Senza scomodare la famosa categoria ipotizzata da Calvino, potremmo dire che è la leggerezza il tratto fondamentale della politica italiana in questo momento, ma forse in tutti i momenti da decenni a questa parte. Leggerezza nel fare e disfare leggi, leggerezza nelle pratiche affaristiche, leggerezza nel farsi i fatti propri a spese della collettività; leggerezza nel promettere l'irrealizzabile. Leggerezza nel dispensare frottole. Leggerezza nel passare da una parte all'altra degli schieramenti, con buona pace della sacralità del voto popolare, categoria fumosa quanto basta da poter essere usata solo in caso di convenienza. Leggero è anche un elettorato che vota un presidente come questo salvo poi meravigliarsi (al terzo mandato, sottolineo terzo) che questo signore abbia in mente solo il mantenimento delle sue fortune, e che in sedici anni di politica, di cui una decina buona di governo, non abbia realizzato quasi niente dei programmi che millantava in tv. Fino a qualche anno fa mi dicevo: che altro deve succedere perché la classe politica si rinnovi? Beh, ho scoperto che il contatore è illimitato: può succedere di tutto, e tutto è ancora niente. Scandali sessuali, dissesti finanziari, battute di ogni genere e risma, non contano nulla. Gli Italiani perdonano, anzi, meglio: dimenticano. Non siamo un popolo che fa rivoluzioni, in fondo, non ne abbiamo mai fatte. Abbiamo subito, ci siamo arrangiati e, al dunque, ma proprio al limite del collasso, abbiamo dato una mano a qualche liberatore a dare un calcio all'ancien régime, più per compiacere i nuovi padroni che per senso civico. Salvo poi cadere nella nostalgia: in quanti oggi rimpiangono la defunta Dc? Quanti il Fascio? Quanti vogliono riabilitare la tragica esperienza craxiana? I nostri rappresentanti non sono poi molto peggio del popolo che li ha eletti: sono la sua esatta continuazione. I giochi di potere, gli accordi sottobanco, le metempsicosi politiche sono solo l'aspetto visibile di un sistema marcio che non ha mai fatto nulla per riformarsi davvero: un sistema politico classista e furbesco che è lo specchio esatto della società che lo ha espresso.
crime story slam
martedì 28 settembre 2010
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Ariberto Terragni
Grazie alla valutazione della giuria di qualità, parteciperò alla fase finale di Crime Story Slam, una rassegna letteraria molto particolare, forse non proprio nelle mie corde (il tema è il racconto giallo) ma a cui sono felice di poter partecipare.
Per chi volesse venire all'incontro, la fase finale della manifestazione avverrà:
DOMENICA, 10 OTTOBRE
ore 14.00
ore 14.00
PRESSO VILLA GREPPI, MONTICELLO BRIANZA (LC)
VIA MONTE GRAPPA 21
Di seguito i dettagli della selezione. Grazie a tutti coloro che interverranno.
CRIME STORY SLAM:
I 15 FINALISTI
La giuria composta da Elisabetta Bucciarelli (scrittrice), Laura Crippa (libraia), Patrick Fogli (scrittore), Silvia Peruch (rappresentante La passione per il delitto), Cecilia Scerbanenco (traduttrice ed editor), Carmela Tandurella (libraia) e Franca Villa (libraia) ha votato i 15 racconti finalisti.
Ogni giurato ha ricevuto i 40 racconti in gara in forma anonima, connotati solo da un numero progressivo e dal titolo, ed ha attribuito 1, 3, 5, 7 e 9 voti. La classifica è il risultato della somma dei voti attribuiti ad ogni racconto.
Per i quattro racconti che hanno ottenuto a pari merito 29 punti, si è reso necessario un'ulteriore votazione, con gli stessi criteri di punteggio, il cui risultato è segnalato tra parentesi.
I finalisti si affronteranno a Villa Greppi domenica 10 ottobre alle 14.30, divisi in tre batterie da 5 elementi, e leggeranno i loro scritti davanti al pubblico, che voterà in diretta scegliendo il vincitore assoluto.
Arbitro di gara Eugenio Canton.
