Hitler si propone come romanzo. In realtà è una narrazione storica: c'è una sottile ma decisiva differenza. I fatti non sono inventati, sono realmente accaduti. Tutti: nella loro dimensione da incubo, nei loro connotati agghiaccianti. Adolf Hitler. Il poveraccio alla Mannerheim di Vienna, sorta di dormitorio per barboni e vagabondi, destinato a scatenare uno dei bagni di sangue più spaventosi della storia dell'umanità passata e futura. E' lui il protagonista di questa storia tragica, paradigmatica, per molti aspetti indicibile. Giuseppe Genna ci parla di lui basandosi su una documentazione rigorosa: nessuna concessione a gossip e a divagazioni non comprovate. Nessuna orgia, nessuna perversione sessuale, nessuna trama esoterica. Non ce n'è bisogno. E' tutto già abbastanza agghiacciante così. Ne viene fuori un ritratto imponente, enigmatico: perché? Perché tutta quella gente l'ha seguito al fondo dell'inferno? Hitler non ha inventato niente. Ha colto un disagio che era nell'aria, lo ha servito con il giusto cerimoniale, lo ha codificato in un alfabeto dell'odio tanto perverso quanto efficace. Ha fatto presa, ha acquisito credibilità. Ha avuto colpi di fortuna, ma vanta all'attivo anche degli inquietanti e diabolici colpi di genio. Sì, lo so, ho detto di genio: genio del male, ma è proprio così. Intuizioni politiche, oratorie, anche militari: come l'organizzazione del riarmo tedesco, l'invasione di Francia e Belgio, con campagne rapide e spietate. La creazione di una propaganda popolare di grande impatto. L'istituzione di una élite militare feroce e ciecamente ubbidiente. Si è sconfitto da solo, pagando dazio a una megalomania delirante e folle, ma trascinando con sé un intero popolo, milioni di militari, di civili. E 6 milioni di ebrei. 6 milioni. Un'enormità incalcolabile. Più oppositori politici, omosessuali, etnie nomadi. Una colpa storica e umana senza precedenti. Hitler di Giuseppe Genna è una lettura sconvolgente, che vale la pena di sostenere. A cui però muovo un'obiezione. L'autore sostiene ogni due pagine che abbiamo a che fare con una nullità d'uomo, con l'azzeramento del carattere umano, e quindi con uno stupido. No, non è così. Con un folle, con un perverso, ma non con uno stupido. Troppo comodo liquidare la barbarie nazista come il deliro di potenza di un singolo pazzo. Abbiamo avuto a che fare con un'intelligenza spietatamente lucida, coadiuvata da un numero impressionante di persone, di collaboratori, di sostenitori. Che non erano mostri. Erano padri e madri di famiglia, lavoratori, giovani, meno giovani: persone normali, normalmente inserite nella società del loro tempo. Hitler era un mostro, loro no. Hitler li ha dominati perché queste persone si sono fatte dominare. Potevano internarlo ai tempi della Mannerheim: lo hanno eletto a loro guida militare, politica e spirituale. Perché? Il romanzo, pur nella sua esaustiva completezza, non affronta l'argomento, che forse è il nodo decisivo, la chiave interpretativa ultima per provare a capire (se mai sia concesso di farlo) la distorsione somma del fenomeno nazionalsocialista. Forse la risposta è implicita, e si ritrova nelle pieghe mostruose di alcuni personaggi insospettabili: Roosevelt, che all'inizio la pensavano in modo diverso sul nazismo. Churchill che in seguito non spenderà una parola di pietà nei confronti dei 200.000 morti civili di Dresda. Roosevelt che non stringerà la mano di Jesse Owens alle Olimpiadi del 1936, perché fortemente segregazionista. Hitler quella mano la strinse invece. A tutti noi è stata raccontata una storia diversa. E non sono gli unici insospettabili su chi si addensano ombre: su tutti Henry Ford, finanziatore della prima ora e grande antisemita. Genna ha fatto un gran lavoro di scavo e di interpretazione: ha unito l'analiticità dello storico alla capacità interpretativa dello scrittore. Gli si può perdonare anche i numerosi tentativi di poetizzazione. Inopportuni, sgangherati, che nulla aggiungono alla narrazione e che servono solo ad infastidire.
