Circola una massima nel linguaggio comune: meglio non conoscere di persona i propri miti. Si potrebbe allargare il concetto: meglio non leggere le loro interviste. E' l'idea che mi è balenata addentrandomi in Incontri alla fine del mondo, fluviale libro intervista in cui Werner Herzog parla di sé e del proprio lavoro. Da un punto di vista strettamente personale non ho potuto fare a meno di avvertire un solco profondo tra l'idea che mi ero fatto di lui - tramite film e diari di viaggio - e le sue parole in presa diretta. Sono due persone complementari, ma distanti. Uno è un conoscitore della vita nelle sue pieghe più estreme, l'altro, quello che emerge dal libro, un signore un po' ossessionato e candidamente digiuno di cinema. Da una parte il regista di Aguirre, Fitzcarraldo e Kaspar Hauser, dall'altro un suo alter ego tendente all'ottusità, imbrigliato nella difesa a oltranza di una propria ideologia. Si avverte quasi un brivido leggendo questi Incontri: non c'è vita nelle parole di Herzog, ma una sua rivisitazione parodica. Troppe esagerazioni, troppe sbruffonate, troppa, improbabile paccottiglia. Il racconto che Herzog fa di sé è una sequela di avvenimenti estremi e compiaciuti, vissuti tutti con eccezionale superficialità, come se l'importante fosse andare più che capire, e il movimento stesso costituisse una ragione esistenziale sufficiente, a scapito di ogni riflessione. Un gigantesco ma poco socratico "non so" aleggia inquietante su ogni episodio, che il regista tedesco rievoca con sprezzante superbia, ma, soprattutto, con un tasso di miopia davvero sorprendente: così come mi fido poco di uno scrittore che non legge, diffido anche di un regista che non vede film. Anzi, di più: che non riconosce film a parte i suoi, che non riconosce altri metodi validi a parte il suo. Cattivo anche il montaggio verbale delle risposte: ridondanti e abnormi, saggi nel saggio, dove viene accorpato di tutto di più, alla faccia di ogni sintesi. Peccato perché nelle altre proposte di questa collana (targata Minimum Fax Cinema) come quelle dedicate a Woody Allen e a Orson Welles, si respira un'altra aria. Il gioco, insomma, riesce. Qui, no. Non so se la colpa sia l'infelice confezione editoriale o se piuttosto non si tratti di un limite tutto herzoghiano a capire gli altri e a farsi capire.
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