Così ci siamo dentro, nella temperie politica. Ci siamo dentro non fosse altro perché la temperie politica è diventata lotta sociale, in qualche caso lotta per la sopravvivenza. La politica italiana come paradigma di un fallimento, come risveglio brusco dopo una notte di sogni così così. Le cose già non erano esaltanti, ma ora siamo al baratro che si apre sotto ai piedi: è un clima da assalto ai forni, per dirla con Manzoni. La trama non è il brutto remake di un film già visto (atti terroristici inclusi) ma qualcosa di nuovo, che va oltre le coloriture ideologiche a cui eravamo abituati e con cui una certa stampa e una certa politica si ostinano a voler dipingere il quadro attuale. Bisogna inventarsi sfumature nuove per interpretare l'oggi, per capire le alchimie che legano legioni di hacker pronti all'assalto con la rabbia dei pastori sardi tanto per fare un esempio (due nomadismi che si incontrano tra l'altro, vittoria del significante sul significato). E' un oggi che reclama uno spazio per sé; che reclama parole nuove e definizioni che non si trovano sui buoni vocabolari della vecchia terminologia politica. Sta accadendo qualcosa. Non so ancora bene di che cosa si tratti (credo non lo sappia nessuno) ma ci stiamo avvicinando. E' un sommovimento trasversale, che ha a che vedere con gli strati più disparati della società, dove guarda caso è sempre più difficile marcare i confini tra il conservatorismo e il progressismo, anche se appare evidente come il primo abbia causato la peste in cui ci troviamo ora: il conservatorismo pavido che ha consegnato l'Italia e l'Europa alla stagnazione morale ed economica e che come ricetta - udite udite - ancora adesso non trova niente di meglio da fare che spaccare le già flebili tutele sociali che garantivano un poco chi non è garantito per definizione, vecchi e giovani in primis. Ma in ogni caso, ora anche i vecchi lupi invocano il cambiamento: aprono - almeno a parole - la porta ai giovani e alle donne. Speriamo. Ma intanto sono ancora lì: ad insegnare il solito gioco delle tre carte che ha portato allo squasso nei decenni passati. E' come se i nodi fossero venuti al pettine e qualcuno provasse ancora a dare strattoni: non c'è più niente da fare, bisogna fermarsi un attimo a sciogliere le ciocche. Forse bisognerebbe anche avere il coraggio di ammettere l'errore, specie da parte di chi ha tenuto il timone in mano in tutti questi anni: se c'è una cosa che accomuna l'Italia all'Europa e agli Stati Uniti è proprio questa patologica incapacità di autocritica. Annessa ad una radicale revisione degli impianti economici che hanno finora retto le ormai deboli certezze dell'occidente; è una questione di messa in discussione di certi parametri sclerotizzati dal tempo: così come lo erano l'istituto della schiavitù o quello del colonialismo, tanto per dire; colonne portanti dell'economia di un tempo, pilastri irrinunciabili che la Storia ha spazzato, insieme alla loro insostituibilità. E ora la posta in gioco non è meno alta, e tocca ognuno dei presenti. E in fondo ogni cambiamento nasce dalla fame di futuro.
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