Si scrive per la ricerca di senso. Per mettere ordine, per evitare di commettere una sciocchezza dettata dalla mancanza di giustizia. Scrive sul serio chi di solito ha molto controllo di sé. Poi la scrittura è un'avventura a sé stante, di difficile comprensione per chi non è dentro e non la vive sulla propria pelle. Potrei dire la stessa cosa di un pittore alle prese con una tela, o un musicista piegato su una partitura. Scrivere diventa una questione di orgoglio personale a fronte di una mentalità corrente che ci umilia senza temere adeguate risposte. Del resto, non lo si fa per soldi, e non lo si fa per vivere; per morire meglio semmai. Pubblicare è quasi impossibile, guadagnare non esiste. Ci si mescola alla folla e ci si adatta. Finché c'è un mecenate bene, altrimenti ci si adegua a fare altro, ma sempre con in testa un progetto narrativo, perché le trame si intersecano in tempo reale davanti agli occhi, e i personaggi non vengono creati, ma già ci sono, e chiedono solo una voce. E' inutile nascondersi dietro falsa professione di banalità: si deve prendere carico della propria fetta di responsabilità senza pensarci troppo, perché più ci pensi più capisci che non ha senso e che meglio sarebbe fare altro, impazzire per altro. Meglio sarebbe bere, fumare, drogarsi, andare a puttane, perché ci sarebbe più comprensione, e perlomeno ci sarebbero centri di recupero adatti, cure, farmaci, pietà in abbondanza. C'è un bellissimo libricino di Peter Handke, Pomeriggio di uno scrittore, che spiega bene gli stati d'animo di chi si riversa in una dimensione per poi trovarsi estraneo rispetto a quella in cui vive il suo corpo. La conclusione a cui giunge lo scrittore austriaco è piuttosto funesta: "Mi sono isolato e mi sono messo in disparte per scrivere, ho confessato la mia sconfitta come individuo sociale; mi sono escluso dagli altri per tutta la vita. Anche se starò insieme a loro fino alla fine, approvato e benvoluto, iniziato ai loro segreti - non ne farò mai parte". Il fondo di questa osservazione è indubitabilmente corretto nelle premesse, ma discutibile negli esiti: se mi escludo come individuo sociale, gli altri non mi approveranno né mi accetteranno, ma al contrario proveranno per me odio e rancore, perché non mi capiranno e riterranno anzi che non ci sia niente da capire in me. Quindi il ragionamento di Handke è spaventoso, forse troppo, ma paradossalmente non abbastanza. C'è una linea di confine che una volta superata non prevede biglietti di ritorno, e al tempo stesso una consapevolezza interiore che si dilata, supera le nostre stesse capacità e ci inghiotte, usandoci.
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