ok il prezzo è giusto
sabato 26 giugno 2010
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Ariberto Terragni
Qualche tempo fa gridavo allo scandalo di fronte alla ventilata ipotesi che la Grecia, per rimettere in sesto le casse, potesse vendere qualcuna delle sue seimila isole. Ipotesi lanciata dagli amici tedeschi se ricordo bene. Apprendo dal blog di Beppe Grillo che la situazione sta evolvendo esattamente in questa direzione. In nome delle leggi del mercato una nazione, uno stato indipendente venderà la propria sovranità nazionale sul territorio, metterà all'asta un pezzo di sé, come un povero disgraziato che decida di vendersi gli organi alla borsa clandestina. Ma qui di clandestino non c'è niente. E' tutto perfettamente legale, e se non lo è basterà compitare qualche leggina che lo permetta, e il gioco sarà fatto. La spoliazione della dignità raggiungerà in breve vette mai immaginate prima. Un tempo occorrevano guerre e sangue per strappare porzioni di patria ad uno stato avverso: oggi possiamo dire di aver fatto passi in avanti rispetto a qualche decennio fa. Basta entrare nella centrifuga, nel tritacarne, nella turbina di questo capitalismo malato per ritrovarsi in mutande, senza più nemmeno la possibilità di ribellarsi ad una logica che da banditesca e predatoria è diventata legge. Legge. Non mi stupisce che anche l'Italia con tutta probabilità stia valutando opzioni simili. In mancanza di isole si ricorrerà al patrimonio culturale, come paventa il sito. Ne sono convinto anche io: non ci vuole un genio per capirlo. La strada della privatizzazione indiscriminata è aperta, spalancata, e niente potrà fermarla. Un sussulto di dignità forse. Ma in un paese con questa classe dirigente la dignità è un lusso che non possiamo permetterci: verrebbe fatta passare come sentimentalismo, come retaggio anacronistico.
stalle
venerdì 25 giugno 2010
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Ariberto Terragni
Va bene, un ultimo post sul calcio e poi vedrò di lasciar perdere. A commentare il disastro sportivo e politico sportivo ci pensano già in tanti e non vale la pena di insistere. Una riflessione, però: vista l'importanza che il movimento calcistico riveste in seno alla nazione, com'è possibile esprimere tanta miseria a livello di campionato del mondo? Parlano tutti di calcio, ci sono tre quotidiani sportivi dedicati per il novanta percento a questo sport; la pratica pallonara coinvolge tutti, grandi e piccini, ricchi e poveri, belli e brutti. Ci sono decine e decine di trasmissioni calcistiche, con opinionisti, ex calciatori bolliti, arbitri trombati e veline. Prolificano le scuole calcio, quasi tutti i bambini d'Italia prendono a calci un pallone. Girano soldi, tantissimi. Ma il movimento fa acqua da tutte le parti. Se si eccettua la bella e fortunata vittoria di quattro anni fa, sono decenni che l'Italia colleziona magre figure, figuracce, alternate a tremende botte di deretano. Per il resto, una storia di differenza reti, di classifiche avulse, di pali, di traverse, di scandali. Non c'è organizzazione, ma un solo e unico credo: lo stellone. La magica cometa che ci protegge e che tutti invochiamo quando siamo ad un passo dal baratro. Non c'è scuola: non c'è continuità, non c'è progettualità. Il calcio, come non mai, è paradigma perfetto dell'Italia. Sempre alla ricerca del terno al lotto, del miracolo, del colpo risolutivo. Un paese capace di prodursi in imprevedibili impennate ma più spesso avvezzo a capitolare rovinosamente, senza attenuanti. Presuntuoso da una parte, abulico dall'altra. Ci siamo votati al Dio Pallone (o a Eupalla come diceva Gianni Brera) ma anche qui a modo nostro: in modo incasinato, inconcludente, maneggione. C'è un bacino di talenti in erba spropositato, ma nessuno in grado di far crescere un campione. E allora, smettiamola di prenderci in giro. Basta santini, stelloni, cabale, aglio. Basta con quella parte di noi stessi che ci fa ridere dietro da mezzo mondo.
