La reazione comune, e ostinata, di chi in questa tornata elettorale ha perso è stata più o meno la stessa: vediamo che cosa siete capaci di fare voi. Una cassandra, bella e buona. E in questa alzata di sopracciglio stizzita e un po' infantile (è una frase che potrebbe dire un bambino, non un uomo di governo) si legge in filigrana non solo tutta la povertà di idee che ha accompagnato in questi anni la compagine di centrodestra, ma anche quella che a mio avviso è stata la principale causa di questa debacle: l'arroganza. Una superbia piccata e rancorosa che ha accompagnato ogni singolo atto di questi ultimi mesi, dalla disperata arrampicata sugli specchi del caso Ruby fino alle calunnie della campagna elettorale milanese. Una mancanza di umiltà, e alla fine di realtà, insita nel Dna di questi esponenti politici che alla fine non ha potuto fare a meno di esplodere e trascinare con sé ogni residua illusione, ogni effetto speciale, ogni mancata promessa. E' quasi paradossale non avere l'onestà intellettuale di avanzare qualche blanda autocritica all'indomani di una sconfitta così evidente, specie se i toni della giustificazione ricorrono a mezzucci del genere: sbagliata la scelta dei candidati, errore di comunicazione. Nessuna, dico nessuna considerazione di merito. Nessuno che si prenda una responsabilità, ad eccezione dell'ex ministro dei Beni Culturali, triste coscienza solitaria che nel fragore della caduta ha trovato la forza di dire basta. Chi ha vinto d'altro canto non ha messo in campo sceneggiate: l'unica promessa che ho sentito è stata quella di cambiare, che non è comunque poco. Già cambiare rispetto alla boria inconcludente di chi finora ha governato sarebbe un buon successo. Vedremo, vedremo tutti quello che potrà accadere. Intanto sappiamo da dove veniamo, sappiamo quello che è stato fatto e come è stato fatto: i cittadini evidentemente hanno fatto i loro conti e hanno preso una decisione. Libera, indipendente. Perché è anche ora di finirla di usare il popolo come testa d'ariete quando ti dice bene, salvo poi, quando il popolo di te s'è stancato, ricorrere alle perifrasi del politichese per ancorarsi alla cadrega. D'altra parte, da che mondo è mondo, si rottama quello che non funziona.
il mare che bagna Napoli
lunedì 30 maggio 2011
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Ariberto Terragni
Pensavo ieri sera alla straordinaria concentrazione di scrittori napoletani. Di scrittori, cioè, che hanno incarnato i segni di una città e di una predisposizione mentale, che hanno inscritto la propria opera nel solco di una tradizione, o per meglio dire di una predestinazione culturale che ho sentito più volte chiamare, non so se correttamente o meno, napoletanità. La Capria, Ortese, Domenico Rea, lo stesso Eduardo De Filippo, per citare solo quelli che mi vengono in mente. Non si tratta di una vera e propria scuola, ma di una serie di percorsi indipendenti che si sono ritrovati, non credo per caso, a tracciare un itinerario parallelo, nel segno di una città. Non so se ci sono molte altre esperienze simili in Italia. L'unica che mi venga in mente è quella degli scrittori veneti, Piovene, Parise, Zanzotto, Meneghello, sempre per limitarmi a quelli che ho letto. Ripensando a questa astrazione intellettuale - in fondo è impossibile dare una definizione univoca di napoletanità - viene spontaneo chiedersi il perché di questa irripetibile concentrazione di autori legati in modo tanto viscerale alla propria terra, ma è una risposta che non sono in grado di darmi: sia perché non conosco Napoli abbastanza bene da azzardare un giudizio, sia perché dove sono nato e cresciuto non c'è traccia di altrettanta visceralità; citerò un esempio che ritengo abbastanza significativo: il più grande autore lombardo di sempre è anche uno dei più grandi autori italiani del novecento, Carlo Emilio Gadda, il quale però scelse di vivere a Roma e di comporre la sua opera più famosa, il Pasticciaccio, in romanesco. Qualcuno potrà obiettare che il suo capolavoro è la Cognizione del dolore, e io potrei anche dirmi d'accordo, ma non è questa la sede per una disputa del genere: mi pare solo abbastanza significativo che uno scrittore della grandezza di Gadda abbia optato per un vernacolo diverso dal proprio, lui che si è sempre distinto come cantore, per la verità alquanto isolato, della "lombardità". A Napoli, comunque, mi sembra che la situazione sia diversa, e che quel canto disperato della sua gente abbia a che vedere con qualcosa di profondo, con elementi mobili e remoti che si agitano in un territorio imprecisato, in un limbo, in un anfratto della coscienza che lega in modo quasi ineluttabile lo scrittore all'oggetto della sua scrittura. Che in questo caso da parametro concreto, una città, diventa chimera metafisica, immobilità alla De Chirico, confronto perenne con una parte di se stessi.
