Il terremoto in Abruzzo compie tre anni: anniversario drammatico, di calcinacci e sangue. In quest'Italia sbandata e sbadata gli anniversari del dolore sono diventati l'unico espediente grazie a cui provare a ricordare i nostri drammi. Il terremoto e i morti del terremoto, ma anche la girandola di disorganizzazione, incuria, bugie che è seguita alla catastrofe, squallido seguito di qualsiasi emergenza italiana. Prevedere disguidi e spreco di soldi all'indomani di ogni disastro è un gioco facile, facilissimo: è la vera sconfitta di un paese moderno a parole, equo nei sogni, solidale a gettone. Parole come "ricostruzione" e "rilancio" sono slogan, ma slogan, a guardare l'etimo, è il grido di battaglia dei morti, e mai assonanza, in questo caso, risulta più esatta: dietro la cartapesta degli annunci, il vuoto. E purtroppo si sa già in partenza che è così: all'indomani di ogni nuovo disastro si è tutti facili profeti di spreco, ritardi, indecenza, come se in Italia ogni opera pubblica debba pagare per forza di cose un oneroso tributo al malaffare. Mentre le macerie restano lì, e le soluzioni non sono mai soluzioni, ma un tirare a campare, una toppa troppo piccola in un buco troppo grande, dove la malafede delle sparate di mescola alle lacrime e alla rabbia di chi in quelle macerie deve continuare a vivere, per scelta e per dignità. A questo punto è solo vietato stupirsi: di che cosa poi? Di una macchina organizzativa che fa acqua da tutte le parti? Delle infiltrazioni malavitose? Sono cose che si sanno da sempre, e che si perpetuano, come un'indegna eredità, o se si preferisce una malattia sociale che una generazione trasmette all'altra. Ci vorrebbe Sciascia per raccontare lo sfacelo, e l'annesso senso di sconforto, che assale alla gola tutte le volte che lo Stato si arrende a se stesso, e lascia che sul campo restino sempre le stesse vittime: le persone e il territorio.
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