Non so se sia il caso o meno di fare questa benedetta parata del 2 giugno. Un po' per lo sciupio di soldi, che di questi tempi proprio non è cosa, un po' perché lo sfoggio dell'armamento bellico è fuori dai tempi, e carico di alcune pericolose simbologie del passato. Certo oggi la realtà dell'esercito rappresenta qualcosa di diverso rispetto a ciò che poteva significare cinquanta o anche solo trent'anni fa; il 2 giugno oltretutto sfilano anche le associazioni che con la pratica militare in senso stretto non c'entrano nulla. Quello che vorrei dire è che sarebbe ingiusto criminalizzare (di che poi?) le rappresentative militari e civili in quanto tali, visto che si tratta di uomini e donne che nella stragrande maggioranza dei casi rischiano la vita per tutti. E' il concetto stesso di parata che sembra fuori posto, un aggeggio polveroso che con l'oggi, il qui e ora ha poco a che vedere; è una recitativa antica come i tarocchi, che se poteva avere un senso una volta, oggi non ce l'ha. Troppo rumore, in una terra già squassata da drammi morali e pratici, dagli scandali estesi ad ogni singolo comparto della società civile, fino alle devastazioni del terremoto. Non è il caso di fare parate, parate per che cosa? In onore di cosa? Il 2 giugno si ricorda il referendum del 1946 che ha abolito la monarchia e istituito la Repubblica, primo caso in Italia di votazione a suffragio universale (cioè a dire che prima le donne non votavano): onoriamo questo scatto di civiltà in silenzio, noi cittadini, nel nostro piccolo, provando a non dare per scontati i privilegi che la Repubblica Democratica comporta, in primis il diritto di voto. E chi comanda provi magari a ricordare che siede dove sta per assolvere ad un compito pro tempore e nell'interesse dei cittadini: la Costituzione c'è per essere rispettata, non per farsene un vanto e tentare di pasticciarla a proprio uso e consumo.
la voragine
martedì 22 maggio 2012
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Ariberto Terragni
Il crollo dell'afflusso al voto non è mai una buona notizia. La disaffezione verso la cosa pubblica non può per definizione esserlo, ma non per ragioni romantiche o per sentimentalismi che lasciano il tempo che trovano. No, c'è un motivo più preciso e più prosaico. Quando un cittadino, per legittima delusione, per indolenza o anche solo per distrazione, non vota, lascia un buco, uno spazio vuoto. Tanti buchi fanno una voragine, che oggi è rappresentata da quel 49 e passa percento che non si è recato alle urne. La domanda è: chi riempie quel vuoto? Stiamo parlando di un vuoto di rappresentanza, e quindi di potere che non può restare terra di nessuno. Se con libera scelta decidiamo di non occupare l'unità di controllo che ci è stata democraticamente assegnata, quello spazio verrà riempito da qualcun altro che, possiamo starne certi, non seguirà alcun principio democratico; non avrà bisogno di rendere conto a nessuno; non dovrà nemmeno prendersi la briga di stilare un programma. Con i disastri che la classe politica italiana ha commesso in questi anni era prevedibile, in fondo, un calo della partecipazione. Ma non andare a votare è, come dire, una sconfitta doppia: una sconfitta della tenuta democratica del paese, e una specie di tacito consenso agli uomini di potere che hanno fallito, perché in pratica continuino a fare quello che vogliono, perché tanto metà dei cittadini italiani non si cura di ciò che accade. E' anche un segno di resa, e al di là dei risultati elettorali in sé (interessanti, ma su un campione mutilato dalle assenze) fa ombra questa voragine, questo nulla che prima o poi verrà riempito. Da chi? Da chi?