Jim Morrison poeta
venerdì 27 maggio 2011
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Ariberto Terragni
Ho riletto alla rinfusa un po' di scritti di Jim Morrison, ho riascoltato in ordine sparso le canzoni dei Doors, ho ripreso in mano un saggio breve che scrissi un paio d'anni fa su Morrison poeta, sintetica nota finita nel calderone del nulla in cui s'ammassa gran parte della roba che scrivo. Non ho cambiato idea su James Douglas Morrison: è un poeta, ne sono certo. Come si individua un poeta? Non ci sono metri tecnici, checché qualche scombinato docente strutturalista ne dica; non si tratta nemmeno di emozioni, come un altrettanto incauto docente 'neomelodico' potrebbe ribattere. C'è una chimica più strana e più intrigante, che ha a che vedere con gli umori più reconditi che ci portiamo addosso: umori qualche volta bassi, di scarto, che galleggiano nella palude del rimosso e del dimenticato. Morrison è stato un grande alchimista sotto questo profilo: è andato a scavare, è andato a recuperare questo materiale inconfessabile e ce lo ha scodellato sotto il nostro naso anestetizzato, ormai abituato alla medietà conforme e del tutto dimentico della natura di cui siamo fatti. Sì, fu un cantore del sesso, ma non si tratta solo di questo: Morrison aveva una sensibilità rabdomantica per le contraddizioni, un intuito se si vuole, una capacità interpretativa sconfinata e talvolta violenta, che alla fine gli giocò contro, in una partita mortale di cui tutti sappiamo l'esito. Si trovò ad essere una rockstar senza in pratica esserlo: lui così introverso, così ostile al rumore, ebbe la necessità di fare chiasso e di confondersi nel gran magma della contestazione per emergere, per diventare se stesso. Un gioco mortale, ancora una volta. Non si può pensare di continuare a sedurre la morte senza pagare dazio. Il patrimonio che ci ha lasciato è abbastanza esiguo: due raccolte ufficiali di poesie, The lords e The new creatures, più i testi delle canzoni più quello che penso sia il suo vero gioiello, la raccolta postuma Tempesta elettrica, da leggere nell'originale, stante una traduzione in italiano imbarazzante. Patrimonio esiguo, si diceva, ma tanto basta. Sbaglia chi prova a definirlo un beat: la sua ispirazione ha radici molto più lontane, che affondano nella memoria classica, nelle letture colte, nelle premesse simboliste. Nessun Allen Ginsberg ha mai fatto tanto. Jim Morrison non è stato solo un poeta, ma un poeta colto (le due cose non si accompagnano necessariamente), che il mito del Re lucertola ha solo inquinato, non permettendo più di scindere i campi e impedendo all'anima propriamente letteraria dell'autore di vedere la luce. Non scrivo citazioni, perché quelle mi ricordano gli odiati professori che mi accusavano di non metterne abbastanza. "Qualche citazione ad hoc", dicevano. Rispondevo: "Le ho solo d'oil". E rinuncio anche a pubblicare in questa sede quel breve saggio su Morrison (in cui gli stralci dei suoi testi invece ci sono, ma per una questione di rispetto filologico), visto che la sua brevità è comunque troppo estesa per le poche righe che mi concedo di scrivere qui. E Jim merita molto di più.