Vi ricordiamo che i finalisti dovranno essere presenti per la gara finale domenica 10 ottobre alle 14.30, o in alternativa qualcuno in loro rappresentanza che legga il racconto. Ogni lettura può essere accompagnata da musiche (purché svincolate da obblighi Siae e con organizzazione dell'impianto a cura dell'autore del racconto), fatte leggere da attori o corredate di scenografie, il tutto a cura degli autori. I dettagli sono sul sito internet www.lapassioneperildelitto.it
In caso di rinuncia vi chiediamo cortesemente di comunicarlo al più presto, per fare accedere alla gara i concorrenti che si sono classificati nelle posizioni successive. Il giorno della finale, se qualche finalista fosse comunque assente anche senza aver avvisato preventivamente, parteciperanno alla gara i concorrenti presenti a partire dalla 16^ posizione, in ordine di classifica, fino al raggiungimento dei 15 candidati.
I 15 FINALISTI:
1. Elena Grebaz, Odio il lunedì, punti 51
2. Stefano Sgambati, Novembre '75, punti 47
3. Ariberto Terragni, La stanza chiusa, punti 45
4. Emma Lo Duca, L'ammazzaru, punti 45
5. Emanuele Piccinini e Davide Borgna, Punto di svolta, punti 39
6. Toni Marsiglia, Luoghi comuni della memoria, punti 39
7. Marco Proserpio, Laura, punti 39
8. Marisa Ferri, Gardenia, punti 37
9. Paolo Pasi, Hanno ammazzato la Befana, punti 35
10. Giancarlo Montalbini, Delitto espresso, punti 35
11. Nicoletta Longoni, Notte di San Lorenzo, punti 33
12. Michele Amedeo, Il burrone, punti 33
13. Nicoletta Sipos, Signor giudice, la prego, punti 33
14. Alessandro Manzetti, Il posto nero, punti 29 (35 allo spareggio)
15. Angela Paternò, Giustizia immediata, punti 29 (34 allo spareggio)
LA CLASSIFICA DEGLI ALTRI RACCONTI IN GARA:
16. Cinque minuti, punti 29 (33 allo spareggio)
17. Ologrammi, punti 29 (21 allo spareggio)
18. C'è un tempo, punti 27
19. ‘a spiaggia, punti 27
20. Colleghi, punti 27
21. Il male, punti 26
22. Il mondo è pieno di pazzi, punti 25
23. Drugs, lost between monkey and kangaroo, punti 25
24. Delitto all'happy hour, punti 25
25. La piramide di Roma, punti 23
26. La spaventosa nottata, punti 23
27. Duetto bebop per spilla, punti 23
28. Ex, punti 23
29. Federica, punti 21
30. La tesi di laurea, punti 21
31. Giorno di paga, punti 21
32. La vendetta dei robot, punti 19
33. Non mi sono sbagliato!, punti 17
34. Sposerò Simon Le Bon, punti 17
35. Double face!, punti 17
36. Il giovane perseguitato, 17
37. La croce nel cielo, punti 15
38. La terrificante creatura di metallo, punti 13
39. Un chitarrista…, punti 11
40. Accidenti, punti 9
il partito utopico
sabato 25 settembre 2010
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Ariberto Terragni
Ho appreso in questi giorni la triste fine che ha fatto l'Avanti!, storico quotidiano socialista finito di nuovo al centro delle cronache in margine allo squallido "affaire Tulliani". Una fine che, nella sua esemplare e tremenda banalità, spiega meglio di tante analisi i perché e i percome del tracollo del Partito Socialista Italiano, o se vogliamo la sua macroscopica anomalia, visto che siamo credo l'unico paese al mondo in cui le ceneri del socialismo (nelle vesti di alcuni suoi discutibili rappresentanti) sono finite sotto l'ala del più conservatore, reazionario e autoritario governo che la storia repubblicana abbia mai registrato. Siamo riusciti ad inventarci un socialismo liberalismo capitalistico autoritario, e di destra per giunta. Un capolavoro. In quest'ottica, dopo lo sgomento iniziale, non mi ha nemmeno stupito più di tanto che anche il povero Avanti! sia finito nelle tasche del padrone, fagocitato dalla brama di possesso che agita quest'uomo