la nostra casa

La faccenda Lambro sta assumendo sempre più i connotati di una delle tante speculazioni edilizie che hanno assassinato la Brianza in questi anni. Il partito dei costruttori a tutti i costi, dei fautori del progresso a colpi di calcestruzzo è molto forte e molto influente e Il povero Lambro, alla fine, è quello che ci ha rimesso più di tutti in questa specie di regolamento di conti alla cassoeula. Il progetto che avrebbe dovuto sorgere sulle spoglie dell'area industriale dismessa seguiva né più né meno che il classico ideale abitativo di queste parti: un megacomplesso con centri commerciali, capannoni industriali e via dicendo, nel solito crescendo di relitti a venire e parcheggi sotterranei. C'è da scommettere che non si sarebbe trattato di edilizia sanamente popolare, ossia destinata alle famiglie a basso reddito e alle giovani coppie, no: sarebbero stati appartamenti di lusso, dati a uno sproposito al metroquadro, fatti per soddisfare l'alta fascia di questa melmosa e indistinta borghesia postindustriale che fa e disfa come le pare. Lusso al prezzo di sconvolgimento del territorio, seguendo uno schema noto: l'ambiente di tutti diventa fortino personale di qualcuno; il pubblico viene comprato dal privato. Il caso del Lambro è eclatante, particolarmente odioso vista l'indubitabile presenza di dolo, ma non è che uno dei bubboni sul punto di esplodere, una delle tante contraddizioni che prima o poi questi luoghi e i lori cittadini saranno chiamati a risolvere. Capiremo allora se l'amore per la propria casa passa per la demagogia violenta e arruffona di qualcuno o se forse c'è anche un modo più civile e più sereno per riappropriarsi di ciò che è proprio. No, gli extracomunitari non c'entrano stavolta.

sfigurati

Nato e cresciuto in questa terra lombarda, non credo ancora di averne colto del tutto la natura e le inclinazioni. O forse sì. La regione che è stata ed è il traino economico dello Stivale sta pagando in termini di salvaguardia dell'ambiente e di sostenibilità della vita un prezzo abnorme, ma è un prezzo direttamente proporzionale allo scempio che è stato fatto del paesaggio e del territorio. Il recente episodio degli ettolitri di gasolio riversati nel povero Lambro sono solo l'ultimo, grave sintomo di una mattanza sistematica portata avanti da decenni, in nome di uno sviluppo cieco che un'ideologia folle e criminale vuole senza limiti, senza conseguenze, come se il patrimonio naturalistico e territoriale fosse un pozzo senza fondo e senza regole. Le regole, soprattutto, sono un vero grattacapo per una certa Padania che in questi anni ha fatto di tutto per affrancarsi da ogni bega burocratica, da ogni opzione vagamente ambientalista che subito si è affrettata a bollare come comunista e disfattista. Ma il prezzo si sta cominciando a pagare, anche se questi signori pensano ancora di potersi abbeverare gratis e per sempre; i morti di polveri sottili sono una realtà, sempre più persone cominciano seriamente a interrogarsi sul modello perseguito tanto ottusamente finora. E' una Lombardia che non riconosco e in cui difficilmente una persona che ami davvero questa terra possa riconoscersi; più in generale è l'intero nord del paese che smentisce il suo stesso buonsenso, la sua stessa, coraggiosa umanità dimostrata tante volte nella storia per travestirsi da buzzurra, becera, avida popolana che pur di fottere il suo vicino, il suo concorrente, lo straniero è pronta ad invocare la legge del taglione. E in cambio di che, poi? Di questa distesa di centri commerciali, di rotonde, di parcheggi, di fumo, di cemento, di prefabbricati, di villette che costano un occhio della testa. Alla faccia dello spirito delle Cinque Giornate.