il grande sonno
lunedì 23 maggio 2011
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Ariberto Terragni
Posto che i ballottaggi sono un rebus in cui è meglio non riporre troppe certezze; posto che il massiccio impiego di armi mediatiche del centrodestra potrebbe sortire anche questa volta il suo tragico effetto, non posso fare a meno di farmi l'ingenua domanda: perché continuare con B. e la sua scalcinata coorte di adulatori? Perché la destra italiana, salvo marginali alzate di scudo, non riesce a fare a meno di identificarsi con i disvalori di questo personaggio? Il fenomeno è curioso, strano, sfuggente. In tutto l'occidente chi perde colpi viene sostituito, e anche i leader sulla breccia già contemplano la possibilità di essere rimpiazzati da esponenti più giovani. Fa parte della vita, viene da dire: non solo passa la mano chi perde, ma anche chi vince. Due mandati, una manciata di anni di governo e poi via, sotto la prossima classe dirigente, che nel frattempo si è fatta le ossa. Qui no. Tanto a destra che a sinistra, va bene. Ma a destra le cose sono messe ancora peggio, nel senso che non c'è un segretario, non c'è un leader: c'è un padrone, un azionista unico, un mangiafuoco che nel potere a oltranza ha individuato il meccanismo esatto della propria sopravvivenza. Politica, ma non solo politica. In questa occupazione permanente delle idee e dei codici di linguaggio (il berlusconismo è linguaggio in quanto depauperamento massimo del linguaggio) si cela tutto l'abnorme equivoco di cui la destra, insieme a noi tutti, è stata la principale vittima degli ultimi diciassette anni. Privata di dignità, spogliata di qualsiasi matrice culturale, ribaltata a uso e consumo di uno solo, si ritrova oggi a non avere neanche più un alfabeto con cui ri-pensarsi, re-inventarsi, ri-costruirsi, non solo o non tanto nella ricerca di una nuova guida, ma proprio nella ricerca di uno scopo, di una cifra politica. Lo smarrimento, specie tra gli esponenti più colti (che da qualche parte ci saranno pure), immagino sia parecchio. Anche perché risvegliarsi solo ora dalla narcosi denuncia un penoso ritardo.
fenomeni paraletterari del terzo tipo
giovedì 19 maggio 2011
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Ariberto Terragni
A che punto siamo con la narrativa italiana contemporanea? Provare a dare una risposta potrebbe essere meno semplice del previsto. Ad un'occhiata superficiale sembra quasi che la narrativa in senso stretto - per intenderci romanzo e racconto - sopravviva solo in ambito di genere: giallo, horror, e tutte quelle interminabili diramazioni fantasy che hanno intasato il mercato editoriale. Di genere può anche essere considerata la ricca produzione giovanilistica, in stile Moccia e simili: sottoprodotti, o se si preferisce sottogeneri paraletterari approdati al rango di libro in forza a massicce dosi di luogo comune. Per il resto mi sembra di vedere il nulla. Dell'autobiografismo, del resoconto in chiave (sempre e comunque) giovanilistica veramente non se ne può più, e non solo o non tanto per l'equivoco generato da queste sottoproduzioni (con che cosa abbiamo a che fare? A chi si rivolge il narcisismo dell'autobiografia se non all'autore stesso?) ma per l'oggettiva inflazione causata da una sovrapproduzione libresca a basso tasso qualitativo. Fino a qualche decennio fa le realtà letterarie più disparate convivevano, oggi, con l'aumento quantitativo ma non qualitativo della lettura, il sistema è giunto in prossimità del collasso. A farne le spese, manco a dirlo, quella sezione che fatica ad inscriversi in un settore predeterminato: quella forma di letteratura creativa che però sfugge tanto dalle secche dell'autobiografismo che dal codice di genere. In tempi come questi bisogna appartenere ad una categoria. Gente come Moravia, Parise, Ottieri, Volponi, Landolfi, ma anche Faulkner, Steinbeck, Dos Passos, Cèline e così via, oggi non avrebbe mercato. Nemmeno Calvino troverebbe un editore. E' una spirale da cui è molto difficile uscire, e il fenomeno del self publishing, purtroppo, non ha fatto che aumentare la confusione, dando a innumerevoli schiere di dilettanti l'illusione di un titolo, la speranza - frustrata in partenza - di una dignità letteraria. La tendenza è avviata verso il peggio, a meno che qualcuno non ricominci a fare l'editore e qualche finto scrittore non si dedichi alla pesca o alla playstation. O a quello che faceva prima: il cantante, il presentatore, il pizzaiolo, il magistrato...
