Inutile tentare di definire questo Giocatore di Dostoevskij, inutile davvero. De - finire equivale a de - limitare e quindi ad attenuare, impunemente, la carica ambigua di questo racconto lungo. Non tento nemmeno di spiegarne la trama: sta tutta nel titolo. Il giocatore è un impasto di temi autobiografici e di spunti di riflessione, più le note e mai banali considerazioni dell'autore sui temi tanto amati: colpa, punizione, fato, vizio, impossibilità di andare oltre se stessi. Il giocatore gioca, e basta. Non ci sono filtri dialettici tra la febbre dell'azzardo e la sua razionalizzazione, per il semplice motivo che nella mente di chi punta tutto su un colore qualsiasi barriera culturale, morale, razionale è crollata, è passata in secondo piano, assorbita da una febbre che divora qualsiasi volontà. C'è molto di personale in questo racconto. Ci sono ossessioni, coazioni a ripetere, turbe mentali, abbandoni. C'è tutto Dostoevskij condensato in un numero di pagine per lui stranamente esiguo. Almeno a questa economia di parole c'è una spiegazione: l'autore era rimasto vittima di una condizione editoriale particolare, per cui si era visto costretto a confezionare un romanzo breve entro una certa data. Ce la fece, ricorrendo ad una giovane stenografa (che poi sposerà, ma tu guarda) e senza interrompere la stesura del lavoro che davvero gli stava a cuore: Delitto e castigo. Non so se lo scrisse tanto per fare, non credo, ma sta di fatto che una certa fretta il povero Fëdor doveva pure avercela, come si evince da un impianto narrativo un po' sparpagliato, dove la necessità di dire tutto porta la penna a improvvise variazioni temporali e a economie descrittive insolite per un romanziere russo. Ciò che ci resta è un grande capolavoro. Distante da noi, sia per scrittura che per umore, ma ancora vicino per certe ossessioni che, fatte le dovute proporzioni, ancora albergano nella nostra società. Prima di Freud, prima della psicologia da pomeriggio televisivo. A monte delle nostre paure.
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