calci
lunedì 21 giugno 2010
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Ariberto Terragni
Sperando che nell'euforia Mondiale il governo non appronti qualche colpo gobbo approfittando della distrazione generale, cosa peraltro già accaduta in passato, una semplice osservazione: vedere le grandi in difficoltà dà un sottile piacere. E non perché tifi Padania o altre pisquanate simili. La nazionale di calcio è una delle poche compagini che, nel recente passato, abbia dato un qualche lustro alla nazione, beninteso. Al netto di ciò, torno al punto di partenza, ossia: l'oggettivo impaccio che le piccole nazionali stanno dando ai nobili blasoni europei. Francia, Germania, Inghilterra e altre patiscono più una certa supponenza che la carenza dello stato psicofisico. O forse, relativizzando, si può dire che la mancanza di equilibri e di risultati sia stata determinata dalla sistematica sottovalutazione degli avversari. Tutte ipotesi senza controprova, e va bene. Ma mettiamola così: nel mondo globalizzato, in cui tutti sono dappertutto e in cui le informazioni sono disponibili in tempo reale in ogni cantone non era logico prevedere un adeguamento tecnico tattico anche delle nazionali così dette minori? Parlavo di sottile piacere poc'anzi, e il motivo è presto detto: vedere i patinati e strapagati professionisti del pallone annaspare di fronte a gente che in qualche caso è addirittura costretta a chiedere le ferie per partecipare al Mondiale è oggettivamente bello. Non è bel calcio, ma è bel carattere. Manca lo spettacolo, ma si vedono motivazioni che per noi, ormai, sono del tutto perdute: si vede gente che sa di avere per le mani l'occasione della vita e che vuole viverla al meglio, fino all'ultimo respiro; sono giocatori, quelli delle così dette minori, che sanno di dover difendere il prestigio nazionale, che hanno addirittura, udite udite, delle motivazioni quasi patriottiche nel voler contendere il pallone agli avversari. Perché si sa, e lo sappiamo anche noi, il pallone non è mai solo un pallone, ma una metafora. Qualcuno direbbe, un po' troppo solennemente, della vita. Non arrivo a tanto, ma è vero che in quella sfera c'è dentro un sunto niente male delle nostre passioni: coraggio, vigliaccheria, generosità, avidità, onestà, furberia. E in queste cose il blasone serve, ma serve anche la fame, come in ogni favola che si rispetti.
skulls and bones
venerdì 18 giugno 2010
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Ariberto Terragni
Non è una notizia importante e nemmeno tanto curiosa. In Germania non ho capito bene chi ha proposto un calendario di pin up passate ai raggi X. Niente glutei, niente tette. Uno scheletro in posa ridicolmente ammiccante, a gambe incrociate, spalancate, a busto proteso, a schiena inarcata. Con le zeppe ai piedi oltretutto. Nessuna personalità, nessun colore, nessuna espressione vera o finta. Solo un'aura appena percepibile che contorna le ossa, da cui si intuiscono i tenui profili della carne. E' un'operazione commerciale un po' macabra, volutamente shoccante. La bellezza da velina sostituita dalla sua spoliazione, o forse sarebbe meglio dire dalla sua consunzione: il mito d'oggi, quello della bellezza patinata, prosciugato da ogni apparenza e restituito alla sua vera natura. Un mare di nulla. Non credo che dietro questa trovata ci sia chissà quale riflessione sul tempo che passa, sul memento mori o sul memento te pulverem esse. Ma alla fine tutto va a parare in quella direzione. E poco importa se per arrivare alla conclusione che lo sfruttamento della bellezza non è altro che un mercato del niente dobbiamo passare attraverso le sfumature del macabro e del grottesco: sempre lì si arriva. Al San Gerolamo di Caravaggio, che scrive con il teschio sul tavolo, piuttosto che ai dubbi del povero Amleto. Attraverso quei corpi vediamo noi stessi, la nostra superficie continuamente violata dalla pubblicità, che impone un modello univoco che alla fine sottende sempre quelle ossa, quelle cartilagini, quell'ammasso liquido che ci condanna ad una permanenza limitata, imperfetta e tuttavia da accettare. Con o senza lifting.
