A me sembra che gli umanisti non si rendano conto che buona parte della letteratura è solo divertimento e svago, appunto come i centri commerciali e i reality. Ora, lo svago è sacrosanto, ma se lo può permettere solo chi ha tempo da perdere. Non un Newton, ad esempio, che andò una sola volta a teatro, e scappò prima della fine. Non un Darwin, che trovava Shakespeare «cosí insopportabilmente pesante da trarne disgusto». Non i molti premi Nobel o medaglie Fields, che ho sentito con le mie orecchie affermare di non avere interesse a leggere «storie inventate». E non un barbaro impegnato a creare un nuovo mondo, come appunto sono quelli citati da Baricco.
E poi, più generalmente, non c’è forse il rischio che chi si abitua a sentir raccontare storie, alla fine diventi facile preda dei contastorie? L’esperienza, purtroppo, sembrerebbe proprio suggerire di sí.
Piergiorgio Odifreddi, dal suo blog su Repubblica.it
Mi sembra che valga la pena di riportare questa gioiosa chiosa finale, prodotta con il consueto misto di derisione e faciloneria dalla penna del professor Odifreddi. Credo che questa constatazione sia del tutto gratuita, superficiale, recitata en passant e senza molti argomenti a suo sostegno (salvo la quasi comica aneddotica su Darwin e Newton), perciò non vale la pena di prendersela poi molto. Nella sua prosa elementare, il professore dimostra di non sospettare nemmeno che le conoscenze, di ogni matrice, possano essere correlate tra di loro attraverso una fitta rete di scambi, che rendono il discorso culturale una grande metafora dell'umanità; dimostra di non sapere nulla di letteratura e nemmeno di linguistica (che in senso stretto è un processo logico, non un reality o una fiction). D'altra parte nemmeno lui ha trovato una forma migliore per divulgare le sue idee: libri e librerie, parola scritta, linguistica, alfabeto. E pazienza se le sue storie sono suffragate dal rigore della scienza, mentre Shakespeare era un povero mentecatto che inventa fanfaluche. Quello che colpisce nelle parole di quest'uomo è la totale arroganza intellettuale, il piglio maligno e canzonatorio, la continua invasione di campo nei confronti di argomenti che non conosce e che pure si ostina a frequentare, con il furore sacro di chi è convinto di essere nel giusto. Un furore materialistico matematizzante che non lo rende poi molto diverso dagli integralisti che lui, nella sua copiosa produzione pubblicistica, avversa tanto. Nel suo sarcasmo a poco prezzo, nella sua inguaribile superficialità c'è qualcosa di molto peggio del furore gesuitico: c'è il disprezzo dell'altro. Traspare, nella prosa del professore, una totale assenza di dubbio che sulle prime mi fa quasi invidia, salvo poi dover ammettere con me stesso che quel dubbio, quell'incertezza primaria, è tutto ciò che ci distingue da un calcolatore o da una bestia, e per una ragione molto semplice: è la nostra grande salvezza laica. Non so francamente se il professore pensi davvero quello che scrive, ma a questo punto mi sembrerebbe grave in entrambi i casi; forse, in un altro paese, l'insulto rivolto a tutti coloro che nelle lettere e nell'espressione artistica credono avrebbe sollevato perlomeno delle obiezioni: qui non è stato così. Liquidare Shakespeare come un cialtrone non è esprimere un'opinione: è commettere una cattiva azione. La chiusa del post sopraccitato poi è un capolavoro: come se non sapessimo che nei roghi finivano anche e soprattutto libri di narrativa. Perché insegnavano a pensare, divulgavano idee e visioni del mondo non condivise, rompevano gli schemi, davano fastidio. L'"esperienza" di chi, caro professore? La sua? Ma se ha appena detto che non legge storie inventate? Ma qui mi fermo. Alla fine il fustigatore è infilzato dai suoi stessi articoli: scritti in qualche modo, con argomenti scadenti. Mi viene da lanciare un'ipotesi letteraria, con buona pace di questo signore: e se tutta 'sta faticaccia la stesse facendo per vendicarsi di un perfido professore di lettere delle medie? Sai che risate.
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