anche al di là di ogni logica: che c'entra la sua linea di pensiero (chiamiamola così) con le idee socialiste? Se pensiamo ad alcune figure di socialisti (Matteotti, i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini etc) il contrasto è non solo stridente, ma inconciliabile. Solo in una democrazia affranta, esanime e in definitiva incompiuta poteva consumarsi questo disastro ideologico, questa contraddizione tanto più immane quanto meno avvertita come tale: chi, in fondo, considera un problema politico il fatto che il populismo mediatico di Berlusconi abbia assimilato il socialismo italiano? La questione affonda le sue sordide origini nell'era craxiana, che del socialismo diede, diciamo così, una sua interpretazione originale, e va bene, siamo tutti d'accordo. Ma se le parole hanno un senso, il termine "socialismo" ha un suo etimo ben preciso, motivato da ragioni non solo semantiche, ma soprattutto storiche e politiche; un etimo che infatti ha trovato la sua collocazione politica esatta in tutti i paesi d'Europa. Tutti tranne il nostro, dove un Partito Socialista degno di questo nome infatti non c'è, e dove infatti anche l'opposizione alla deriva demagogica berlusconiana è stata blanda, inefficace, a tratti addirittura inesistente. Se ci fosse stato un Partito Socialista come quello tedesco o come quello francese che cosa sarebbe successo? Se tutto il patrimonio culturale e umano che il socialismo europeo ha rappresentato non fosse stato così miserabilmente disperso, come sarebbe andata a finire? E' l'interrogativo inquietante con cui molti di noi hanno a che fare sempre più spesso.
alma mater
giovedì 23 settembre 2010
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Ariberto Terragni
Cercheranno in ogni modo di vendercela come una bella cosa, ma a me le foto della mamma europarlamentare che vota con la figlia neonata fasciata al petto mettono un po' di angoscia. Nel mio piccolo mondo retrogrado e maschilista il tentativo di far passare il messaggio "lavora con il figlio al seno" spaventa, e non mi pare un grosso passo avanti, ma l'aria che tira è questa: produci, e negli scampoli di tempo, se ci riesci, fatti una famiglia, se proprio sei bravo educa i figli. Ma sì, lo so che ormai è un mondo di mamme in carriera, così brave, così televisive, così audaci nel far tornare tutti i conti, ma, in fondo, sono triste lo stesso, non riesco a farmene una ragione. La vista di un neonato tenuto a forza nell'Europarlamento a mo' di slogan pubblicitario non è un fatto poi così edificante: specie alla luce delle possibilità economiche della madre, che preferisce con tutta evidenza l'esibizione alla discrezione, un po' come quelle dive imbellettate che mostrano il pancione sulle riviste patinate. Quelle foto sono la propaganda di un modo di intendere la maternità non più in chiave esclusiva, come dire: non smettere di produrre, non rinunciare alla carriera. La maternità è un inciampo, cerca di non farti fregare troppo. In un regime tecnocratico questo è ancora il meno: il bello deve ancora venire. Qualche anno fa gridavamo allo scandalo per una pubblicità che presentava una donna manager che allattava il pargolo durante un consiglio di amministrazione. Oggi no. Ma non diciamo che è caduto un tabù per favore. A crollare è solo la nostra soglia del pudore, che per una manciata di soldi, per uno scatto di carriera, per la logica del mercato, è disposta ormai a giustificare tutto. E poi dicono dei valori immutabili, e poi parlano di dignità, quando anche il solo fatto di mettere al mondo una creatura e crescerla è un lusso, un di più che possiamo ottenere solo grazie a compromessi.