investimenti

Ascoltando le dichiarazioni degli inquirenti in merito alle vicende di corruzione e giochi di potere che stanno venendo a galla in queste ore, mi ha colpito in particolare un aspetto della vicenda, detto a chiare lettere dal magistrato: "Gli ambiti coinvolti spaziano da quello economico a quello politico a quello affaristico." A quanto pare, e ancora una volta, il comparto culturale non c'entra nulla con il declino nazionale. Considerazione al limite del banale la mia, ma forse non poi così tanto: anziché riporre fiducia nelle uniche cose che potrebbero salvarci (come la ricerca scientifica e lo sviluppo culturale), l'Italia preferisce affidarsi ancora a quelle materie, o per meglio dire alla loro degenerazione, che l'hanno condotta sul lastrico: finanza allegra, politica dei fatti propri, giurisprudenza delle scappatoie. Ancora lo stesso gioco delle tre carte che nelle nostre contrade non passa mai di moda, ancora quel sordido viluppo di affari, politica, cialtroneria, senso di impunità che vive come un cancro a spese della società civile. Sembrerebbe logico tagliare e punire laddove la malattia si palesa, e invece no: si va a tagliare sulla parte sana, ossia sulla parte culturale e scientifica, che potenzialmente potrebbe diventare la prima industria del paese, trascinando in una parabola virtuosa un indotto ancora tutto da scoprire. Ma no, meglio rassegnarsi all'evasione fiscale più alta d'Europa, meglio chiudere un occhio sui traffici di soldi fatti dal nulla, sulle varie ganghe, accolite, baronie che dominano ampi strati di società senza temere o quasi alcuna conseguenza. E nonostante tutto ancora oggi l'unico investimento ritenuto valido è quello monetario e a breve termine, l'esatto contrario di ciò che potrebbe portare ad una crescita costante, coerente, fatta di valori culturali e di progressi che durano.

radicali liberi

A dirla tutta il vago sospetto che le iniziative politiche di marca radicale vengano sistematicamente adombrate, sminuite, oscurate, c'è, ed è anche bello forte. Non sono un sostenitore della causa, ma, come dire, la faccenda sta assumendo una rilevanza che va ben oltre il colore politico in sé. Abbiamo da perderci tutti: ne va di un presidio a favore della laicità dello stato che senza l'impegno radicale andrebbe smantellato o nel migliore dei casi affogato nei distinguo e nelle precisazioni equidistanti. In una nazione sommersa dal fiume della retorica e delle parole a vuoto, l'impegno per un apparato statale finalmente libero dal gravame ecclesiastico suona evidentemente come un'insopportabile incognita, da arginare con qualsiasi mezzo e qualsiasi strategia; quella più antica e italiana è guardacaso anche la più economica: mettere a tacere, segnare tra parentesi, tutt'al più far passare ogni iniziativa fastidiosa come una baracconata, il numero da circo che non si nega più a nessuno. Una Emma Bonino presidente di regione sarebbe uno scandalo, non tanto per quello che dice, ma per la probabile coerenza con cui condurrebbe in porto il suo programma. E questo, in una società ipocritamente cattolica e autenticamente puttaniera come la nostra, sarebbe inaccettabile. Questa strategia del silenzio rivela chiaramente quale sia il nostro livello democratico attuale (bassissimo) e quale sia ancora la forza clericale all'interno delle nostre istituzioni (altissima), in una miscela di opportunismo, menefreghismo, retorica del fare che di fatto soffoca l'altro, il diverso, il portatore di un'idea che non si conforma all'andazzo. La Bonino ha ragione quando dice che si tratta di un problema di legalità, ma in un sistema che delibera a colpi di maggioranza quanto si allarga lo iato tra legalità e giustizia?

digitalizziamoci

Un giorno forse qualcuno riuscirà a spiegarmi con precisione che cos'è e a che cosa serve Google Libri: paventato archivio on line di libri da tutto il mondo e di tutte le salse, comodi, fruibili, consultabili in qualsiasi momento e gratuitamente. Mi ricordo il tono con cui questa operazione fu a suo tempo annunciata: rivoluzione, nulla andrà più perso, tutto sarà alla portata. Basta andare a vedere che cosa sia oggi Google Libri, a qualche anno di distanza, per prendere atto del triste fallimento del progetto, arenato nelle secche delle dispute editoriali, ridotto a remainder di seconda scelta, dove si accumulano cartacce di scarso conto in edizioni fuffa o quasi. I libri potenzialmente più interessanti sono allo stato di frammento, o sarebbe meglio dire di ritaglio: due righe di frontespizio; di altri volumi esiste solo la copertina corredata da un affettuoso avvertimento che ci segnala l'impossibilità di consultarli. Di altri ancora si possono apprezzare delle generose edizioni mutile di più pagine, giusto per rendere impossibile la lettura. I titoli a disposizione si riducono a classici in edizioni perlopiù defunte, imbevibili, con traduzioni approssimative nel caso in cui si tratti di testi in lingua e quasi sempre con un corredo bibliografico insufficiente o addirittura inesistente. Non so onestamente quale idea di letteratura abbiano questi signori o che caspita avessero intenzione di fare agli albori della loro impresa. So quello che tutti possono vedere: un'iniziativa strampalata che non serve a nessuno, meta di inutili speranze di consulto, serva delle grosse case editrici, incapace di offrire alternative di consulto. Anziché digitalizzare tutti i libri del mondo sarebbe già qualcosa riuscire a scannerizzarne mille, di quelli che servono però, e con uno straccio di cura filologica.