un altro nord
mercoledì 16 giugno 2010
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Ariberto Terragni
Se proviamo a pensarci bene, niente come il fenomeno leghista odora più di Italia. Difficilmente da altre parti avrebbe potuto sorgere un movimento così contraddittorio, così bravo a barcamenarsi tra mille, evidenti controsensi, non ultimo quello di odiare Roma salvo poi giurare fedeltà alla patria (intera) in quanto ministri e parlamentari. Un colpo al cerchio, il doppiopetto istituzionale, e uno alla botte, gli scalmanati xenofobi che allignano nelle frange più estreme del movimento. Un Fratelli d'Italia a denti stretti e una sparata sui fucili nel granaio, tutto così, alla rinfusa. E poi diciamolo pure: si può veramente decidere di avere fede in un progetto che non trova niente di meglio da fare che rifugiarsi nei dialetti e nelle piccole patrie? Che come massima ambizione ha quella di alzare una mura e chi s'è visto s'è visto? Le piccole patrie non nascono mai sane. Puzzano sempre di razzismo, di chiusura preventiva, di leggi speciali, di divisioni, di razza eletta e razza inferiore. Insomma, sono un concentrato di anacronismo, e sono oltretutto la negazione di quel principio su cui l'humus culturale del nord è veramente fondato: la fusione di diverse matrici. Quella celtica e quella latina, in primis. Ma anche quella francese del Piemonte e della Valle d'Aosta, quella slava del Friuli, quella ladina e germanofona del Trentino Alto Adige. La stessa Padania, che non esiste, è innervata di queste correnti diverse, che per mille cause storiche, politiche sociali o anche solo casuali si sono trovate a dover dividere la stessa porzione di territorio. Sarebbe bello sentire ogni tanto qualcuno che ricorda l'esistenza anche di un nord di questo tipo: un nord che è abbastanza sicuro di sé da non avere paura del resto del mondo, né tantomeno di quell'Unità alla cui formazione ha largamente partecipato.
inni
martedì 15 giugno 2010
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Ariberto Terragni
La polemica sull'inno nazionale, diciamolo pure, è la solita solfa leghista. Il Va' pensiero, come del resto ha spiegato benissimo il maestro Riccardo Muti, è un inno perdente, che fa parte del Nabucco di Verdi, ed è un pianto collettivo del popolo ebraico in esilio. Punto. Rivendicazioni di altro genere da parte dell'inesistente popolo verde, sono solo folklore, paragonabile a delle celebrazioni organizzate dagli abitanti di Atlantide. La questione assume tuttavia rilevanza istituzionale quando è un presidente di Regione a inventarsi la sostituzione dell'inno nazionale: qui siamo in un territorio che non è più solo delle stranezze e delle invenzioni più o meno innocue con cui ognuno cerca di rendersi la vita più sopportabile. Siamo in preda ad un delirio di onnipotenza. Un delirio tanto più scomposto quanto più irresponsabile, vissuto così, alla leggera, senza un vero calcolo delle conseguenze. Quanto poi alle rivendicazioni sull'uso dei dialetti, va da sé che ognuno è libero di fare quello che vuole, a patto di non imporre a mezzo mediatico e politico il proprio vernacolo su quello degli altri, e a patto di non scansare con un colpo d'anca quella che è la lingua del nostro paese: prima per letteratura, storia, diffusione all'estero; una lingua che andrebbe difesa proprio perché patrimonio di tutti, collante unitario al di fuori di qualunque retorica. E poi, quante storie: Dante era fiorentino, e quindi secondo la stramba geografia leghista Padano, Mameli e Novaro, autori dell'Inno, genovesi. Potremmo dire che si tratta di una polemica tra contradaioli, se non fosse che, ripetiamo ancora una volta, la Padania non esiste. E con una certa stizza potremmo aggiungere che Mameli, un ventenne d'altri tempi, fu in grado di morire per qualcosa, al contrario di tanti bolsi papaveri di oggi, nemmeno capaci di incassare con dignità lo stipendio di Roma.
