NUOVO ARTICOLO PER READER'S BENCH
make up art
lunedì 29 agosto 2011
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Di tutti i filoni strampalati e i sottogeneri d'occasione, la novità più prepotente e al tempo stesso più tremenda che si approssima con la ripartenza delle attività editoriali è la manualistica da cosmesi. Trucchi e parrucchi alla ribalta. A farne l'elogio, volti pescati dal web, giovani guru dell'impiastro. Le parole, nella loro macchinazione più deviata e perversa, sono giunte in aiuto ancora una volta, con un'infornata di suoni privi di semantica da appiccicare al fenomeno: make up art, glamour, femminilità, cura di sé. Nell'intasamento generale del mercato editoriale, nella confusione ormai programmatica dei contenuti, il filone make up occupa uno spazio paradigmatico, eccezionalmente esemplare del momento che stiamo attraversando, con una vasta gamma di luoghi comuni da servire al pubblico dei lettori: il ritorno al vuoto pneumatico, la pericolosa e cialtronesca sovrapposizione femminilità/trucco, il sistematico ricorso alla cazzata (nell'accezione tecnica di non sense) come grande mezzo di depistaggio e dimenticanza. Ci sarebbero cose più gravi e ponderose da affrontare, ma questa incontrollata, piccola deriva di senso, mi è sembrata un segnale: è proprio così, e non c'è niente da fare, siamo condannati. Perché se case editrici di grosso lignaggio decidono di spendere soldi in questo campo significa che già prevedono degli utili, e gli utili sono rappresentati dai lettori. Che comprano, e presumibilmente approvano. E quindi ogni battaglia è persa: hanno vinto loro. Loro chi? Ma loro, no? I produttori di niente, il frivolo, il di più, l'inessenziale. Una delle grandi trovate pubblicitarie degli ultimi cinquant'anni è stata proprio questa: rendere necessario l'inutile, o, come si sarebbe detto qualche anno fa, creare il bisogno. Inutile che c'è sempre stato, ma che ora, soprattutto a partire dagli anni zero, si è mimetizzato a tal punto da essere invisibile, da essere in noi.
viale Ceccarini
domenica 28 agosto 2011
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Ariberto Terragni
In questo agosto caldo e frastornato è andato a Riccione, dopo sei anni in cui è accaduto praticamente di tutto. E lui è ancora lì. Stavolta dalla parte opposta della città, non più nelle retrovie delle pensioni di poche pretese ma nell'avanguardia frontemare, nella compagine prelibata e zuccherina di questa specie di perenne festa mobile, fatta di cordialità e chiasso, famiglie in trasferta e gioventù ingorda di rumore e vita. E' rimasto lì, tra la sabbia e il verde dell'Adriatico. Ha parcheggiato la macchina sotto i pini marittimi e ha ripensato a quando, anni prima, aveva invece preso il treno. E' tornato sui suoi passi, nel mitico viale Ceccarini, dove niente sembra cambiato, ma è solo un'impressione: sotto le luci tonanti delle insegne pubblicitarie e lo sfavillio delle vetrine, la vita ha mosso i suoi passi. Il lento fiume ha trascinato a valle un po' di detriti, un po' di umanità. Ha cercato invano la stupenda libreria dove sei anni prima aveva acquistato l'Ulisse di Joyce, ma non l'ha trovata. Scomparsa, come sabbia dalla clessidra. Non l'ha presa bene. In compenso i vecchi pini marittimi sono ancora al loro posto, testimoni di quattro o cinque decenni di mutamenti psicologici, sociologici e anche economici. La riviera continua la sua esistenza, in una partita a carte truccate che può lasciare indifferente il turista, ma non il viaggiatore di passaggio. I tandem, i risciò, le biciclette sgomitano per trovare una fessura attraverso cui passare; i locali traboccano; ragazzini trascinano i genitori in una delle numerose sale giochi; la zingara legge la mano; la donna di colore intreccia i capelli di una ragazza bionda. Lui si è seduto su un muretto e ha aspettato. C'era il tipico odore di umanità satura, di sangue, di vitalità prepotente. Si è sentito allo stesso tempo distante e invischiato in quello spaventoso brodo emotivo. Fuori dalla cerchia cittadina si apre l'oceano di discoteche, giostre, e ancora discoteche. Le vie di raccordo sono lingue polverose ricoperte da un leggero velo sabbioso, terre di nessuno dove sfrecciano le auto notturne, in cerca di altre luci. Luci. Luci.