l'ora del pappa

Sgomenta e lascia atterriti soprattutto un aspetto della vicenda Protezione Civile: il fatto che un altro pezzo di Res Publica, di cosa pubblica, peraltro funzionante, motivato ed efficiente come pochi altri, stia andando in fanteria. Assieme alla scuola pubblica, alle forze dell'ordine, all'acqua (!!!) e a tutto quel patrimonio comune che è stato costruito nel tempo da generazioni di persone, a prezzo di sacrifici, di sangue e di battaglie dagli esiti tutt'altro che scontati. Stupisce la rassegnazione con cui un intero popolo sta accettando questo andazzo come logico contraccolpo, ovvio dazio da versare alla causa. Poco importa se ci risvegliamo nelle mani di un gruppo di imprenditori senza scrupoli, animati dalla malia del successo facile, uomini del fare con un cuore da pappone: evidentemente ci sta bene così, perché vogliamo gente "del fare" per l'appunto, che faccia fesso chi se lo merita, che abbindoli controlli e controllori. Il tutto per avere in cambio uno Stato che fa acqua da tutte le parti, che tutela i più forti, che si cala le braghe di fronte all'evasione fiscale: è lo Stato privatizzato, quello che fa piovere nelle scuole pubbliche ma finanzia quelle private, in nome di non si sa quale criterio di "libera scelta"; lo Stato che riduce se stesso ad una s.p.a. che ha come base di tutto il lucro e lo squallido guadagno di qualche sciacallo. Favorisitmo, clientelismo, nepotismo, sono tutte malattie italiane che nessuno si azzarda a curare, tantomeno questa ciurma di concretoni, che anzi mira proprio ad aderire in tutto e per tutto al peggio che gli italiani hanno saputo esprimere nella loro storia. Ora come non mai serve che le differenze tra chi la pensa in un modo e chi nell'altro emergano.

la fine dell'inizio

Eppure il sistema vacilla. Nonostante il vasto e diffuso senso di impunità che trapela dalle intercettazioni, si avverte che qualcosa sta cambiando. Non siamo ai livelli di Tangentopoli: siamo ben oltre, siamo a pochi metri dal collasso. Nonostante i sempre più smaccati tentativi di insabbiare, minimizzare, edulcorare, il sistema sta mostrando la corda con uno scandalo al giorno, rivelando un intrico perverso di affari, politica, soldi pubblici, puttane. Incredibile come ogni tardo impero, dall'Impero d'Occidente alla Francia prerivoluzionaria, si palesi quasi sempre attraverso gli stessi sintomi di decomposizione, di sfilacciamento sociale e di inadeguatezza della classe dirigente. La reazione, poi, è sempre la stessa: negare, deviare, pilotare l'informazione e l'intrattenimento. Ma la misura, presto o tardi, sarà colma, e non tanto o non solo per l'indignazione popolare (considerato anche il livello di disinformazione e di disincantato cinismo di molti italiani) ma per la monumentale e sfacciata protervia con cui gli illeciti vengono perpetrati, l'arrogante sicumera con cui il bene pubblico viene spartito, fagocitato da un ristretto novero di amici e parenti. Prova ne è il tenore di certe intercettazioni, in cui il sentimento di impunità arriva a livelli quasi comici. E dire che gli italiani avrebbero anche sopportato, come del resto hanno quasi sempre fatto, un livello di sfacciataggine contenuto, delle ruberie di basso profilo, in cambio perlomeno della sensazione di averne qualche briciola. Mai dire mai comunque; certo che viene da chiedersi che altro debba accadere perché questa nomenclatura, e il Mister che più di tutti la incarna, si tolga dalle scatole senza gravare oltre sulla pazienza e sulle casse di un'intera nazione. In un suo bell'articolo su Repubblica, Curzio Maltese centra secondo me il nodo nevralgico della questione: qualcosa deve succedere perché è semplicemente impossibile immaginarsi un futuro con Mister B ancora in sella insieme alla sua corte dei miracoli. Umanamente impossibile.

