Il calcio che si vende le partite e l'anima con la scusa dei figli da mantenere fa pendant con l'Italia rischiatutto che sbriciola pensioni e stipendi nell'azzardo legalizzato, come se il grande oppio di questi anni non fossero più religioni o ideologie ma questa specie di roulette sempre in movimento dove gli italiani investono sogni e speranze. Non un atto fideistico, ma un atto disperato, di quella speciale forma di disperazione che confina con l'apatia e la mancanza di prospettiva. E così dal calciatore miliardario al pensionato a rischio indigenza, la società recupera un simulacro di uguaglianza nella riffa permanente che ha ormai invaso ogni singolo spazio pubblicitario dal web al digitale terrestre: un gioco vorace e infido che racconta meglio di tanta cronaca gli anni che stiamo vivendo, sbattendoci in faccia un male di vivere nuovo, sottilmente ma tenacemente legato al senso di inutilità e precarietà che è dilagato nel corpo sociale come un morbo. Ci vorrebbe l'Arthur Schnitzler di Gioco all'alba o il Dostoevskij de Il giocatore per raccontare il raptus e lo sfacelo che irrompono all'improvviso alle spalle della razionalità per soggiogarla; un fenomeno che non passa senza lasciare conseguenze e senza denunciare il grave vuoto che scommesse e giochetti vari vanno a colmare. E in risposta a chi dice che è un problema antico come il mondo, si potrebbe obiettare che è forse la prima volta che ci si trova a dover affrontare il gioco d'azzardo come sintomo sociale, rimedio stregonesco al mal di vivere, esorcismo di massa contro gli spettri di povertà e declino. Ma ci troviamo di fronte (potevamo dubitarne?) ad un trucco, di cui è consapevole anche il più sprovveduto degli scommettitori. Ed è impossibile negare l'analogia tra il benessere che perde pezzi e l'ansia di mettersi al sicuro con un colpo risolutore. Ma non basta a spiegare l'avanzata endemica dell'azzardo. C'è qualcosa di più oscuro sotto. Una dinamica perversa, già in atto da tempo; un tentativo di di sottrarsi al presente per mezzo di un incantesimo, di un artificio, un po' come fa il tossicodipendente alle prese con gli stupefacenti. Ma qui lo Stato incassa, e tace, salvo sporadiche e ormai clownesche promesse di redenzione e tutela. Anche questo è un gioco: lo spacciare con una mano e il promettere regole con l'altra, quasi a confermare la vecchia regola che il nemico è anche complice, che l'illegalità legalizzata è uno una valvola sociale preziosa, da chiudere quando le cose vanno bene e da aprire (come una bombola di gas esilarante) quando la barca affonda. E per raccontare questo capitolo finale, quello della mimesis tra legalità e illegalità, servirebbe Foucault.
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