Herzog contro Herzog
giovedì 18 agosto 2011
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Ariberto Terragni
Circola una massima nel linguaggio comune: meglio non conoscere di persona i propri miti. Si potrebbe allargare il concetto: meglio non leggere le loro interviste. E' l'idea che mi è balenata addentrandomi in Incontri alla fine del mondo, fluviale libro intervista in cui Werner Herzog parla di sé e del proprio lavoro. Da un punto di vista strettamente personale non ho potuto fare a meno di avvertire un solco profondo tra l'idea che mi ero fatto di lui - tramite film e diari di viaggio - e le sue parole in presa diretta. Sono due persone complementari, ma distanti. Uno è un conoscitore della vita nelle sue pieghe più estreme, l'altro, quello che emerge dal libro, un signore un po' ossessionato e candidamente digiuno di cinema. Da una parte il regista di Aguirre, Fitzcarraldo e Kaspar Hauser, dall'altro un suo alter ego tendente all'ottusità, imbrigliato nella difesa a oltranza di una propria ideologia. Si avverte quasi un brivido leggendo questi Incontri: non c'è vita nelle parole di Herzog, ma una sua rivisitazione parodica. Troppe esagerazioni, troppe sbruffonate, troppa, improbabile paccottiglia. Il racconto che Herzog fa di sé è una sequela di avvenimenti estremi e compiaciuti, vissuti tutti con eccezionale superficialità, come se l'importante fosse andare più che capire, e il movimento stesso costituisse una ragione esistenziale sufficiente, a scapito di ogni riflessione. Un gigantesco ma poco socratico "non so" aleggia inquietante su ogni episodio, che il regista tedesco rievoca con sprezzante superbia, ma, soprattutto, con un tasso di miopia davvero sorprendente: così come mi fido poco di uno scrittore che non legge, diffido anche di un regista che non vede film. Anzi, di più: che non riconosce film a parte i suoi, che non riconosce altri metodi validi a parte il suo. Cattivo anche il montaggio verbale delle risposte: ridondanti e abnormi, saggi nel saggio, dove viene accorpato di tutto di più, alla faccia di ogni sintesi. Peccato perché nelle altre proposte di questa collana (targata Minimum Fax Cinema) come quelle dedicate a Woody Allen e a Orson Welles, si respira un'altra aria. Il gioco, insomma, riesce. Qui, no. Non so se la colpa sia l'infelice confezione editoriale o se piuttosto non si tratti di un limite tutto herzoghiano a capire gli altri e a farsi capire.
quel giocatore di Dostoevskij
giovedì 11 agosto 2011
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Ariberto Terragni
Inutile tentare di definire questo Giocatore di Dostoevskij, inutile davvero. De - finire equivale a de - limitare e quindi ad attenuare, impunemente, la carica ambigua di questo racconto lungo. Non tento nemmeno di spiegarne la trama: sta tutta nel titolo. Il giocatore è un impasto di temi autobiografici e di spunti di riflessione, più le note e mai banali considerazioni dell'autore sui temi tanto amati: colpa, punizione, fato, vizio, impossibilità di andare oltre se stessi. Il giocatore gioca, e basta. Non ci sono filtri dialettici tra la febbre dell'azzardo e la sua razionalizzazione, per il semplice motivo che nella mente di chi punta tutto su un colore qualsiasi barriera culturale, morale, razionale è crollata, è passata in secondo piano, assorbita da una febbre che divora qualsiasi volontà. C'è molto di personale in questo racconto. Ci sono ossessioni, coazioni a ripetere, turbe mentali, abbandoni. C'è tutto Dostoevskij condensato in un numero di pagine per lui stranamente esiguo. Almeno a questa economia di parole c'è una spiegazione: l'autore era rimasto vittima di una condizione editoriale particolare, per cui si era visto costretto a confezionare un romanzo breve entro una certa data. Ce la fece, ricorrendo ad una giovane stenografa (che poi sposerà, ma tu guarda) e senza interrompere la stesura del lavoro che davvero gli stava a cuore: Delitto e castigo. Non so se lo scrisse tanto per fare, non credo, ma sta di fatto che una certa fretta il povero Fëdor doveva pure avercela, come si evince da un impianto narrativo un po' sparpagliato, dove la necessità di dire tutto porta la penna a improvvise variazioni temporali e a economie descrittive insolite per un romanziere russo. Ciò che ci resta è un grande capolavoro. Distante da noi, sia per scrittura che per umore, ma ancora vicino per certe ossessioni che, fatte le dovute proporzioni, ancora albergano nella nostra società. Prima di Freud, prima della psicologia da pomeriggio televisivo. A monte delle nostre paure.