Giardini e strade, di Ernst Jünger
martedì 17 maggio 2011
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Ariberto Terragni
Nuovo articolo per Reader's Bench:
dubbi elettorali
lunedì 16 maggio 2011
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Ariberto Terragni
Sto guardando i risultati di queste strane elezioni locali assurte a banco di prova politico; guardo e aspetto, senza agitarmi troppo. Così, a caldo, un dato mi colpisce: il crescente peso del Movimento a cinque stelle. Sono percentuali in netto aumento. Ora, io non ho niente contro i così detti grillini: hanno le loro idee, alcune giustissime, e di per sé il concetto di democrazia dal basso è vero e condivisibile. Ma la domanda che mi viene è un'altra: visto che rifiutano il confronto con le altre forze politiche, quale obiettivo si pongono davvero? Dietro la carica dinamitarda e manichea del loro leader, quale sostanza politica può celarsi? Una formazione che si autoproclami moralmente superiore alle altre e portatrice di verità assolute, lo dico senza reticenze, non mi piace. Se posso essere d'accordo su uno o su tanti punti di programma, mi risulta più ostico accettare l'assenza preventiva di confronto. Ora, la nota dolente è un'altra: le percentuali sensibili del Movimento da dove provengono? Così a naso direi dal centrosinistra e dal fronte degli astensionisti. Dal momento che non si intendono promuovere alleanze, va da sé che sono tutti voti regalati al centrodestra. Mi chiedo di questo passo le prospettive quali possano essere, e soprattutto mi domando quali siano le prospettive e le aspettative degli elettori del Movimento. A giudicare dalla vera e propria opera di sabotaggio attuata in Piemonte, si profila qualche problema di troppo in termini di spendibilità politica. Anche un buon progetto necessita di quella noiosa trafila chiamata dialogo e democrazia che qualche volta implica la sconfitta, e qualche volta comporta anche, guarda un po', di veder vincere proprio l'avversario che tanto ci sta sulle palle. Non sono problemi marginali per il centrosinistra: sono il termometro della delusione di una fetta sempre più consistente di elettorato, che tra divisioni interne e tanta aria fritta rischia di andare perduta. A meno che non si trovi un nuovo linguaggio, a meno che non si mettano in campo idee capaci di restituire credibilità ad una classe dirigente sfibrata da anni di immobilismo e nomenclatura.
