Il Teatro alla Scala, nel suo momento di gloria, la sera della prima, è ridotto ormai a questo: l'Italia di serie A in passerella, e tutti gli altri, fuori. Gli ottimati in smoking e palandrana e il popolo davanti a un maxischermo. Meglio che niente, dirà qualcuno. E' sempre stato così, dirà qualcun altro. Solo che siamo a un passo dal 2012, e questo terribile steccato eretto in nome del potere e del denaro, mi fa rabbrividire. Mai come in occasioni simili si tocca con mano come il nostro sia un paese profondamente classista, diviso per gerarchie, per agiatezza, per possibilità di muovere i fili. Li vedi lì, tutti fotografati. I garantiti, e gli altri. L'espressione di un potere spesso ingiustificato o di una capacità economica a volte inspiegabile sono tutti coagulati in un unico punto, e ne sono lieti. E' un'umanità alla Bosch quella che appare in queste rappresentazioni collettive, una mistura confusa e allo stesso tempo rivelatrice della realtà di oggi, dove politica, economia, star system, ruffianeria e opportunismo si miscelano in allegria. Dispiace che a farne le spese sia la Scala, con le sue fantastiche maestranze e il suo buon nome. Del resto, il mondo gaglioffo che frequenta le passerelle, si sa, odia la cultura, eppure non si lascia sfuggire l'occasione di mettersi in mostra, di rilasciare una dichiarazione, di salutare con il palmo aperto della mano: odiano la cultura, ma la sfruttano, così come parlando di equità e di sacrifici comuni, recitano. Si parlava di rappresentazione: è il termine chiave per capire le cause prime di questa celebrazione classista. Come nelle parate militari, o come le incoronazioni dei re, oggi ci misuriamo con l'ostentazione di chi può contrapposta al contentino dato a chi non può. Il fatto culturale è, come dire, incidentale, un semplice pretesto che però dà il giusto gradi di prestigio e un una spolverata di intellettualismo che non fa mai male. Certo, a patto che la cultura non diventi il volano per qualche alzata di testa.
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