Stando al dibattito attuale circa le sorti dei palinsesti, appare chiaro che la televisione rappresenta ancora oggi un mostruoso strumento di potere, o per meglio dire uno strumento mostruosamente usato. Altrimenti non si spiegherebbero i voraci, e squallidi, appetiti dei partiti che smaniano di prenderne il controllo. Il fatto che la televisione sia ancora a tal punto fondamentale nello scacchiere strategico italiano, significa che la consistenza dell'opinione pubblica nostrana è prossima all'inesistenza: se un italiano forma la sua opinione politica e sociale in base ai canoni televisivi sarà facile trovarsi di fronte ad un cittadino mediocre, poco propenso a problematizzare quelle che sono le informazioni, poco portato all'approfondimento e all'analisi, soddisfatto della rappresentazione del mondo che qualcuno confeziona su misura per lui, influenzandone i comportamenti, pilotandone i consumi, creando nuovi allarmi e nuovi bisogni. Il fatto è tanto più drammatico stante che l'uomo più potente della nazione è anche uno dei massimi venditori a mezzo televisivo che la storia abbia mai conosciuto. E in un terreno come la televendita non conta tanto lo spessore di ciò che si dice, quanto il modo di dirlo, la confezione, la capacità persuasiva con cui indurre qualcun altro a comprare. Ciò che sconvolge e addolora è la sorta di indolente rassegnazione con cui l'italiano medio ha finito per aderire al modello televisivo: riconoscendosi e riconoscendovi le proprie speranze, cancellando qualsiasi memoria storica, sostituendo qualsiasi criterio critico con le deduzioni elementari del linguaggio televisivo, raggiungendo l'acmé di una regressione culturale cominciata da tempo, ma che nel mito del berlusconismo ha trovato la sua perfezione, o la sua diabolica ragione storica.
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