Pensavo ieri sera alla straordinaria concentrazione di scrittori napoletani. Di scrittori, cioè, che hanno incarnato i segni di una città e di una predisposizione mentale, che hanno inscritto la propria opera nel solco di una tradizione, o per meglio dire di una predestinazione culturale che ho sentito più volte chiamare, non so se correttamente o meno, napoletanità. La Capria, Ortese, Domenico Rea, lo stesso Eduardo De Filippo, per citare solo quelli che mi vengono in mente. Non si tratta di una vera e propria scuola, ma di una serie di percorsi indipendenti che si sono ritrovati, non credo per caso, a tracciare un itinerario parallelo, nel segno di una città. Non so se ci sono molte altre esperienze simili in Italia. L'unica che mi venga in mente è quella degli scrittori veneti, Piovene, Parise, Zanzotto, Meneghello, sempre per limitarmi a quelli che ho letto. Ripensando a questa astrazione intellettuale - in fondo è impossibile dare una definizione univoca di napoletanità - viene spontaneo chiedersi il perché di questa irripetibile concentrazione di autori legati in modo tanto viscerale alla propria terra, ma è una risposta che non sono in grado di darmi: sia perché non conosco Napoli abbastanza bene da azzardare un giudizio, sia perché dove sono nato e cresciuto non c'è traccia di altrettanta visceralità; citerò un esempio che ritengo abbastanza significativo: il più grande autore lombardo di sempre è anche uno dei più grandi autori italiani del novecento, Carlo Emilio Gadda, il quale però scelse di vivere a Roma e di comporre la sua opera più famosa, il Pasticciaccio, in romanesco. Qualcuno potrà obiettare che il suo capolavoro è la Cognizione del dolore, e io potrei anche dirmi d'accordo, ma non è questa la sede per una disputa del genere: mi pare solo abbastanza significativo che uno scrittore della grandezza di Gadda abbia optato per un vernacolo diverso dal proprio, lui che si è sempre distinto come cantore, per la verità alquanto isolato, della "lombardità". A Napoli, comunque, mi sembra che la situazione sia diversa, e che quel canto disperato della sua gente abbia a che vedere con qualcosa di profondo, con elementi mobili e remoti che si agitano in un territorio imprecisato, in un limbo, in un anfratto della coscienza che lega in modo quasi ineluttabile lo scrittore all'oggetto della sua scrittura. Che in questo caso da parametro concreto, una città, diventa chimera metafisica, immobilità alla De Chirico, confronto perenne con una parte di se stessi.
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