L'onda di Dennis Gansel
giovedì 10 giugno 2010
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Ariberto Terragni
L'onda è un film tedesco del 2008, diretto da Dennis Gansel. E' la storia di una classe di liceo in cui, su suggerimento di un professore anticonformista, viene proposta una settimana di approfondimento incentrata sul tema dell'autarchia. Dopo lo scetticismo iniziale dei ragazzi, l'esperimento prende piede: si istituisce un vero e proprio gruppo compatto, esclusivo, che manifesta idee autonome e si compiace della propria distinzione dagli altri. Segue la nascita di un vero e proprio movimento, che si organizza con un simbolo, un saluto, delle divise. Ci saranno conseguenze, e saranno proprio i più deboli a pagare quelle maggiori. Un film intelligente, complesso, che mette in gioco dinamiche profonde e non rinuncia ad andare fino in fondo, senza buonismi di circostanza. E' un'opera tesa, energica, che giustamente ha fatto discutere per il merito degli argomenti trattati. Si fa forse qua e là un po' di confusione tra fascismo e nazismo (il primo era un movimento che ambiva alla totalità della popolazione, il secondo a creare un'élite) ma il senso della storia è chiaro e reso in modo coerente: mai dare per scontate le ragioni che portano alla nascita di un movimento intollerante e oltranzista. L'onda è uno dei migliori film degli ultimi cinque anni, uno di quelli che meglio è riuscito a mettere a fuoco una sottotraccia spesso dimenticata o messa tra parentesi negli ultimi tempi: il bisogno di aggregazione per fare forza e raggiungere un obiettivo comune. Dove finisce il sanissimo spirito di gruppo e dove inizia il movimento corporativo? Questioni che restano all'intelligenza dello spettatore. Merito de L'onda è quello di averle sollevate, facendo riflettere senza retorica, con un'opera costata pochissimo, ma in grado di rimanere a lungo nelle coscienze. Ottimo il comparto degli attori, su cui spicca Jurgen Vogel, il professore.
