LA STANZA CHIUSA
Le ombre che vedo sono ombre del tuo corpo; il fruscio è la stoffa sulla tua pelle. I contorni del tuo viso non li noto, sfuggono, risucchiati da una veglia troppo breve. Sono in silenzio, e non sono più i miei sensi a dirmi dove mi trovo. Mi osservo, dall’alto, piccola macchia di carne sdraiata in un letto, ormai inerme. L’alone di luce che mi circonda è bianco, anzi, azzurro, una pallida area luminosa che viene dai lampioni fuori, sulla strada. E’ una serata di pioggia. Le auto sfrecciano fuori dai vetri, lasciando dietro di sé quell’inconfondibile brusio delle gomme a contatto con l’acqua.
Di me ho un ricordo tenue, che nemmeno posso dire se sia vero o falso. Sono spezzoni, frammenti. Lei ritorna spesso, in molti fotogrammi, ma sono immagini sfocate, in ordine sparso, senza una cronologia, senza un passato né un presente. Io e lei ad un caffè, a Parigi, io e lei a Milano, dove questa volta? Ad una mostra, forse. Poi Roma, una delle ultime tappe, ma è a Parigi che ci siamo conosciuti. Lei non era come tutte le altre, aveva movenze diverse, aveva un carattere che sfuggiva come sabbia dalle dita, impossibile da trattenere, da sondare. Chi sei ora? Vedo la tua ombra, è tutto quello che mi resta. Siamo noi due e poi la fine del mondo. Noi due, qui dentro. Un motel, ecco cosa, forse. Questi posti si assomigliano tutti, hanno quella cortesia felpata e preconfezionata che si trova ovunque. Siamo sempre venuti qui, sulla statale. Noi due, ancora una volta, io e te, in questo abbraccio che sembra non voler finire.
Il primo viaggio insieme è stato otto mesi fa, sembrava niente, una ragazzata, due persone ormai adulte che decidono di rompere gli schemi, per una volta nella vita. Siamo andati, senza temere le conseguenze, quelle non ci appartengono, non sono parte di noi, non hanno mai accompagnato la nostra storia. Anche tu mi dicevi ogni volta che la vita è un attimo, che non si può calcolare tutto, che tu nemmeno avevi intenzione di farlo. Mi ricordo anche dove, eravamo dalle parti di via Vittorio Veneto, dove lavori, e io ero venuto a prenderti per pranzare insieme, una di quelle sorprese che tu tanto amavi e che a me piaceva farti. Stavamo parlando delle conseguenze, appunto. Io ti ho detto qualcosa come: “Non si può prevedere tutto.” E tu mi hai risposto, sistemandoti la ciocca che puntualmente ti cadeva morbida sulla fronte: “Non voglio calcolare tutto, non ci credo ai calcoli, io.” Il tuo ritratto sta in queste parole, nella loro elegante fatuità, ma anche in quella sinuosa levità che emana il tuo corpo, così flessuoso, così forte.
Tutti e due avevamo un’altra vita. Tu donna in carriera, io padre di famiglia. Tu lo sapevi, ma sei stata al gioco, perché noi due esistiamo in fondo solo nella dimensione del gioco: corpi che giocano, che si fondono, che diventano una cosa sola per lo spazio di un soffio, e che poi vengono gettati all’opposto, in due inferni troppo distanti per poter entrare in contatto. Ora però è questo buio, e le parole che arrivano rare alla bocca, come gocce spremute da una pianta ormai secca: parole vuote, che non bastano a descrivere ciò che è stato, il fondo opaco dei sensi che abbiamo unito e poi rinnegato, tutto nello spazio di pochi mesi che ci hanno visto vivi come mai ci era accaduto. Ti fermi a pochi centimetri da me: mi fissi, con un’occhiata che mi gela, che mi fa sentire solo per la prima volta dopo tanto tempo. Lo so: avrei dovuto comportarmi in un altro modo, ma sono un vigliacco tesoro, possibile che non lo avevi capito? Ma no, l’ho capito anche io da poco tempo, dopo anni in cui mi sono creduto invincibile e perfetto, una macchina da guerra che collezionava successi ovunque: un esempio per tutti gli altri. Quanto ci si sbaglia quando si dà tutto per scontato. Credo che questo sarà il mio ultimo pensiero; forse non dovrei già più essere qui, ma qualche cosa mi trattiene, dietro questi vetri appannati che sono i miei occhi, a fissarti, mentre sistemi le tue cose, chiudi la valigetta e te ne vai. Con le ultime parole che ho avuto in gola ti ho detto che tra noi era finita. Tu lo sapevi, avevi già capito tutto in anticipo. Hai accettato anche questo incontro clandestino, eri bella come non mai. Mi hai ascoltato, inespressiva, hai sorbito le mie ultime patetiche scuse: la storia del padre e marito responsabile e del “ti meriti di meglio”. Meglio o peggio ero io ciò che volevi. Sparare il colpo a quel punto è stato il meno, vedermi cadere sul letto, con gli occhi sbarrati è stata la logica conseguenza. L’unica possibile, mia bella carnefice.
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