Metti un pomeriggio di inizio autunno. Metti il sacro timore dell'Istituzione nella veste di un gruppo di signori in palandrana. Va in scena l'ultimo mito borghese: il festival di laurea. La sala ha l'ardire di definirsi napoleonica, e noi le crediamo sulla parola. I candidati e le candidate nel vestito buono, odoroso di naftalina dopo un paio d'anni nell'armadio. In qualche caso è preso per l'occasione, altrimenti si tratta della seconda uscita dopo il matrimonio di zio Franco. Non so esattamente cosa ci faccio qui; so solo che ho in testa un motivo di Paolo Conte che credo sia Genova per noi. Avrei solo voglia di starmene su un paracarro a pensare ai fatti miei, come quello di un'altra canzone, ma la patria chiama. Non me beninteso, eppure qualche cosa mi smuove, sento la voglia perversa di toccarlo questo Moloch: gli affreschi, le decorazioni, i tavolini traballanti (vietato toccare e appoggiarsi) tizi strani che si aggirano in minacciose palandrane. Butto l'occhio fuori dalla finestra: nel cortile interno si affacciano alcune finestre dai davanzali ornati di cactus e basilico. Un napoleonico inquilino, sbadigliando in canottiera, si infila la camicia. Poi le schiere dei parenti. Le nonne che non sanno bene che cosa stia succedendo. Le care zie nelle retrovie. Ma lo spettacolo sono le mamme: moralmente ipertrofiche, enormi. Se lo godono proprio questo momento queste gigantesche matrone all'ultima goccia di latte. Il tuo pupattolo alma mater, proprio lui. E' una festa italiana dopotutto. Accidenti a questa acustica pessima, a questi nodi alle cravatte che vengono sempre male. C'è ancora il tempo per il ripassino della figliola: una vera miss impiegata nel suo tailleurino. Da apprezzare le rilegature delle tesi: tutte dello stesso copista, tutte dello stesso colore, tutte uguali.
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