il club dei moderati
giovedì 12 maggio 2011
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Ariberto Terragni
Resta da capire che cosa esattamente si intenda per 'moderazione' tutte le volte che questo mantra viene evocato per accaparrarsi voti. Non credo che l'episodio di campagna elettorale capitato ieri tra i due contendenti alla poltrona di sindaco di Milano rientri perfettamente in questa categoria. Mi piacerebbe esprimesse la sua opinione un marziano capitato per la prima volta sul nostro pianeta giusto in tempo per assistere a quella scena. L'italiano medio, si sa, è per forza di cose moderato: né troppo né troppo poco, giusto a mezzo, un po' in ogni modo, un po' con chiunque, un po' di questo e un po' di quello. E quando c'è da affossare il rivale con delle accuse in odor di calunnia, beh, mica si può tirare indietro. Forse è questa l'idea di moderazione evocata dal sindaco uscente. Idea peraltro coerente con altri episodi perpetrati con tattica analoga dal suo partito: del resto basta poco per manovrare un'opinione pubblica esile come carta velina, allo sbando, annichilita da anni e anni di palinsesti televisivi studiati ad arte per creare l'italiano nuovo, che se per il fascismo era una specie di guerriero all'amatriciana, a Berlusconia assume le fattezze di un pacioso moderato in pantofole, scarse letture e un monte ore televisivo alle spalle da restarci secco. E' un peccato che anche la buona vecchia conservatrice borghesia milanese si sia fatta attirare in questo gorgo indecoroso, confondendo il concetto di destra (che tra le altre prevederebbe rispetto della legalità, importanza dell'onorabilità personale e così via) con questo sottobosco di veleni e piccole meschinità, con la vanagloria ormai fuori controllo di un anziano signore che è riuscito a trascinarci dove nemmeno negli incubi peggiori saremmo riusciti ad arrivare. Ancora una volta, questa ennesima caduta di stile non sembra uscire poi di molto dai canoni - bassissimi - a cui ci siamo abituati negli ultimi tempi. E se nemmeno un fatto di questo genere serve a svegliarci dal torpore, se ormai siamo disposti a prendere tutto per buono e ad accettare ogni nuovo scivolone verso il basso come un nonnulla forse le elezioni le abbiamo già perse. Comunque vada e chiunque governi.
palma d'oro a Bernardo Bertolucci
martedì 10 maggio 2011
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Ariberto Terragni
La Palma d'oro alla carriera a Bernardo Bertolucci non sorprende, ma del resto nemmeno può dirsi del tutto scontata: arriva in un momento delicato per l'artista, che dopo anni di silenzio è in procinto di tornare sul set con un nuovo progetto. Non male per uno che fino a un anno fa o poco più era sul punto di chiudere con il cinema a causa di seri problemi di salute, e di una schiena operata più volte. Il premio di Cannes arriva quasi come un augurio, o come un viatico, giusto riconoscimento ad una carriera irripetibile, credo una delle più complete e variegate dell'intero panorama internazionale; Bertolucci ha attraversato generi a stili come pochissimi altri: dal neorealismo pasoliniano de La commare secca, all'affresco storico di Novecento o de L'ultimo imperatore, fino ai drammi da camera di Ultimo tango a Parigi o di The dreamers. Un percorso frastagliato e difficile il suo, in cui non sono mancate le debacle e le digressioni - come alcuni documentari - ma in cui si avverte, anche ad una disamina superficiale, la costante tensione al nuovo e all'inesplorato. Il cinema di Bertolucci è una scatola magica del nostro tempo, un caleidoscopio in cui gran parte delle tensioni novecentesche hanno trovato la loro collocazione cinematografica e per così dire visiva: credo sia questo l'ingrediente che ne ha fatto fin da subito un classico. Personalmente, credo che insieme a David Lynch, Werner Herzog, Woody Allen e pochi altri sia il più importante regista vivente, di sicuro il primo degli italiani, di certo uno dei pochi nostri connazionali esportabili all'estero. Ma queste sono opinioni personali. Un dato di fatto invece è l'assoluta innovazione del suo discorso narrativo, osservabile anche sotto le spoglie di un'unica, potente metafora dove la voglia di vivere si confonde sempre nelle penombre della cupio dissolvi, nell'assurdo, nell'eccesso autodistruttivo. C'è materia poetica nei suoi film, ma c'è anche uno degli ultimi tentativi di tragedia moderna che l'arte in generale sia riuscita ad esprimere negli ultimi anni. Mi rendo conto del paragone imponente, ma non lo ritratto. E sono contento che nonostante tutto sia al lavoro: abbiamo ancora bisogno di lui.