Corporale, di Paolo Volponi

Corporale di Paolo Volponi è un poderoso romanzo di oltre cinquecento pagine, in cui si narra delle vicende di Gerolamo Aspri, professore, intellettuale di provincia vittima di tutta una serie di equivoci personali e autoprocurati che lo porta a isolarsi nell'urbinate, a impegnarsi in traffici strani, a interessarsi di fatti di nera locale, a inventarsi un alter ego di nome Murieta, messicano, biscazziere in un cinodromo. Il romanzo, in tutta la sua densità narrativa e analitica, vive di più scenari e di più sottotracce, includendo nella sua struttura un tentativo di "tutto", e sfociando alla fine in una cannibalesca ricerca di materia; per vivere, Corporale ha bisogno di ingurgitare nel suo altoforno, storie, personaggi, curiosità, aneddoti, divagazioni, paesaggi, mestieri. Il tentativo di Volponi è quello di dare vita ad un affresco grandioso, ad una immensa opera collettiva che in qualche modo spieghi la psiche del singolo, procedendo ad ampie falcate dall'esterno all'interno e viceversa. Aspri è la pianta sradicata che non sa dove piantare le proprie radici, ma è anche l'anacoreta ostinato nel suo isolamento, incapace di instaurare rapporti con gli altri che non siano fondati sul sospetto o sulla diffidenza. Una delle poche cose comprensibili che Pasolini sostiene in una delle sue solite, torrenziali, fumose analisi è proprio questa: in Corporale manca un vero e proprio nemico, perché la dimensione del negativo, o se vogliamo dell'oppositivo, è talmente dilatata, talmente generalizzata da risultare alla fine nulla, schiacciata in una prospettiva troppo generica per poter essere colta. Aspri è contro il mondo, ma proprio per questo alla fine è come se fosse contro nessuno: un deserto di ombre dietro cui si celano potenziali pericoli, ma che alla fine, per l'appunto, sono solo ombre impalpabili. Corporale è un testo di difficile definizione: post strutturalista, neoavanguardista? Non credo. Risente del tempo, specie nella sua tensione al tutto e alla divagazione: personalmente ho riscontrato più di una somiglianza con una certa produzione di Gadda e dell'Arbasino di Fratelli d'Italia, persino, ma in tono minore, con Ferito a morte di La Capria. Ma Corporale ha ambizioni personali più forti e meno mondane, che portano l'autore ad una ricerca interiore che a qualche titolo deve riversarsi nel mondo esterno, comprendendolo, assorbendolo, riassestandolo per renderlo comprensibile. Il risultato è un testo multiforme, strano, per certi versi pazzesco, che segna di fatto il superamento della prosaica letteratura industriale per proiettarsi nella dimensione del dopo: un post che non è ancora postmoderno ma che già ne presenta alcune inequivocabili avvisaglie. E' un'eredità letteraria, ora sconnessa e disarticolata, ora affilata, pungente come solo la grande narrativa iperrealista italiana ha saputo fare.

alla conquista

Stando al dibattito attuale circa le sorti dei palinsesti, appare chiaro che la televisione rappresenta ancora oggi un mostruoso strumento di potere, o per meglio dire uno strumento mostruosamente usato. Altrimenti non si spiegherebbero i voraci, e squallidi, appetiti dei partiti che smaniano di prenderne il controllo. Il fatto che la televisione sia ancora a tal punto fondamentale nello scacchiere strategico italiano, significa che la consistenza dell'opinione pubblica nostrana è prossima all'inesistenza: se un italiano forma la sua opinione politica e sociale in base ai canoni televisivi sarà facile trovarsi di fronte ad un cittadino mediocre, poco propenso a problematizzare quelle che sono le informazioni, poco portato all'approfondimento e all'analisi, soddisfatto della rappresentazione del mondo che qualcuno confeziona su misura per lui, influenzandone i comportamenti, pilotandone i consumi, creando nuovi allarmi e nuovi bisogni. Il fatto è tanto più drammatico stante che l'uomo più potente della nazione è anche uno dei massimi venditori a mezzo televisivo che la storia abbia mai conosciuto. E in un terreno come la televendita non conta tanto lo spessore di ciò che si dice, quanto il modo di dirlo, la confezione, la capacità persuasiva con cui indurre qualcun altro a comprare. Ciò che sconvolge e addolora è la sorta di indolente rassegnazione con cui l'italiano medio ha finito per aderire al modello televisivo: riconoscendosi e riconoscendovi le proprie speranze, cancellando qualsiasi memoria storica, sostituendo qualsiasi criterio critico con le deduzioni elementari del linguaggio televisivo, raggiungendo l'acmé di una regressione culturale cominciata da tempo, ma che nel mito del berlusconismo ha trovato la sua perfezione, o la sua diabolica ragione storica.