sui generis
lunedì 20 settembre 2010
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Ariberto Terragni
Non risponderò più alla domanda:"Hai scritto un libro? Di che genere è?" Non risponderò più perché chi me lo chiede non è interessato alla risposta. Perché il problema del genere è serio, spaventosamente grosso. Intuitivamente però, anche la persona meno preparata, lo avverte come un'esigenza primaria, come se senza queste coordinate minime non fosse in grado di formulare un giudizio a priori. Credo che in fondo la ragione della richiesta sia un po' questa: entrare in contatto con il romanzo senza leggerlo, o leggerlo alla luce di un pre-giudizio. Il problema è che io non mi occupo, o non mi occupo ancora, di storie di "genere", come possono essere il fantasy, il giallo, lo horror, la fantascienza e via dicendo. Questi sono generi definiti, tipologie di romanzo e di storia che rispettano alcuni elementi ricorrenti, come l'omicidio nel giallo e il racconto di ultramondi nella fantascienza, e che sono riconoscibili grossomodo proprio grazie a queste cifre. Dico grossomodo perché nemmeno questa è una regola ferrea: ci sono gialli senza omicidi, fantascienza senza stazioni spaziali (penso al film Stalker di Andrej Tarkovskij). I racconti di Poe in quale casella vanno inseriti? Asimov era solo fantascienza? Ho provato a dare una risposta secca: i romanzi che ho scritto posso essere considerati esistenzialisti. Ma a parte la forma verbale già troppo elaborata per una formulazione orale, l'interlocutore non ha capito, ha ammiccato, glissato, è passato ad altre questioni più concrete (come "sì, sì, vabbé... e quanto costa?"). Il punto è che se uno fa una domanda dovrebbe avere anche il buon cuore, o forse solo la buona educazione, di ascoltare la risposta. Ma nemmeno questo è del tutto vero: una ipocrita, finta attenzione tante volte è più irritante di una plateale dimostrazione di volgarità. E poi possiamo anche dire, in tutta tranquillità, che il romanzo è un genere composito: vive di tante realtà, di tanti momenti che seguono la sua trama interna e i sommovimenti dei suoi personaggi. A meno di non voler parlare di un alieno che commette un omicidio nel regno delle fate, giusto per far contento l'uomo della strada, che così almeno avrà il suo contentino.
lettere
giovedì 16 settembre 2010
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Ariberto Terragni
Autori che mi vengono in mente alla rinfusa: Kafka, Proust, Calvino, Nietzsche... se ne potrebbero aggiungere molti altri. In comune, oltre a tutto ciò che facilmente si può intuire, c'è un altro elemento: sono intellettuali che conosciamo grazie forse più alle loro lettere, ai loro carteggi che non attraverso le loro opere. Sappiamo chi sono perché sono stati loro a raccontarcelo tramite i fitti intrecci di missive, corrispondenze incessanti con parenti e amici che chiarivano (forse anche a loro stessi) il senso delle proprie opere, le trame oscure che avevano lavorato dietro un certo progetto, le influenze storiche e quelle personali che avevano contribuito ad una certa visione del mondo piuttosto che ad un'altra. Le lettere. Questo è stato possibile fintanto che la corrispondenza cartacea non è passata nel solaio. Quello che pongo è un problema filologico: come sarà possibile per la critica di domani afferrare il senso degli autori di oggi? Difficile da dire. I carteggi Heidegger - Arendt, Marx -Engels di domani quali saranno? La posta elettronica fa perdere il senso della grafia, che è importante quasi quanto il senso letterario. La posta elettronica è a carattere prettamente commerciale, e quindi sintetico, fatta per comunicare dati che appartengono ad una sfera comunicativa quantitativa più che qualitativa. Ovviamente dipende dal genere di uso che se ne fa: di recente Bernard - Henri Lévy e Michel Houellebecq hanno provato ad aggiornare il genere epistolare con un libro, Nemici pubblici, che tenta un confronto intellettuale via mail. Ma mi sembra un caso isolato. Il problema è che le mail, oltre ad essere generalmente scritte di fretta e in qualche modo, finiscono invariabilmente nel cestino: non hanno peso, non hanno consistenza, non sono un oggetto concreto che entra a far parte del nostro patrimonio di ricordo ed esperienze. Quindi, esaurita la loro funzione comunicativa - commerciale, smettono di esistere, al pari della carta delle caramelle. Il problema, come sempre, non è la posta elettronica, che in sé è solo un bene: rapida, sicura, gratuita, ma l'uso che se ne fa, ormai impersonale appendice della parte meno comunicativa di noi stessi, priva di forma convenuta, senza alcun intento formale. Con un certo realismo potremmo arrivare a dire che la storia della letteratura, priva di carteggi, sarebbe menomata, una sorta di enunciazione senza premesse.
