Macno di Andrea De Carlo potrebbe essere descritto, in linea di massima, come il tipico romanzo anni 80: ne risente in termini di ambientazione, umore complessivo, linguaggio. La storia è presto detta: in una sorta di presente alternativo, un guru televisivo giovane e carismatico prende il potere e instaura un regime populista basato su talune sue visioni politiche mai meglio specificate. La realtà si incarica ben presto di mandare a monte le sofferte meditazioni del povero Macno, minandone la credibilità e infine riducendolo a sultano isolato nella sua bolla d'oro, circondato da adulatori e ninfe. In questo quadro di decadenza si inserisce una giovane giornalista tedesca con cui questa specie di leader postmoderno intreccia una relazione che non si capisce bene quali conseguenze potrà avere. Qualcuno ha scritto che De Carlo è un abilissimo narratore del nulla: in questo caso se non siamo vicini dalla verità poco ci manca. La storia si barcamena tra dialoghi pretestuosi e vaneggiamenti di politica spicciola, scenari da villaggio vacanza e personaggi da hall di un albergo: la letteratura proposta da Macno è in fondo questo pacchetto turistico tutto compreso, dove al modico prezzo di duecento pagine tirate per i capelli si può accedere a questo non luogo isterico ma bene educato in cui i personaggi non fanno che vagare da una festa all'altra sorseggiando drink e raccontandosi il vuoto. Parecchi anni fa lessi Di noi tre, dello stesso autore. Non so se le circostanze particolari in cui ciò avvenne o la mia visione possibilista di allora mi indussero a ritenerlo un buon romanzo. Macno no, non è un buon romanzo. Parte da uno spunto tutto sommato originale per l'epoca (siamo nella prima metà degli anni Ottanta) come il ritratto di un guru mediatico che raggiunge il potere grazie all'aria fritta e qualunquista della televisione per poi fermarsi alla superficie, e navigare a vista fino al mesto e quasi incomprensibile finale. I personaggi emergono qua e là, poco strutturati, o viceversa caricati di dettagli esasperati che li rendono più simili ad una parodia, non sempre convincenti sotto l'aspetto psicologico e ancora meno sotto quello narrativo, spesso vacui quasi mai utili ai fini della storia. E su tutti Macno: prosatore satinato, affabulatore alla deriva, specchio suo malgrado dell'epoca del riflusso, e di un pensiero che più che debole in lui diventa insulso, qualunquista, a metà tra una demagogia da soap opera e il soliloquio di un cattivo teatro di prosa. Difficile dire quali ambizioni nutrisse questo romanzo. A giudicare dal plot, pochissime. La storia sentimentale in cui tutto si risolve è a dir poco una banalizzazione, i richiami all'Italia paninara troppo vicini al luogo comune per essere presi sul serio.
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