omaggio a Lolli


La canzone d'autore non credo necessiti a tutti costi di una patente letteraria per avere dignità; sono gli autori stessi a non chiederla e a non volerla, specie quelli migliori. Pensavo a quello che a questo particolare tipo di modalità espressiva ha dato Claudio Lolli, cantautore di rara intelligenza, cultura, capacità descrittiva. Non era da meno rispetto a nessun altro, eppure è meno citato degli altri, penso anche che abbia, immeritatamente, meno fan di molti altri. Eppure la qualità dei suoi testi è superiore alla media, anzi, la facilità con cui Lolli colloca immagini e personaggi in una trama per così dire cantata è stupefacente. Ha il dono della scrittura, ma non l'ha mai fatto pesare a nessuno; è autore di un numero tutto sommato esiguo di album e di raccolte il che ha fatto di lui un cult per tenaci cultori. Nel panorama della gente che si diletta in amorazzi dalla mattina alla sera, che appesta ogni canale informativo con le scemenze del suo repertorio melodico, Claudio Lolli risalta come un metallo raro, una sostanza che ha del benefico e del rasserenante. Nella società della facile presa e del consumismo, Lolli si è imposto per la preziosa raffinatezza del proprio armamentario di uomo e di artista, lanciando ogni tanto qualche briciola per meglio farci seguire la via, e, forse per farci sentire meno soli. Ma queste sono suggestioni. Ciò che è indubitabile è il suo bagaglio di cantautore, che non ha mai tradito il proprio talento e che non ha mai fatto nulla per esibire con eccessiva tracotanza il dono di schiettezza e naturalezza che le sue canzoni rimandano. Dargli del poeta sarebbe un modo troppo facile per sbarazzarsene, per limitarlo in qualche cosa che lui non ha voluto essere o che ha voluto essere solo in parte. Resta la sua grande lezione di eleganza, di signorilità di uomo che ha coltivato il suo talento senza specularci sopra, senza sperare di mungerlo come una vacca: ed è forse questa l'emozione più grande che si possa avere ascoltandolo oggi, un senso di gratuità e di autentica vicinanza che in pochi possono emanare con altrettanta sincerità.

a imperitura memoria

La notizia en passant mi ha portato ad un passo dallo svenimento: mister B ha in mente di farsi la sua università, l'Università Internazionale della Libertà, o qualcosa di simile. Insomma, la libertà di riffa o di raffa doveva saltare fuori per forza, vista l'ormai conclamata scarsezza di fantasia del personaggio. Un'istituzione su misura, molto privata ovviamente, in cui solo Dio sa che cosa potrà accadere, che cosa si potrà insegnare, quali saranno le linee culturali di tale, prestigiosa impresa. Siamo alla seconda fase, pare di capire. Dopo aver anestetizzato la nazione, dopo averla normalizzata, dopo averne in pratica squassato il sistema immunitario, è tempo di progettare il futuro, accreditando l'immagine del Capo al rango di una figura epocale, capitale, magnanima, imprescindibile: dopo la cronaca giudiziaria è tempo di passare alla Storia. Vai con l'ormai mitico ponte sullo Stretto, monumento tangibile all'imperitura grandezza di mister B, e, di controcanto, vai con il lascito "culturale" alla posterità: la codificazione del disvalore berlusconiano, la messa perpetua in onore di una delle ideologie (perché tale è il berlusconismo) più povere, raffazzonate e improvvisate che l'Occidente ricordi. La cultura, ovviamente, non c'entra nulla: anche l'università sarà un'azienda, atta ad assemblare un determinato prodotto, un uomo nuovo, medio, imbevuto di luoghi comuni, di grammatica di partito. In questo progetto pazzo c'è tutta la vanità dell'uomo, che, non potendo nemmeno in sogno spacciarsi come esempio di cultura alta, decide di comprarsi un suo spazio per tentare di imporsi anche lì, tentando la codificazione scolastica del proprio mito. C'è tutta l'astuzia imprenditoriale e provincialotta di chi non ha mai letto un libro, ma sa che, una volta nei libri, nessuno ti toglie più. Dopo la teorizzazione televisiva di culo, tette, risse (forse un domani ci diranno che era la naturale continuazione della maieutica di Socrate), l'alta formazione umana: solo un mago poteva riuscirci. Rimane un ultimo interrogativo: nell'università della Libertà saremo ancora liberi di pensarla diversamente?

l'intervista




La prima presentazione di Un uomo da abbattere avverrà sabato 6 marzo alle ore 17.30 presso la libreria Un mondo di Libri a Seregno, Galleria Mazzini 8, zona stazione.

