In fondo ai partiti non si chiederebbe che una caratteristica, oltre alla trasparenza e all'onestà, ma questa è materia penale più che politica, e cioè l'appartenere agli elettori più che ai padri fondatori. Dalla Lega a Grillo passando per Idv e finanche Pdl, ci troviamo di fronte a formazioni dominate da un unico nome, un unico uomo. Il corpo del capo è il partito stesso: è il sostituto, o piuttosto il surrogato, di quella che un tempo si chiamava ideologia. Che bene o male, nonostante la demonizzazione di cui è stata oggetto in tempi recenti e meno recenti, perlomeno era imparentata con le idee. Siamo di fronte ad un caso unico o quasi: in Europa e nel mondo democratico i partiti sovrastano il singolo leader, che è un inquilino di passaggio, un dirigente a termine. Nessuno si ricicla attraverso i decenni, nessuno, nemmeno se è gradito e lavora bene, può ripresentarsi per più di due mandati. Tantomeno nessuno può dirsi il proprietario del partito, o del marchio del partito. L'idea di fondo è semplice e corretta: anche il migliore dirigente politico del mondo, dopo dieci anni di potere, è bene che si faccia da parte. Perché il potere crea il sottobosco del potere, crea le trame di potere, pone cioè le basi per equivoci, complotti di palazzo, spartizione delle cariche, nepotismo e tutte le varie nefandezze per così dire collaterali che ogni ruolo pubblico di alto livello purtroppo comporta. E' la scoperta dell'acqua calda, ovviamente. La sanno tutti. Ma allora perché questo benedetto ricambio non avviene? Il Pd aveva tentato di proporsi come formazione di stampo occidentale, ma dov'è il ricambio se i nomi che lo abitano sono gli stessi di dieci, venti, trenta, quarant'anni fa? L'unica rivoluzione a costo zero e che servirebbe forse a qualcosa è anche quella che più difficilmente verrà attuata. Per veti incrociati, per avidità. Per spirito di gruppo insomma. Perché va bene la rivoluzione, va bene le riforme, ma qui teniamo tutti famiglia.
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