in risposta ad un amico
mercoledì 9 giugno 2010
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Ariberto Terragni
Si scrive per la ricerca di senso. Per mettere ordine, per evitare di commettere una sciocchezza dettata dalla mancanza di giustizia. Scrive sul serio chi di solito ha molto controllo di sé. Poi la scrittura è un'avventura a sé stante, di difficile comprensione per chi non è dentro e non la vive sulla propria pelle. Potrei dire la stessa cosa di un pittore alle prese con una tela, o un musicista piegato su una partitura. Scrivere diventa una questione di orgoglio personale a fronte di una mentalità corrente che ci umilia senza temere adeguate risposte. Del resto, non lo si fa per soldi, e non lo si fa per vivere; per morire meglio semmai. Pubblicare è quasi impossibile, guadagnare non esiste. Ci si mescola alla folla e ci si adatta. Finché c'è un mecenate bene, altrimenti ci si adegua a fare altro, ma sempre con in testa un progetto narrativo, perché le trame si intersecano in tempo reale davanti agli occhi, e i personaggi non vengono creati, ma già ci sono, e chiedono solo una voce. E' inutile nascondersi dietro falsa professione di banalità: si deve prendere carico della propria fetta di responsabilità senza pensarci troppo, perché più ci pensi più capisci che non ha senso e che meglio sarebbe fare altro, impazzire per altro. Meglio sarebbe bere, fumare, drogarsi, andare a puttane, perché ci sarebbe più comprensione, e perlomeno ci sarebbero centri di recupero adatti, cure, farmaci, pietà in abbondanza. C'è un bellissimo libricino di Peter Handke, Pomeriggio di uno scrittore, che spiega bene gli stati d'animo di chi si riversa in una dimensione per poi trovarsi estraneo rispetto a quella in cui vive il suo corpo. La conclusione a cui giunge lo scrittore austriaco è piuttosto funesta: "Mi sono isolato e mi sono messo in disparte per scrivere, ho confessato la mia sconfitta come individuo sociale; mi sono escluso dagli altri per tutta la vita. Anche se starò insieme a loro fino alla fine, approvato e benvoluto, iniziato ai loro segreti - non ne farò mai parte". Il fondo di questa osservazione è indubitabilmente corretto nelle premesse, ma discutibile negli esiti: se mi escludo come individuo sociale, gli altri non mi approveranno né mi accetteranno, ma al contrario proveranno per me odio e rancore, perché non mi capiranno e riterranno anzi che non ci sia niente da capire in me. Quindi il ragionamento di Handke è spaventoso, forse troppo, ma paradossalmente non abbastanza. C'è una linea di confine che una volta superata non prevede biglietti di ritorno, e al tempo stesso una consapevolezza interiore che si dilata, supera le nostre stesse capacità e ci inghiotte, usandoci.
elogio dell'intellettuale
lunedì 7 giugno 2010
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Ariberto Terragni
Chi sono gli intellettuali italiani? Dove si rintanano? Chi li tiene sequestrati? Domande che sorgono così, spontanee, mentre la voragine si allarga e diventa difficile stabilire i nessi e le concause che hanno portato questo paese sul lastrico delle idee prima ancora che dei soldi e del malaffare. Se c'è una speranza che può essere legata al concetto di crisi è che le idee abbiano modo di rinnovarsi, di rompere con il passato e di aprire vie nuove. D'altra parte è la Storia che ci insegna come la continuità sia una chimera e come ogni singolo passo avanti, quando c'è stato, sia stato motivato da una crisi, da una rottura della continuità appunto. Ma non si sentono voci: non si sente una larga presa di posizione da parte di tutti coloro che dovrebbero contribuire a formare queste idee, che dovrebbero aiutarci a creare un'opinione, tanto privata quanto pubblica. Ecco perché gli intellettuali sono necessari. Senza scomodare professori e professoroni, giuristi e giuslavoristi, che per quanto mi riguarda possono rimanere nelle aule delle loro accademie visto che finora non sono serviti a niente; parlo di intellettuali militanti, in presa diretta, che siano disposti a rischiare e a proporre qualcosa che si discosti dalla retriva omologazione di regime in cui stiamo affondando. Il motivo di questa ricerca è tutto sommato semplice: abbiamo bisogno di concetti, di parole, di ragionamenti che la mentalità telecratica sta tentando con ogni mezzo di distruggere. Abbiamo bisogno di maggiore complessità, di maggiori capacità dialettiche e critiche se vogliamo imparare a discernere l'utile dal superfluo, le palle dalle cose che contano.
