Apocalisse nel deserto, di Werner Herzog, è lo straniato cammino di un regista nell'orrore dell'immagine; è un documentario ma anche un'opera visiva: sorta di personale discesa agli inferi di un cineasta che laicamente affronta il silenzio di Dio in una processione senza santi e senza bandiere. La veduta della cinepresa si fa ampia, ellittica, composta di volute e repentini restringimenti, in pennellate a vasto raggio che riescono ad abbracciare tutto, sia il generale che il particolare. La forza del paesaggio sfigurato dell'Iraq, all'indomani della tragica guerra del 1991, è la vera protagonista di questa carrellata dolente, intima ma al tempo stesso collettiva, capace di richiamare ad un monito e ad una riflessione generale. La qualità delle riprese di questa Apocalisse è forse il risultato ottico di maggior rilievo raggiunto da Herzog: nell'aberrazione delle macerie il regista individua una purezza, un tratto per così dire immacolato anche nella cornice della distruzione, della sopraffazione. Probabilmente è anche uno dei suoi film più ambiziosi per le sue mire totalizzanti, spiazzanti: arte e distruzione possono convivere? La domanda non trova una facile risposta. Certo che risulta quasi urtante, e per questo tanto più convincente, il modo in cui Herzog scova il Poetico in ciò che di per sé è impoetico, come il cadavere dell'illusione post industriale, reso da brandelli di industrie fatte a pezzi dai bombardamenti o dai laghi di petrolio che soffocano la brulla terra del deserto. "Tutto ciò che sembra acqua è, in realtà, petrolio ... L'olio è subdolo perché rispecchia il cielo. L'olio tenta di sembrare acqua." Questa distesa nera e assurda, quest'orgia di immobilità, tregenda insensata a cui l'uomo si è votato, alla fine, per ricondursi da solo al nulla. Musiche toccanti, tra gli altri, di Wagner, Grieg, Verdi, Schubert, Mahler.
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