montaggio analogico
martedì 15 maggio 2012
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Ariberto Terragni
Tra le categorie di bassa politica che hanno infestato anni di dibattito pubblico, quella del "smentisco, non ho mai detto che, divorzio dalla realtà" sono state parecchio frequentate. Più da qualcuno che da qualcun altro, è vero. Ma anche l'osservatore più distratto avrà notato che l'influenza della rete negli affari democratici, nei meccanismi elettorali e nello sviluppo di una coscienza critica si sia estesa a livelli fino a pochi anni fa difficilmente prevedibili. Sì, insomma, in tanti mastichiamo di internet da almeno un quindicennio, ma in pochi pensavano che il web avrebbe avuto un peso così determinante nelle scelte delle persone. La vittoria più significativa di internet si ricollega a quanto dicevo all'inizio: non è più possibile smentirsi con disinvoltura. Certo, si può sempre farlo: ma incorrendo in figuracce catastrofiche, in qualche caso fatali. Il controllo incrociato di milioni di utenti da tutto il mondo determina un monitoraggio che nessuna classe politica dei decenni passati ha mai dovuto subire. Perché internet ha memoria, è sempre collegato, è sempre pronto a fare confronti, mettere in relazione dati anche lontani, diffondere notizie, divulgare informazioni. La politica e la stampa dovranno darsi una regolata, se non se la stanno già dando. Problemi annessi e connessi come libertà di informazione, satira, nomine Rai e compagnia suonano come anacronismi, vecchi reperti, archeologia catodica. E con il pensionamento (speriamo imminente) della tiritera Rai, non è difficile immaginare una prossima estinzione della retorica libertaria in materia di informazione. Estinzione della retorica, non della libertà, che come un fiume trova sempre il modo di farsi largo tra le anse, riesce sempre a scavare gli ostacoli trovando altre e altre strade. Rimane, come un convitato di pietra, la faccenda dei soldi pubblici: ai giornali (privati) e alla televisione (di Stato), e questo sarà un problema di più difficile soluzione; perché così come partiti defunti continuano a percepire soldi, sarà fin troppo facile che anche gli ectoplasmi analogici di stampa e tv continueranno ad abbeverarsi alle fonti del finanziamento pubblico. Ma è una partita persa ormai. Per loro. L'errore? Più che un errore, un peccato se posso adottare un lessico religioso: la superbia. Quell'arroganza ostentata che ha portato i media tradizionali italiani a diventare un circolo chiuso, un club per pochi iscritti, impermeabile al nuovo. Con tutto il corollario di nepotismo, parenti, amanti e cugini ficcati in questo o in quel posto, iscritti a questo o a quell'ordine. Non vorrei farmi qualunquista, ma ci sono state poche differenze tra destra, centro e sinistra in questo banchetto. Riuscirà la società civile a far chiudere i rubinetti? Non facciamoci illusioni, e teniamo gli occhi aperti.
l'assalto ai forni
sabato 12 maggio 2012
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Ariberto Terragni
Così ci siamo dentro, nella temperie politica. Ci siamo dentro non fosse altro perché la temperie politica è diventata lotta sociale, in qualche caso lotta per la sopravvivenza. La politica italiana come paradigma di un fallimento, come risveglio brusco dopo una notte di sogni così così. Le cose già non erano esaltanti, ma ora siamo al baratro che si apre sotto ai piedi: è un clima da assalto ai forni, per dirla con Manzoni. La trama non è il brutto remake di un film già visto (atti terroristici inclusi) ma qualcosa di nuovo, che va oltre le coloriture ideologiche a cui eravamo abituati e con cui una certa stampa e una certa politica si ostinano a voler dipingere il quadro attuale. Bisogna inventarsi sfumature nuove per interpretare l'oggi, per capire le alchimie che legano legioni di hacker pronti all'assalto con la rabbia dei pastori sardi tanto per fare un esempio (due nomadismi che si incontrano tra l'altro, vittoria del significante sul significato). E' un oggi che reclama uno spazio per sé; che reclama parole nuove e definizioni che non si trovano sui buoni vocabolari della vecchia terminologia politica. Sta accadendo qualcosa. Non so ancora bene di che cosa si tratti (credo non lo sappia nessuno) ma ci stiamo avvicinando. E' un sommovimento trasversale, che ha a che vedere con gli strati più disparati della società, dove guarda caso è sempre più difficile marcare i confini tra il conservatorismo e il progressismo, anche se appare evidente come il primo abbia causato la peste in cui ci troviamo ora: il conservatorismo pavido che ha consegnato l'Italia e l'Europa alla stagnazione morale ed economica e che come ricetta - udite udite - ancora adesso non trova niente di meglio da fare che spaccare le già flebili tutele sociali che garantivano un poco chi non è garantito per definizione, vecchi e giovani in primis. Ma in ogni caso, ora anche i vecchi lupi invocano il cambiamento: aprono - almeno a parole - la porta ai giovani e alle donne. Speriamo. Ma intanto sono ancora lì: ad insegnare il solito gioco delle tre carte che ha portato allo squasso nei decenni passati. E' come se i nodi fossero venuti al pettine e qualcuno provasse ancora a dare strattoni: non c'è più niente da fare, bisogna fermarsi un attimo a sciogliere le ciocche. Forse bisognerebbe anche avere il coraggio di ammettere l'errore, specie da parte di chi ha tenuto il timone in mano in tutti questi anni: se c'è una cosa che accomuna l'Italia all'Europa e agli Stati Uniti è proprio questa patologica incapacità di autocritica. Annessa ad una radicale revisione degli impianti economici che hanno finora retto le ormai deboli certezze dell'occidente; è una questione di messa in discussione di certi parametri sclerotizzati dal tempo: così come lo erano l'istituto della schiavitù o quello del colonialismo, tanto per dire; colonne portanti dell'economia di un tempo, pilastri irrinunciabili che la Storia ha spazzato, insieme alla loro insostituibilità. E ora la posta in gioco non è meno alta, e tocca ognuno dei presenti. E in fondo ogni cambiamento nasce dalla fame di futuro.
