inni

La polemica sull'inno nazionale, diciamolo pure, è la solita solfa leghista. Il Va' pensiero, come del resto ha spiegato benissimo il maestro Riccardo Muti, è un inno perdente, che fa parte del Nabucco di Verdi, ed è un pianto collettivo del popolo ebraico in esilio. Punto. Rivendicazioni di altro genere da parte dell'inesistente popolo verde, sono solo folklore, paragonabile a delle celebrazioni organizzate dagli abitanti di Atlantide. La questione assume tuttavia rilevanza istituzionale quando è un presidente di Regione a inventarsi la sostituzione dell'inno nazionale: qui siamo in un territorio che non è più solo delle stranezze e delle invenzioni più o meno innocue con cui ognuno cerca di rendersi la vita più sopportabile. Siamo in preda ad un delirio di onnipotenza. Un delirio tanto più scomposto quanto più irresponsabile, vissuto così, alla leggera, senza un vero calcolo delle conseguenze. Quanto poi alle rivendicazioni sull'uso dei dialetti, va da sé che ognuno è libero di fare quello che vuole, a patto di non imporre a mezzo mediatico e politico il proprio vernacolo su quello degli altri, e a patto di non scansare con un colpo d'anca quella che è la lingua del nostro paese: prima per letteratura, storia, diffusione all'estero; una lingua che andrebbe difesa proprio perché patrimonio di tutti, collante unitario al di fuori di qualunque retorica. E poi, quante storie: Dante era fiorentino, e quindi secondo la stramba geografia leghista Padano, Mameli e Novaro, autori dell'Inno, genovesi. Potremmo dire che si tratta di una polemica tra contradaioli, se non fosse che, ripetiamo ancora una volta, la Padania non esiste. E con una certa stizza potremmo aggiungere che Mameli, un ventenne d'altri tempi, fu in grado di morire per qualcosa, al contrario di tanti bolsi papaveri di oggi, nemmeno capaci di incassare con dignità lo stipendio di Roma.

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