Pubblico qui di seguito l'intervista rilasciata a Jean Luc Meyer, corrispondente del periodico indipendente parigino Matinee Parisienne.

INTERVISTA

Signor Terragni, dopo aver letto il suo romanzo si ha l’impressione di aver attraversato un cataclisma per poi ritrovarsi al punto di partenza, è un effetto voluto?

In un certo senso direi di sì, è una cosa che accade anche con i cataclismi veri e propri se guardiamo bene. Ci sono delle prove a seguito delle quali non è detto che si sia migliori o peggiori, si può anche rimanere ostinatamente uguali a se stessi.

Ed è un bene o un male secondo lei?

E’ una semplice circostanza, un luogo neutro.

Non le pare di essere un po’ pessimista a riguardo?

Quella del pessimismo è una storia che mi viene affibbiata da quando sono piccolo, ma è fondamentalmente un falso, un modo per liquidare una questione importante come quella dell’arbitrio con una parola trita: pessimista. Non significa niente. Non esiste il pessimismo, esiste la percezione delle cose.

E lei ha una percezione di che tipo?

Voi francesi avete una bellissima parola, una delle tante della vostra splendida lingua, che è cafard, un misto di noia esistenziale e di malinconia, con un sottofondo quasi ironico. E’ un termine languido, che dà una sensazione al tempo stesso vaga e precisa.

Un uomo da abbattere è attraversato da questo filo rosso infatti.

Certo, non avrebbe potuto essere altrimenti, mi fa piacere che sia evidente, così almeno una cosa sono riuscito a dirla: il protagonista lotta con le ombre, perché di lotta si tratta, ma è una lotta strana, che lui non cerca, in cui semplicemente, banalmente direi, si trova invischiato, da cui la noia, noia badi bene moraviana, non la noia del “non sapere che fare”, quella non c’entra nulla.

Può definire meglio che cosa intende per “noia”?

Lo ha già detto Moravia molto meglio di me: noia è la costrizione imposta dall’esterno, quella costrizione a cui non ci abitua mai del tutto se si ha un minimo di consapevolezza. Noia è coazione a ripetere, è meccanicità, automatismo.

Lei ha appena fatto riferimento a Moravia, è stato un suo modello? Ce ne sono stati anche degli altri?

Moravia è stato uno dei maggiori scrittori italiani del novecento, c’è poco da fare, e a me piace molto, specie nei suoi capolavori, come La noia appunto, ma anche come Gli indifferenti e Il disprezzo aggiungerei. E’ un modello di bell’italiano soprattutto, e poi di pulizia formale. Oltre a lui non posso non citare Parise, senza il quale probabilmente non avrei cominciato a scrivere in prosa, e poi gli americani Hemingway, Faulkner, Saul Bellow, tra gli scrittori francesi certamente il Cèline di Viaggio al termine della notte. Sono modelli altissimi, niente che possa raggiungere, nemmeno in prospettiva.

Si è coltivato molto come lettore?

Molto, sì. Ci sono giorni della mia vita in cui posso dire di non aver fatto altro che leggere, in modo bulimico, forse anche eccessivo. Era una lettura disperata che poco o nulla aveva a che fare con il piacere estetico.

Nel suo romanzo d’esordio si nota una certa tensione filosofica.

Anche la filosofia ha avuto il suo peso. Penso all’esistenzialismo, al concetto di ex sistere, e alla conseguente coscienza di esistere, che nelle parole di Sartre trova una sua disposizione concettuale schematica, precisa, ma anche al pensiero asistematico di Cioran, che ha avuto un fortissimo peso nella mia formazione. E poi Nietzsche ovviamente, ma ormai lo citano tutti, a vanvera perlopiù, per cui mi taccio. Sapesse la gente quante bugie infamanti sono state dette sul suo conto. Ci sarebbe molto altro da dire, anche per quanto riguarda la lettura narrativa: è molto difficile parlare della propria esperienza di lettore, perché si tratta quasi sempre di un mosaico molto elaborato, con ramificazioni infinite, possibilità combinatorie senza limiti, come in un racconto di Borges. Riassumendo posso dire di credere ad una religione del dubbio, che è un ossimoro, ma che è anche l’unica definizione che posso tentare di dare: non un concetto dogmatico, ma filosofico appunto.