post elezione
mercoledì 9 maggio 2012
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Ariberto Terragni
La singolare presa di posizione dell'establishment è presto detta: tutto ciò che esula dall'establishment stesso non ha legittimità. Singolare davvero, perché la negazione dell'altro da sé potrebbe essere letta, sommariamente, come la nemesi della democrazia. Nemesi che però è incarnata dalle forze politiche presenti in parlamento, votate dai cittadini, e che come tali dovrebbero essere il presidio della democrazia stessa. C'è un chiara contraddizione. Il potere piuttosto che mettersi in discussione è disposto a non concedere all'altro il diritto a esserci: non si tratta solo di una forma di arroganza, ma di una opzione politica che sotto certi aspetti va al di là anche di alcune posizioni autoritarie. Nel potere vigente non riesce a farsi largo l'idea che non esistono istituzioni laiche santificate, e che in politica non vige la norma dell'usucapione, per cui chi si tiene stretto al suo scranno per un tempo abbastanza lungo può rimanere dov'è per diritto acquisito. Non è tanto l'urlare di Grillo a spaventarmi, ma la difficoltà strutturale che il potere incontra nel gestire i cambiamenti, forte della pretesa - assurda - di poterli assorbire, e non già di esserne assorbito. E' un problema di dialettica. A me possono non piacere alcuni aspetti del Movimento 5 Stelle, ma rappresenta qualche decina di migliaia di cittadini, anche politicamente ora, e per ragioni di natura democratica sono tenuto al confronto. E' molto semplice in fin dei conti. I partiti non devono emettere un giudizio: devono prendere atto e regolarsi di conseguenza. E' il bello della democrazia: l'anzianità di servizio non dovrebbe garantire maggiori diritti, per nulla: l'affermazione di una forza, di un'opinione per mezzo delle elezioni democratiche deve essere assunta come referente politico, non c'è distinguo che conti. E' avvenuto con partiti di plastica, abili nel manipolare le folle dall'alto, e vale anche ora, forse a maggior ragione, per un movimento nato da un'esigenza popolare.
tengo partito
giovedì 3 maggio 2012
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Ariberto Terragni
In fondo ai partiti non si chiederebbe che una caratteristica, oltre alla trasparenza e all'onestà, ma questa è materia penale più che politica, e cioè l'appartenere agli elettori più che ai padri fondatori. Dalla Lega a Grillo passando per Idv e finanche Pdl, ci troviamo di fronte a formazioni dominate da un unico nome, un unico uomo. Il corpo del capo è il partito stesso: è il sostituto, o piuttosto il surrogato, di quella che un tempo si chiamava ideologia. Che bene o male, nonostante la demonizzazione di cui è stata oggetto in tempi recenti e meno recenti, perlomeno era imparentata con le idee. Siamo di fronte ad un caso unico o quasi: in Europa e nel mondo democratico i partiti sovrastano il singolo leader, che è un inquilino di passaggio, un dirigente a termine. Nessuno si ricicla attraverso i decenni, nessuno, nemmeno se è gradito e lavora bene, può ripresentarsi per più di due mandati. Tantomeno nessuno può dirsi il proprietario del partito, o del marchio del partito. L'idea di fondo è semplice e corretta: anche il migliore dirigente politico del mondo, dopo dieci anni di potere, è bene che si faccia da parte. Perché il potere crea il sottobosco del potere, crea le trame di potere, pone cioè le basi per equivoci, complotti di palazzo, spartizione delle cariche, nepotismo e tutte le varie nefandezze per così dire collaterali che ogni ruolo pubblico di alto livello purtroppo comporta. E' la scoperta dell'acqua calda, ovviamente. La sanno tutti. Ma allora perché questo benedetto ricambio non avviene? Il Pd aveva tentato di proporsi come formazione di stampo occidentale, ma dov'è il ricambio se i nomi che lo abitano sono gli stessi di dieci, venti, trenta, quarant'anni fa? L'unica rivoluzione a costo zero e che servirebbe forse a qualcosa è anche quella che più difficilmente verrà attuata. Per veti incrociati, per avidità. Per spirito di gruppo insomma. Perché va bene la rivoluzione, va bene le riforme, ma qui teniamo tutti famiglia.