sacrifici

Le avvisaglie c'erano. C'erano in Marx, c'erano in Marcuse, in Camus, in Baudrillard. C'erano persino in Stirner. Il pasticcio è avviato da tempo, il dardo è stato sparato nel vuoto dell'aria da un secolo e mezzo, forse di più. Ma tocca ai viventi di oggi offrire il petto: dopo la democrazia, la democrazia economica. Un po' meno democratica, un po' più autoritaria.
Sono i numeri a governarci, perché noi siamo numeri, siamo l'anagrafe, siamo il conto in banca, siamo la nostra collocazione sociale. Sembrano banalità, in realtà è solo la più grossa capitolazione a cui il progresso abbia mai dovuto assistere; non più un dispotismo identificabile, ma un surrogato in giacca e cravatta, armato di tabelle, di dati, di cifre. (Detto tra parentesi, niente è meno oggettivo di una cifra, di questi tempi, ognuno ha le sue statistiche in tasca e la sua verità inconfutabile a portata di mano).
Non c'è un vero colpevole, anzi c'è, la Necessità. L'Ananke dei Greci, suprema entità che tutto governa. Si fa così perché non si può fare altrimenti: è la nuova parola d'ordine, insieme ad un altro concetto, anche qui ripetuto allo sfinimento, come tutti i diktat: sacrifici. Niente come un discorso detto in malafede sa produrre slogan. La democrazia è anche alternativa, ma Ananke la cancella, rendendo la via d'uscita una strada obbligata, dotata dell'unicità che è prerogativa delle dittature.
Quella dell'economia odierna è una forma di violenza, una sorta di barbarie di ritorno che solo un linguaggio corrotto e in malafede come il nostro poteva digerire e metabolizzare sotto forma di questi slogan ipocriti. Come diceva Marcuse, appunto, la produttività che dovrebbe migliorare la vita dell'individuo viene rivolta contro l'individuo per diventare "strumento di controllo universale".
Non siamo forse a questo punto? Ossia ad una realtà deformata a tal punto da autoproclamarsi Ananke, unica possibilità?
Ma a ben vedere, il mondo non sta in quelle cifre e in quelle oscenità anglofone che ci sono state vomitate addosso (spread e compagnia). Il male oscuro che grava sulle nostre teste e che nessun tecnicismo è in grado di occultare, è la realtà reale: il razzismo, la precarietà dell'esistenza, l'impossibilità di avere figli per ragioni economiche, l'istupidimento di massa, la morte che si approssima mentre un uomo non è più padrone né di sé né del proprio tempo.
E così il tecnichese, la perversione della tecnica che da strumento diventa autorità, non ha più limite, non ha più referente, non ha più l'uomo come termine ultimo. Forse è questa l'estrema conseguenza dell'aver abbandonato il pensiero come forma suprema di morale (la morale non è solo questione di patta), ma questo è decisamente un altro discorso. Per ora assistiamo a quella che Galimberti chiama l'emancipazione della tecnica: dal significato morale, dalla politica, perfino dall'utilità in senso stretto.
Quelli che straparlano di "bene comune" mi piacerebbe sapere che cosa intendono esattamente, specie nel momento in cui appoggiano, più o meno dichiaratamente, la deriva dell'uomo da se stesso.

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