Pensa che Un uomo da abbattere possa piacere al pubblico francese?

Bella domanda. Non lo so onestamente. Penso che prima di tutto occorrerebbe una buona traduzione, ma vista l’assonanza tra le lingue non dovrebbe esserci problema, per quanto riguarda le tematiche direi che potrebbe esserci una certa vicinanza circa l’umore generale che si avverte. In fondo è la Francia che ha inoculato nel mondo occidentale il virus positivo del dubbio critico.

In che cosa le assomiglia Diego Moliterni, il protagonista?

Nella disposizione mentale, probabilmente. E poi nell’approccio alle cose. Ho pensato a come avrei reagito io in un contesto simile. C’è anche qualche somiglianza fisica tra me e lui, anche se Diego ha qualche anno più di me. Ad ogni modo credo poco all’identificazione autore personaggio.

Pensa che ci sarà un seguito?

Non credo. In genere non mi piacciono molto le storie a puntate, sono disoneste. Se Diego Moliterni dovesse tornare sarebbe per una storia di tutt’altro genere. Un uomo da abbattere è concluso, finito nel numero delle sue pagine, proseguire sarebbe un atto di disonestà nei confronti del lettore.

Lei viene dalla poesia, ne ha scritte a centinaia, come mai il passaggio alla narrativa?

Scrivo in prosa da tempo. Scrivevo poesie soprattutto intorno ai sedici, diciotto anni, la narrativa è arrivata in quel periodo, a ruota, ma in modo molto spontaneo, senza forzature, forse in risposta al bisogno di ordine che avevo. La narrativa, anche quella apparentemente più sregolata, necessita di una struttura interna. Anche l’Ulisse di Joyce ha una tensione strutturale fortissima, tanto per fare un esempio, eppure tratta del flusso di coscienza e ha un’andatura saltellante, svagata. Ma è solo apparenza, dietro c’è sempre un lavoro disciplinato. La poesie risponde ad esigenze diverse, e può vivere anche sull’ispirazione, non sempre ma in qualche caso sì, la narrativa no, non credo, anche se qualsiasi tentativo di paragone può risolversi solo nel ridicolo.

Il suo prossimo progetto?

In questi giorni sto scrivendo un racconto che è per così dire degenerato in un romanzo breve. Poi nel cassetto ho altri cinque romanzi già pronti, più un centinaio di racconti e tutte le poesie. Tutto inedito da parecchio tempo. Mi sono portato avanti col lavoro per un paio di vite.

Ne fa una questione di quantità?

Per niente. Solo che se uno decide di scrivere fa bene a farlo con convinzione. Se uno crede di avere un’idea fa bene a svilupparla. Si tratta anche di avere passione artigiana per la parola. Chi se ne importa se uno scrive tanto? Forse qualcuno va ad impicciarsi delle cause che patrocina un avvocato? No ovviamente. Con chi scrive c’è sempre una certa forma di supponenza, per non dire di sospetto, e la cosa irrita, c’è poco da fare.

Jean Luc Meyer, Matinee Parisienne®

pop

Dov'è naufragato l'aspetto buono della cultura pop? Quel lato un po' meno animalesco e un po' più ragionato a cui faceva cenno Peter Gabriel su Repubblica di ieri? Se posso avanzare una minima analisi da osservatore, direi nella melassa del sentimento. Un'emozione da poco portata a livelli estensivi, una pesca a strascico di menti semplici accalappiate con ammiccamenti, amorazzi, anime, emozioni. Ecco, appunto, le emozioni. Le emozioni non sono niente, sono solo un abuso lessicale, alla millesima volta in cui in cantante fa ricorso al termine emozione, l'emozione di fatto non esiste più: è diventata un tormentone pubblicitario, una marchetta, la marca di un prosciutto. Emozione è tutto ciò che di semplice viene spacciato alle menti semplici perché restino semplici, parafrasando l'immortale vignetta di Bucchi. Emozione, movimento da luogo, come suggerisce l'etimo, è qualcosa di passivo, di indotto: non è un male di per sé, lo diventa quando il traino ha dei pessimi fini, tipo quelli di spacciare un prodotto o vendere qualcosa. Il pop ormai vende questa pillola chiamata emozione, che non è niente, solo un palliativo che fa rima con cuore, amore, dolore. Non è un'opera, non è una riflessione: è una produzione su vasta scala di pezzi tutti uguali, distribuiti da cantanti costruiti a tavolino, tutti vestiti allo stesso modo, tutti con la stessa voce. C'è da diffidare dell'emozione, perché il suo unico scopo è quello di bypassare la ragione, di circuirla e di spegnerla, in modo tale da avere via libera e dire un po' di tutto per vendere qualsiasi cosa. Il pop ridotto a un gigantesco discount si comporta né più né meno come un imbonitore che voglia vendere un elisir di lunga vita: venite da me, dice, a poco prezzo e con poca fatica vi do qualcosa che vi farà stare meglio per un po', come? Staccando il vostro cervello, alzando la vostra glicemia con gli zuccheri di cuore e amore. Vendono ancora l'Inghilterra alla libbra, Peter?