la nausea
sabato 7 maggio 2011
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Ariberto Terragni
Dopo un attimo di incredulità, sono stato costretto a prendere atto di questa sconcertante iniziativa del venerando Salone Internazionale del Libro di Torino, che con piglio cattedratico ha pensato bene di stilare una classifica di must letterari. Con questa divertente premessa:
"Sono i totem. I must, i testi fondativi su cui l’Italia si è formata e si è lacerata, ora si è unita ora si è divisa. I 15 SuperLibri non sono necessariamente capolavori di bello scrivere. Sono i libri che, al loro apparire, hanno però rappresentato un punto fermo, una svolta, un cambio di passo. Libri che hanno impresso un modo diverso di vedere le cose e hanno trasformato la rappresentazione del nostro Paese agli occhi di sé stesso e del mondo."
Molto italiano, niente da dire. La mania delle classifiche, la gioia di confronti assurdi e filologicamente scorretti, e l'imprimatur di qualche professorone che certifica il tutto e tanto ci basta. In un paese ricco di attestati ma povero di cultura è normale che ci si accontenti della parola di un detentore di cattedra. Le scelte sconcertanti sono molte. La prima è la più ovvia: pretendere di riassumere in una volgare classifica umori e correnti di un secolo e mezzo è comico prima ancora che allucinante. Poi, una volta assorbito il colpo, ci si può dilettare nella lettura della lista: spicca Don Camillo insieme a Montale e Moravia; Primo Levi insieme a Collodi, ma soprattutto risalta un nome, quello di Roberto Saviano. Sì, lui. Inserito a chiusura di lista con il suo Gomorra. Siamo oltre lo scandalo, siamo oltre il pubblico affronto, siamo nel territorio del comico involontario. Come lettore, come italiano, sono offeso: questa accozzaglia, in cui si sporcano nomi di altissima levatura accomunandoli a chiunque, è rappresentativa di un bel niente. E' un esercizio, sporco e pericoloso. E' come maneggiare una pistola carica scambiandola per un giocattolo. Per questo nobile consesso di cattedratici non esistono gli anni sessanta e settanta, cancellati. Landolfi, Manganelli, Morante non esistono. Campana, Marino Moretti, Gozzano sono allegramente rimossi. Il nome della rosa scalza i Sillabari di Parise. Da una congrega che, come da introduzione, si accredita di una qualche scientificità, non è accettabile sentirsi ripetere la solfa del gusto: ci vuole l'onere della prova. Di qualche stupida prova, perché a far scadere la letteratura italiana al rango di bagarre sono questi signori, non i lettori. C'è Roberto Saviano, che nemmeno penso sia uno scrittore. E non c'è Quasimodo, tanto per dirne uno. Bruciamo le classifiche. Leggiamo, leggiamo e basta e al diavolo tutto il resto.