Rimini, 25 anni dopo
sabato 5 giugno 2010
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Ariberto Terragni
Con Tondelli ho sempre fatto a pugni. Non è uno degli scrittori che preferisco, non penso nemmeno che sia un grande scrittore. E' autore di quattro romanzi, sempre che Altri libertini possa essere considerato un romanzo, e molte prose di viaggio e di costume, più un libretto di difficile collocazione (Biglietti agli amici) e una pièce teatrale (Dinner party). Nessuno dei suoi romanzi mi ha mai convinto del tutto. La tensione giovanilistica e una certa sistematicità del volere lo scandalo non me lo hanno reso simpatico. E' un autore che scrive bene ma che si diverte troppo spesso a dimenticarselo, per approdare ad un non luogo della scrittura in cui la passione per il triviale diventa un vizio, e la stessa ricerca antropologica di modelli metropolitani e sottoproletari risulta tanto più esibita quanto meno credibile. La sua morte, tragica, inaccettabile, prematura, ha contribuito a renderlo un'icona contemporanea, e dall'altare non sarà più possibile toglierlo, un po' come Pasolini. Per sfortuna di entrambi dico io. C'è un però ovviamente, sennò non ne scriverei. Il però è rappresentato dal romanzo di Tondelli generalmente meno apprezzato: Rimini. E' stato accusato di essere un libro commerciale, un libro sceso a patti con il mercato, ma non è vero. Rimini è un tentativo di analisi della contemporaneità: la vera capitale morale delle estati anni ottanta analizzata attraverso un dispositivo a più voci. Personaggi densi e leggeri si sfiorano sullo sfondo della baracca romagnola, porto franco di sballi, scazzi, sesso, droga, generale fuga dal mondo. Il giornalista, lo scrittore in crisi, il suonatore di sax, la ragazza tedesca alla ricerca della sorella scapestrata: sono tutte voci di un'umanità alla ricerca di se stessa, disillusa ma al tempo stesso ingenua. I personaggi che si alternano sono tutti volti del loro autore: demiurgo più o meno funesto, presenza impalpabile e costante. Rimini resta un tentativo coraggioso. Incompiuto, ma coraggioso. A dispetto dei giudizi affrettati è secondo me la prova migliore di Tondelli, quella in cui si è comportato di più da scrittore vero, senza bisogno di mascheramenti giornalistici o liricheggianti, senza il filtro dell'autobiografia o della scrittura al riparo dell'ombrello generazionale. Se Altri libertini infatti (e in misura minore Pao Pao) pretendeva di essere una sorta di manifesto generazionale a base di droga e sesso, Rimini cancella ogni tentazione ecumenica e presenta le cose per quello che sono: frammentarie, insufficienti, del tutto casuali. I personaggi non sono più inscrivibili in un movimento, che poi sarebbe quello del '77, ma sono solo schegge impazzite, dominate dagli impulsi, dalla convenienza, in qualche caso anche dalla noia. E poi Rimini è un romanzo vero. Ne ha la struttura, ne ha anche l'ambizione. Il fatto che il tentativo sia riuscito a metà è solo un dettaglio: l'importante era superare il bozzetto di costume, cosa che Rimini fa. Romanzo di transizione, forse, romanzo mediano, che prepara il salto dalla narrativa minuta a quella di più ampio respiro. Resta il rimpianto di non aver potuto assistere a questo salto. L'ultima opera di Tondelli fu Camere separate, applaudito da molti, ma non sempre in buona fede: un testo povero, gravato dal peso della malattia e dalla consapevolezza di una fine imminente e prematura. Difficile giudicarlo sul piano letterario, operazione che invece è possibile fare con Rimini, un'opera appesantita dal tempo, ma ancora efficace, chiara, ottimo esempio di buon italiano contemporaneo.