leoni d'oro
lunedì 13 settembre 2010
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Ariberto Terragni
Volevano Tarantino, lo volevano con tutte le loro forze. Lo hanno elogiato, osannato, lisciato. Forse per via dell'antico equivoco che vuole gli americani dal cognome italiano come dei mezzi parenti, quando questi qui dell'Italia non sanno un fico secco, non spicciano mezza parola e delle nostre contrade conoscono solo qualche tarantella, qualche pizza e bene che vada la Ferrari che gli marcisce in garage. Quando poi il Tarantino se ne è uscito con il suo elogio del cinema trash italiano anni settanta e ottanta, si salvi chi può: è diventato un semidio. Il tenue imbarazzo che tutti noi giustamente nutrivamo per quella stagione spensierata ma non proprio gloriosa, si è tramutato in oro colato. Il merito? Di Tarantino, Re Mida cinematografico, alto e goffo ciondolone dagli occhiali scuri al buio (orzaiolo?), fortunato cineasta con un'idea di cinema che spazia dallo horror allo splatter, mestierante della macchina da presa di poca cultura e grande astuzia che con poca spesa ha piantato le tende qui da noi. Che onore acciderboli. Sai che facciamo? Gli diamo la presidenza della giuria del Festival del cinema di Venezia, ma mica monopolizzerà la scelte convogliando i premi sui suoi amici e le sue fidanzate? Ma no, figurarsi. Lui premierebbe anche sua madre, ma a patto che il film gli piacesse sul serio. Appunto. Ha premiato l'amico e la ex morosa. All'unanimità, dice lui. Salvatores, in giuria anch'egli, dice di no, ma pazienza. Non sarà mica che della nostra ospitalità se ne sbatte e tutto quello che gli interessa sono i fatti suoi? Ma no, è un mezzo parente. Accetterà le critiche? Ma certo: in conferenza stampa mima una fellatio in direzione dei fischi, ma si sa: è un burlone che si è formato sui fumetti e su Ruggero Deodato. Festa finita, premi e premietti assegnati. Volevano Tarantino, lo hanno avuto, che non si lamentino adesso: lui ha fatto quello che sa fare.
ci pensi, signora
sabato 11 settembre 2010
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Ariberto Terragni
Il risultato forse più desolante di tanti e tanti anni di malgoverno è la straripante sfiducia nei confronti della politica che monta un po' in tutti gli strati della società. Comprensibile, ma fino ad un certo punto. Dire che i partiti sono un'organizzazione insufficiente e spesso anacronistica nel dare voce ai cittadini è un conto, sostenere che la politica è in sé un fatto inutile, lontano dai destini personali di ciascuno è un altro, e il pericolo grosso sta proprio qui. I partiti non ne hanno azzeccata una, siamo tutti d'accordo, e spesso la società civile si è mostrata molto più avanti rispetto ai suoi eletti, penso alla ribellione nei confronti di certe leggi, alla mobilitazione a difesa dei diritti individuali e via dicendo. Ma la politica, quella che abbiamo ereditato dalla Grecia classica, è molto di più delle pastette parlamentari. E' un modo di gestire la comunità, è una forma di partecipazione che ci chiama per decidere il nostro futuro e quello degli altri, di risolvere le grandi questioni che poi - inevitabilmente - ricadono anche sulle nostre minutaglie quotidiane. Sentire la sciura Maria che si lamenta e dice che non gliene importa niente e che le interessa solo trovare un posto per la figlia e che la politica non serve a niente perché le tasse e le spese le paga lei, è una sconfitta, non solo mia ma di tutta la società civile. Perché significa aver allontanato tutte quelle persone più