un bersaglio chiamato Ernest Hemingway
lunedì 8 agosto 2011
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Ariberto Terragni
Nel cinquantenario della scomparsa, vicescrittori e critici d'agosto si divertono a tirare al piccione contro Ernest Hemingway. Gli concedono poco: un paio di buoni romanzi, qualche aneddoto e così sia. Negli articoli che ho letto in questi giorni stanno cercando un po' tutti di denigrarlo. "Non era poi così grande, era un cacciapalle, non ha inventato niente, era un vecchio ubriacone paranoico". E' una gara a ridimensionarlo, come dire che ci sia qualcuno, tra i critici di oggi, che abbia i mezzi per poterlo fare. Io non mi stupisco più di tanto. O per meglio dire, non ho voglia di farlo. D'altra parte sono stati e sono innumerevoli i parassiti che si sono aggrappati alla carcassa di Hemingway: una pletora di gente senz'arte né parte che ha provato a vivere di rendita sulle sue spalle. Critici, mogli, amanti vere e presunte, falsi amici, scrittori della domenica: un esercito di comprimari che ha salassato il mito, in parte inventandolo di sana pianta, in parte spremendolo come un limone. E in questo gioco al massacro l'unica vera, grande vittima è stata proprio lui, Ernest. Non è nemmeno una vergogna, è semplicemente una cosa losca, di infimo cabotaggio, una bega tra invidiosi rinfocolata dai pennaioli parcheggiati nelle redazioni dei giornali e da un pubblico - soprattutto letterario in questo caso - che non si stanca mai dei finti scandali. D'altra parte, questa tecnica è stata usata, con le dovute differenze, anche con Alberto Moravia. Ma forse possiamo provare ad allargare il concetto, affermando con una certa sicurezza che tutti i grandi artisti hanno subito un trattamento simile, in una sorta di accanimento post mortem che lascia sconcertati, e atterriti. Si può anzi individuare nella gogna postuma, nello scandaglio impietoso e ipocrita, un qualche titolo di merito. Se un mediocre è archiviabile come mediocre sub specie aeternitatis, un grande è continuamente oggetto di critica e revisione. Quello di Hem è un destino. Ingrato, forse, ma di certo in linea con il personaggio. Scoccia, ma niente di più, vederlo messo sotto processo da giudici tanto piccoli, ma anche questo rientra nella materia scomoda e un po' sconcia di cui sopra. Sarebbe più semplice dire che è stato un grande scrittore - uno dei più grandi di sempre - e che vivere secondo un concetto di sé non è una colpa, ma un tentativo, uno dei tanti che noi tutti intraprendiamo, uno dei pochi che talvolta vengano concessi, di esistere con coerenza. A dirlo si passa quasi per complici. Ben venga.
l'inutile
domenica 7 agosto 2011
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Ariberto Terragni
A me della vita privata di Federica Pellegrini, campionessa di nuoto, frega niente. Eppure so che ha avuto una storia con un nuotatore che prima stava con una nuotatrice francese; so che ora ha lasciato questo nuotatore per mettersi con un altro; so che ha partecipato ad un party sfarzoso e vipparolo per festeggiare il suo compleanno. Non solo so pur essendone sostanzialmente disinteressato, ma ne scrivo anche. C'è quanto basta per parlare di patologia. Mia, forse, ma anche, e soprattutto, di un sistema informativo fuori controllo, insinuante, insidioso, pervicace al punto da infiltrarsi nella vita di tutti i giorni per condirla con queste non notizie. Il fatto che io sia disinteressato alla vita privata di una nuotatrice (e in fin dei conti alla nuotatrice stessa) non conta più nulla: il meccanismo perverso ha già provveduto a informarmi, anche attraverso quei canali che meno di altri dovrebbero concedere spazio al pattume. Compresi giornali che ritengo più seri di altri. E' un processo lento, ma capillare, dove l'inutile ha un po' alla volta eroso spazio all'utile, sostituendosi, creando una narrazione parallela, e convincendoci infine che quella dimensione patinata ed effimera abbia a che fare anche con noi, che in qualche modo ci riguardi. Specie con le menti più semplici, il giochetto è riuscito spesse volte. A me resta sempre un dubbio fatidico però: dove finisce la domanda della gente e dove inizia piuttosto lo strapotere dei media, strapotere sempre più focalizzato sullo smembramento dei contenuti e sull'esaltazione del nulla? C'è anche un altro dubbio. Marginale, come in fondo è questo post. Una ragazza di 23 anni ha davvero sotto controllo la giostra su cui è salita o forse è solo la vittima complice di un gioco infinitamente squallido ma allo stesso tempo infinitamente forte?