poesie
giovedì 3 giugno 2010
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Ariberto Terragni
Oltre ogni umana sopportazione l'iniziativa di Telepadania di proporre i classici di Dante Alighieri e Giacomo Leopardi in una improbabile versione bergamasca. Iniziativa comica, inutile, supponente. Inutile perché abbiamo la fortuna di conoscere un idioma, l'italiano, che ci consente di comprendere la meraviglia dell'originale; comica e supponente per via di quel senso da strapaese che sottende all'uso leghista del dialetto. Il dialetto diventa una clava da spaccare sulla fronte al diverso, un valico con cui segnare il confine e con cui promuovere combriccole locali, che si inventano una fratellanza etnica che non esiste e che se esiste sconfina pericolosamente con atteggiamenti razzisti. Ci sarebbe dell'ottima letteratura dialettale, si potrebbero proporre degli speciali su quella. Tradurre i classici della lingua italiana in bergamasco è un'operazione nulla da un punto di vista filologico, e serve solo come provocazione, si potrebbe chiuderla così se non fosse che l'affronto è grossolano, truce, tanto più violento quanto più motivato da una sostanziale mancanza di sensibilità culturale. C'è un dato curioso però: gli amici leghisti, nella loro patria di fantasia, includono anche Toscana e Marche (!!!), per cui, sempre secondo le loro sbalestrate teorie, Dante e Leopardi sarebbero padani, al che mi chiedo: che bisogno c'è di tradurre la lingua dei conterranei? Ma sono tutte domande oziose ovviamente. E' come disquisire sull'idioma dell'Isola che non C'è, sulla lingua dell'El Dorado. Un po' di sogno a buon mercato non ha mai ucciso nessuno.
tanto, tantissimo alcool
martedì 1 giugno 2010
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Ariberto Terragni
I miei luoghi oscuri non è un romanzo. E' un'indagine, un'inchiesta privata in forma di romanzo. L'autore è anche protagonista della storia: è il figlio della vittima di un omicidio, Jean Ellroy, violentata e uccisa dopo una serata di baldoria. Non era una santa Jean. Non era quello che la gente credeva, o per meglio dire, lo era a metà; in settimana un'infermiera scrupolosa e una madre presente, nei week end una poco di buono o qualcosa di simile. L'omicidio si intreccia ad altre storie, restano sospese mille ipotesi, c'è la caccia al probabile assassino: un tizio magro e stempiato dalla carnagione olivastra. Alla fine il caso viene archiviato. Quarant'anni dopo, James Ellroy riprende le fila del discorso, con l'aiuto di un detective della omicidi in pensione. Un anno abbondante di indagini senza risultati: è passato troppo tempo, troppe cose sono cambiate e troppe persone sono morte. I ricordi si confondono, le acque si intorbidano. Ciò che colpisce di più nella scrittura paratattica e stringata di Ellroy è la continua ricerca di un alibi per la madre, vale a dire: perché Jean si comportava così? L'autore non può dare risposte obiettive, prima di tutto perché è il figlio, e in secondo luogo perché col tempo ha sviluppato nei confronti di Jean un attaccamento morboso. E' un libro incalzante, a tratti sfuggente. Prezioso per capire la mentalità ipocrita di un'America che va in chiesa la domenica mattina e a puttane il venerdì sera. Un luogo desolato, quasi sempre squallido, dove la povertà si è mascherata di dignità e dove il sentimento puritano middle class si è scisso in modo drammatico tra pubblico e privato. Le donne non si salvano. Muoiono, il più delle volte, ma solo in quanto anelli deboli di una catena di violenza di cui comunque fanno parte. Bevono, bevono tutti, bevono dalla mattina alla sera. I miei luoghi oscuri va preso come documento appassionato e incisivo, anche se alla fine approda al niente più assoluto. E anche se (e questa è a mio avviso la pecca più grossa) non ha il coraggio di farsi atto di accusa: l'autore solidarizza troppo con i protagonisti sordidi della sua storia, cambia idea troppe volte, si contraddice. Giustifica la madre fino all'ultimo rigo. Probabilmente la assolve. Il libro è un susseguirsi di nomi, fatti, luoghi che non portano a niente: sono tanti vicoli ciechi. Vale la pena di leggerlo per il senso di disperazione indifferente che emana. E poi c'è quell'assoluzione finale. Quell'indulgenza post mortem che non redime, ma che forse consola. E che condanna l'autore ad essere middle class come i parenti che disprezza tanto.