rileggendo i Quaderni di Cioran
giovedì 5 maggio 2011
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Ariberto Terragni
Sembra quasi che il sentimento prevalente dell'opera di Cioran sia l'indignazione. Indistinta, verso tutto. Ogni cosa, in fondo, offende. E' un pensiero violento e ossessivo il suo, un pensiero ultimo. In pochi si sono addentrati così a fondo nella dinamica negativa del senso, o per meglio dire nella contemplazione della sua assenza. Forse solo Caraco si è addentrato così tanto in un territorio così impervio, ma vista la scarsa diffusione della sua opera in Italia è quasi impossibile tentare un confronto. Cioran invece c'è, per fortuna, una delle tante medaglie da appuntare al petto dell'Adelphi. Non sono qui a tentare di classificare la sua opera, né tantomento di improvvisarne l'esegesi: sono operazioni che non servirebbero a nulla. Cioran va essenzialmente letto, e in silenzio: va affrontato a muso duro, per scoprire che la radicalità della sua prosa in realtà sta parlando a noi e solo a noi, a noi presi uno per uno, come una secchiata d'acqua gelida in faccia. Asistematico, abbandonato da Dio ma alla ricerca di Dio; tradito dagli uomini; solo, molto solo. La solitudine di Cioran meriterebbe un capitolo a parte nella trattazione della sua bio bibliografia. Ieri sera, leggendo i Quaderni, ho provato un moto di improvvisa compassione, nel senso proprio di 'unione nella sofferenza': credo sia in fondo il senso ultimo della sua ricognizione. Un'avventura atipica, frastagliata, dove gli incontri e gli incubi si mescolano, i grandi sistemi collassano, e diventano miseria; ma anche tentare di liquidare questo intellettuale rumeno trapiantato a Parigi come un demolitore sarebbe fare un torto alla ragione. Nella sua unicità si incontra un molteplice fatale, capace di improvvise impennate della coscienza dalla polvere del tempo al pulviscolo stellare, in un percorso accidentato, contraddittorio, segnato da un odio amore per la vita che lascia esterrefatti. L'incontro con Cioran può, in effetti, cambiare una vita. In lui non ci sono più né vittorie né sconfitte, siamo al trapasso in un'altra concezione: dimentichiamoci dei luoghi comuni, mettiamoci in ascolto.
Guerre politiche, di Goffredo Parise
martedì 3 maggio 2011
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Ariberto Terragni
Nuovo articolo per Reader's Bench:
il mostro muore
lunedì 2 maggio 2011
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Ariberto Terragni
Non si può sfuggire dalla morte di Osama Bin Laden. Non si può soprattutto per chi, come me, ha vissuto gli anni della propria giovinezza sotto l'ombra oscura e decisamente ingombrante di questo ricco saudita, salito alla lugubre ribalta mediatica dopo la strage dell'11 settembre. Era diventato una specie di anticristo, di mostro biblico, di causa ultima di tutti i mali. Ora è morto, dopo anni di caccia serrata, di guerre e di sangue. E' morto come logica conseguenza dell'odio e della rabbia invasata di cui si era fatto veicolo e fiero portabandiera: ma appunto, è morto solo il veicolo. Rimane tutto il resto. Spero umanamente che i familiari delle vittime degli attentati (e delle migliaia di soldati morti nelle strane guerre di questi ultimi dieci anni) possano trovare un po' di conforto, ma vedere tutti quei ragazzi americani darsi di gomito e di bottiglia per festeggiare l'uccisione di Satana mi ha fatto un certo effetto. Da un lato c'è poco da brindare, visto che il patrimonio di terrore e aberrazione accumulato da Bin Laden è pressoché intatto, dall'altro non è morto Satana, ma al massimo un suo rappresentante. Uno dei primi forse, ma un rappresentante. Tutto il substrato a cui questa maschera chiamata Osama aveva dato voce continua a vivere, eleggerà altri capi bastone, di sicuro non si lascerà scoraggiare dalla morte del suo capo. Quanto a noi occidentali, il discorso si fa molto complicato: in dieci anni non siamo riusciti a fare il punto su noi stessi, né tantomeno a capire in quale direzione siamo diretti, anzi, semmai siamo stati capaci di peggiorare la situazione, andando a disperderci in tante campagne militari di dubbia funzione e di incerto esito, in crisi economiche addebitabili all'unico dio che in fondo conosciamo (l'avidità) e ad un malinteso senso della sicurezza. I caroselli medievali che ci arrivano dall'America non sono molto incoraggianti: sanno di esorcismo, di rito di massa: siamo spauriti e in balia di noi stessi quanto e più di prima. Lo stravolgimento socio politico nel Mediterraneo che non siamo stati capaci né di prevedere né di capire ne è la prova più lampante. In attesa del prossimo feroce sanguinario che aizzerà i mai sopiti bollori integralisti contro l'Occidente.