una nostalgia
giovedì 4 agosto 2011
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Ariberto Terragni
Qui a Selva Val Gardena, dove mi trovo ora, c’è un’edicola/libreria/bazar a cui sono legato in modo particolare. Quando ero bambino qui mi rifornivo di fumetti, non che fossi un grande appassionato (Tex Willer, Topolino, qualche raro numero di Dylan Dog e Nik Raider sparpagliati nell’arco dell’anno) ma in questa edicola c’erano scaffali e scaffali traboccanti di copertine colorate, pubblicazioni speciali, almanacchi e quant’altro. Più le sconosciute copertine tedesche, supereroi dai nomi strani, personaggi sconosciuti nel resto d’Italia, eroi dal linguaggio diverso ma dai modi consueti che non era difficile prendere in simpatia. Insomma, anche per uno non particolarmente interessato era difficile sottrarsi al fascino delle nuvole parlanti. Sono passati un po’ di anni. Quindici, venti. Lo spazio dedicato al fumetto si è progressivamente ridotto fino ad oggi: quando sono entrato per prendere il giornale, stamani, mi sono accorto che la mitica jungla di copertine era ridotta ormai ad una striminzita riserva indiana: una misera mensola su cui erano accatastati alla rinfusa vecchi albi di Alan Ford e Diabolic. Al posto di tutte le pubblicazioni di un tempo ora si trovano libri di cucina regionale, cartine, percorsi enogastronomici. Nel giro di un arco di tempo relativamente breve il fumetto è morto. Lo avevo già notato un po’, ma è solo stamattina che ne ho preso coscienza in modo definitivo, osservando l’assenza fisica di ciò che è stato il passatempo principe per eccellenza di generazioni. La mia compresa. Può sembrare un episodio marginale, ma secondo me non lo è. Siamo di fronte ad un sintomo, di che cosa non lo so ancora di preciso. Di sicuro si è consumato, nel corso degli ultimi dieci, quindici anni, un passaggio più o meno radicale, e in definitiva si è varcato un punto di non ritorno. Il filo sottile – emotivo, sociale e in ultimo culturale – che teneva unite le generazioni precedenti, se non altro nella forma indefinita e precaria dell’infanzia, si è liso un altro poco. Niente di drammatico, niente di epocale. Ma nonostante la mia età ancora giovane e il fatto di non essere un particolare cultore della materia, mi sento un po’ più solo. I motivi sono tanti. Il primo che mi viene in mente è che la tradizione fumettistica italiana e in senso lato europea mi sembra più genuina e sana dei manga di importazione, che, non lo nascondo, mi sono sempre suonati sospetti, distanti da me e dal mio mondo. Meglio una cavalcata nella prateria con Tex.
sonno d'agosto
martedì 2 agosto 2011
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Ariberto Terragni
Chiamiamolo grande sonno. O Pausa di riflessione, o come ci pare. La temperie politica italiana cade nel letargo agostano, che poi è il letargo di tutta una vita, o per meglio dire l’anestesia programmatica che avvolge e ammansisce l’opinione pubblica in attesa del prossimo scandalo, del prossimo colpo di teatro. Ci dimentichiamo tutto, e nel giro di pochi giorni. Vabbé che una volta la carta di giornale serviva per avvolgere l’insalata, ma ora siamo molto oltre. Dove viviamo? Chissà. I famosi media si guardano bene dal dircelo. La realtà è sempre quella, ma senza il pungolo di qualche polemica non c’è quasi gusto a parlarne. Il declino economico del paese è allo stadio avanzato, il nostro impresentabile premier sempre al suo posto. Ha vinto lui. Lo sapeva, che sarebbe andata a finire così: in nulla. Per i processi c’è sempre tempo, per le magagne varie ed eventuali, stesso discorso. La vita va avanti, tra un salotto televisivo a basso costo e le ferie che incombono. Tra parentesi: ma come mai tutti piangono miseria e i suv e gli smartphone dilagano nei garage e nelle tasche della gioventù italiana? Vallo a sapere. Ma dicevo: è solo questione di tempo e si tornerà a parlare di qualche intrallazzo di potere e di qualche gioco sporco, ma per poco. Ci siamo assuefatti a questo tira e molla, e il sospetto è che nulla possa smuovere l’opinione pubblica quel tanto che basta per svoltare, una buona volta. Solo un paio di mesi fa sembravamo sul punto di fare la rivoluzione: elezioni amministrative e referendum, l’accoppiata che avrebbe mandato al tappeto anche un elefante. E invece no. Siamo qui, ad agosto. Più poveri di prima ma anche più indifesi di prima. Di chi è la colpa? Ci guardiamo in faccia. Sarà mia? Sarà tua? Il premier intanto è sempre là, bello (si fa per dire) come il sole, la sua corte dei miracoli, idem. Anche noi siamo sempre qui, in qualche modo.