semplici, meno preparate, più influenzate dalla televisione da quel progetto ambizioso ma sacrosanto che è lo sviluppo della nazione. Se il qualunquismo dell'uomo della strada prende il sopravvento, se l'interesse nei confronti della cosa pubblica si manifesta solo attraverso la ricerca di un vantaggio privato e del resto chi se ne frega, allora significa che la democrazia non fa per noi. Perché è faticosa, complessa, a volte snervante. Ma è anche l'unico canale attraverso cui costruire un futuro senza che il primo Cesare che possiede un po' di giornali e un po' di televisioni ci umili con la sua spazzatura e il suo tentativo di dittatura. Ops, è già successo, pazienza, parlavo in astratto. Se potessi però parlare idealmente alla sciura Maria, le direi: signora, non è vero che la politica non ci riguarda; per metterla su un piano che le interessi potrei raccontarle che i ticket di cui tanto si lamenta sono imposti da leggi parlamentari, che la sanità che lei giustamente pretende gratuita va pagata con le tasse che magari suo marito evade, con la ricevuta che lei non chiede al dentista per avere lo sconto; che la politica decide le politiche economiche che impediscono a sua figlia di sistemarsi, che è sempre la politica a stabilire quando lei andrà in pensione, a quali scuole potrà accedere suo figlio, a quanto ammonterà la pensione sociale di sua madre. Se le domande "come" e "perché" proprio non le interessano, consideri almeno il "quanto" e scoprirà che con un governo di furbi anche lei avrà da rimetterci. E Dio solo sa "quanto". Ci pensi la prossima volta, prima di votare a casaccio o quando griderà dal ballatoio che è stanca e non andrà a votare.
tutte le manie di Bob
mercoledì 8 settembre 2010
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Ariberto Terragni
C'era una volta un grande attore, un mito, un inarrivabile del gotha Actor's studio: Robert De Niro. Uno che per intenderci in un solo anno, il 1976, se ne usciva con tre film epocali: Novecento, Taxi driver e Gli ultimi fuochi. Tutto in una volta. Non era finita lì: nel giro di pochi anni sarebbero fioccati altri capolavori, basti pensare a Il cacciatore (la cui locandina dopo anni di affannosa ricerca campeggia finalmente alla parete del mio studiolo) o a Toro scatenato, per tacere di tutto il resto. Sono passati 34 anni da quel 1976, 35 se si conta che le riprese di Novecento si svolsero nel 1975. Ora, un De Niro piuttosto stazzonato e a corto di bei film da almeno quindici anni, è stato avvistato a Roma, per un colloquio preliminare il cui oggetto è una nuova produzione italiana, la prima dopo la storica collaborazione con Bernardo Bertolucci. Il regista non sarà lo stesso però. Il film in discussione è Manuale d'amore 3, diretto da uno dei peggiori cineasti italiani in circolazione, quel Giovanni Veronesi che in passato si è distinto, oltre che per i due precedenti e dimenticabili capitoli della saga, anche per Silenzio si nasce, Il mio west, Streghe verso nord e Che ne sarà di noi. Il fatto che De Niro sia arrivato a questo punto, che Veronesi abbia grande successo di cassa e che Bertolucci non riesca a fare un film da sette lunghissimi anni, dovrebbe dirla lunga sullo stato delle cose, o se vogliamo dell'arte: un triste pantano popolar televisivo che ha smesso qualsiasi ambizione, cadendo a sua volta nella madre di tutti gli equivoci: credere che questo sia cinema. Mi dispiace per Bob, dico sul serio, meritava un finale di carriera migliore. Chissà se il suo amico Bernardo ha qualche cosa da proporgli.