lettera chiusa

Perdoni l'ardire ministro, ma proprio non ci siamo. Mi presento: sono un cittadino marginale bamboccio (l'accrescitivo mi fa orrore, perdoni se non lo uso), economicamente ininfluente, accademicamente esecrabile. Non credo che me ne andrò di casa per farla contenta, e il bello è che lei non potrà farci niente: perché non credo in lei, non credo in ciò che fa, non credo al governo che rappresenta. Ritengo il suo operato eccedente rispetto alla soglia del buon gusto e di qualsiasi eleganza istituzionale. Di più: mi irrita. Non ha di che preoccuparsi però: non conto nulla, non ho padrini alle spalle e non posso esercitare alcun tipo di pressione. Un piccolo potere, però, ce l'ho: decidere dove vivere, cosa fare e cosa dire. La ragione è molto semplice: sono nato libero, non sono un liberto, né uno schiavo; ho studiato, ho letto, mi sono informato e sono giunto alla conclusione che lei non può dirmi quello che devo o non devo fare. E se a stento riconosco il suo ruolo, mi creda, non è per via del suo carisma, ma per quell'obbligo quasi affettuoso a cui mi vincolano la cittadinanza e l'abitudine. Per il resto, fino a quando non sarà proibito anche pensare (so che ci sono dei progetti anche in questa direzione), io continuerò ad avere una mia opinione e a difenderla, cercando di non morire di paura di fronte all'autorità altrui e cercando di non perdere del tutto la dignità prostrandomi di fronte ad un certo tipo di arroganza. Sono una delusione, lo penso anch'io: non riesco ad apprezzare la genialità, la concretezza, la vicinanza alla gggente cui sottende il suo ragionamento. Ma per farmi perdonare comunico in anticipo i luoghi in cui eventualmente mi trasferirò: nonni, zii, cugine, fidanzata, ex morose non desiderose di farmi la pelle. Non ho fratelli, sennò li aggiungerei alla lista. Stia bene, cordialità.

l'Apocalisse di Herzog


Apocalisse nel deserto, di Werner Herzog, è lo straniato cammino di un regista nell'orrore dell'immagine; è un documentario ma anche un'opera visiva: sorta di personale discesa agli inferi di un cineasta che laicamente affronta il silenzio di Dio in una processione senza santi e senza bandiere. La veduta della cinepresa si fa ampia, ellittica, composta di volute e repentini restringimenti, in pennellate a vasto raggio che riescono ad abbracciare tutto, sia il generale che il particolare. La forza del paesaggio sfigurato dell'Iraq, all'indomani della tragica guerra del 1991, è la vera protagonista di questa carrellata dolente, intima ma al tempo stesso collettiva, capace di richiamare ad un monito e ad una riflessione generale. La qualità delle riprese di questa Apocalisse è forse il risultato ottico di maggior rilievo raggiunto da Herzog: nell'aberrazione delle macerie il regista individua una purezza, un tratto per così dire immacolato anche nella cornice della distruzione, della sopraffazione. Probabilmente è anche uno dei suoi film più ambiziosi per le sue mire totalizzanti, spiazzanti: arte e distruzione possono convivere? La domanda non trova una facile risposta. Certo che risulta quasi urtante, e per questo tanto più convincente, il modo in cui Herzog scova il Poetico in ciò che di per sé è impoetico, come il cadavere dell'illusione post industriale, reso da brandelli di industrie fatte a pezzi dai bombardamenti o dai laghi di petrolio che soffocano la brulla terra del deserto. "Tutto ciò che sembra acqua è, in realtà, petrolio ... L'olio è subdolo perché rispecchia il cielo. L'olio tenta di sembrare acqua." Questa distesa nera e assurda, quest'orgia di immobilità, tregenda insensata a cui l'uomo si è votato, alla fine, per ricondursi da solo al nulla. Musiche toccanti, tra gli altri, di Wagner, Grieg, Verdi, Schubert, Mahler.