costituire il nucleo dell'Italia culturale del secondo dopoguerra, formato dai vari Bobbio, Mila, Argan e molti altri, generazione in cui lo scrittore di Santo Stefano Belbo risulterà sempre decentrato, fuori fuoco, volutamente in disparte. Nel diario ci sono poche concessioni alla vita pubblica e sociale: pagina dopo pagina si dispiega quella che è l'officina intellettuale dell'autore, dell'acuto osservatore che mette da parte i suoi attrezzi, che affila le lame in vista di qualcosa d'altro. Un romanzo, un'interrogazione intima. Il fatto è che Pavese resta uno scrittore di difficile collocazione, uno che ha inventato uno stile (chi dice che ha attinto a piene mani dagli autori americani che traduceva, secondo me, ha capito poco o nulla di Pavese) e che sotto la coltre di quello stile, in un certo senso, si è sepolto: c'è troppo dolore nella sua scrittura, troppa iterazione tra le ossessioni di una vita, tra i capitoli che l'uomo Pavese, non sempre per colpa sua, non ha potuto chiudere. Il diario fa chiarezza, rivelando che tra l'uomo e lo scrittore non c'è iato, ma una sorta di ostinata continuità che non resterà priva di conseguenze. Ovviamente non bastano poche righe per definire una personalità tanto complessa, che svariò dalle attrici da rivista alle dense meditazioni sul senso del tragico (perché Pavese fu soprattutto questo: un cantore del tragico).
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