gioco di squadra
martedì 7 settembre 2010
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Ariberto Terragni
Parlano di squadre e squadristi con disarmante disinvoltura. Ma sapranno quello che dicono? Non credo. Squadra, fuori dal campo sportivo, ha un suo significato preciso, e allarmante; di squadrismo meglio non parlarne, si commenta da sé. Il fatto che il termine venga riesumato con tanta nonchalance non è un buon segnale, considerazione quasi ovvia: è un piccolo sporco evento che lascia però dietro di sé un fetore minaccioso, di preoccupante déjà vu, di vomito della Storia che, dimenticata senza troppi patemi, riemerge dal nero del pozzo. Tutte le signorine laureate del Padrone non sono state in grado di notare un'assonanza così semplice, così evidente con una delle pagine più infamanti della storia d'Italia, quella dello squadrismo nero: è ignoranza, e speriamo che sia solo quella, e non un modo di solleticare le nostalgie di qualche borghese dal saluto romano facile o di qualche testa calda della periferia. Il fatto che il Padrone poi non faccia una piega non mi sorprende affatto: quando c'è stato da distinguersi per profondità di pensiero e per preparazione culturale, lui era sempre da un'altra parte, a "fare". Che cosa, oltre alle proprie faccende, non si è mai saputo bene. Ma, ripeto, non c'è da meravigliarsi più di tanto, anzi, il progetto di questa Libertà gridata e falsa continua con straordinaria coerenza, accorpando un po' tutto, a casaccio, come nello stile del Padrone: nostalgia e pubblicità, cialtroneria e culto dell'apparenza. Non a caso, oltre agli squadristi, ci sono anche i "promotori", termine che sa tanto di commesso porta a porta, di testimone di Geova di questa nuova fede liberal fascista capitalista libertina padronale dittatoriale. Quanto al culto dell'apparenza ne abbiamo una riprova: lauree a pioggia e nullità di contenuti, dottore di qui, dottoressa di là e un bel taglio alla ricerca, un bel taglio alla cultura. Le camicie nere scambiate per un capo alla moda da esibire ai loro aperitivi.
Macno, di Andrea De Carlo
sabato 4 settembre 2010
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Ariberto Terragni
Macno di Andrea De Carlo potrebbe essere descritto, in linea di massima, come il tipico romanzo anni 80: ne risente in termini di ambientazione, umore complessivo, linguaggio. La storia è presto detta: in una sorta di presente alternativo, un guru televisivo giovane e carismatico prende il potere e instaura un regime populista basato su talune sue visioni politiche mai meglio specificate. La realtà si incarica ben presto di mandare a monte le sofferte meditazioni del povero Macno, minandone la credibilità e infine riducendolo a sultano isolato nella sua bolla d'oro, circondato da adulatori e ninfe. In questo quadro di decadenza si inserisce una giovane giornalista tedesca con cui questa specie di leader postmoderno intreccia una relazione che non si capisce bene quali conseguenze potrà avere. Qualcuno ha scritto che De Carlo è un abilissimo narratore del nulla: in questo caso se non siamo vicini dalla verità poco ci manca. La storia si barcamena tra dialoghi pretestuosi e vaneggiamenti di politica spicciola, scenari da villaggio vacanza e personaggi da hall di un albergo: la letteratura proposta da Macno è in fondo questo pacchetto turistico tutto compreso, dove al modico prezzo di duecento pagine tirate per i capelli si può accedere a questo non luogo isterico ma bene educato in cui i personaggi non fanno che vagare da una festa all'altra sorseggiando drink e raccontandosi il vuoto. Parecchi anni fa lessi Di noi tre, dello stesso autore. Non so se le circostanze particolari in cui ciò avvenne o la mia visione possibilista di allora mi indussero a ritenerlo un buon romanzo. Macno no, non è un buon romanzo. Parte da uno spunto tutto sommato originale per l'epoca (siamo nella prima metà degli anni Ottanta) come il ritratto di un guru mediatico che raggiunge il potere grazie all'aria fritta e qualunquista della televisione per poi fermarsi alla superficie, e navigare a vista fino al mesto e quasi incomprensibile finale. I personaggi emergono qua e là, poco strutturati, o viceversa caricati di dettagli esasperati che li rendono più simili ad una parodia, non sempre convincenti sotto l'aspetto psicologico e ancora meno sotto quello narrativo, spesso vacui quasi mai utili ai fini della storia. E su tutti Macno: prosatore satinato, affabulatore alla deriva, specchio suo malgrado dell'epoca del riflusso, e di un pensiero che più che debole in lui diventa insulso, qualunquista, a metà tra una demagogia da soap opera e il soliloquio di un cattivo teatro di prosa. Difficile dire quali ambizioni nutrisse questo romanzo. A giudicare dal plot, pochissime. La storia sentimentale in cui tutto si risolve è a dir poco una banalizzazione, i richiami all'Italia paninara troppo vicini al luogo comune per essere presi sul serio.