Va bene, diciamo che il lavoro non è un diritto, con buona pace della Costituzione. Diciamo che viviamo in un'economia di mercato, e che il mondo va così. Se per vivere devo lavorare, e il lavoro non è un diritto, ne consegue che anche vivere non è più un diritto. Con buona pace, stavolta, dei diritti umani, dei quali, a quanto pare, non importa più niente a nessuno. Non vedo poi così distante il giorno in cui anche la vita sarà un di più, un "diritto che va meritato". Con le parole del ministro italiano, si sancisce un dato di fatto già chiaro come il sole: il lavoro non è più uno strumento dell'uomo, ma l'uomo è diventato uno strumento del lavoro, in uno scenario sociale dove l'individuo è diventato persona giuridica e la sua vita un fattore produttivo. Un'inversione a cui ci stiamo preparando più o meno consapevolmente da anni, ma alle cui conseguenze stiamo arrivando solo ora: e non è che l'inizio. Lo scenario che si presenta è artificiale, mondato dalla presenza umana, reso efficiente in senso astratto, sganciato da alcun legame di utilità per i cittadini, per coloro che vivono. Le previsioni di Marx sul passaggio storico del denaro che da mezzo diventa fine, trova la sua conclusione, spietata, nella cancellazione della voce Uomo dal processo produttivo. L'uomo non è più fine, non è più metro, non è più misura. E' un mezzo. Va detto nel tono più neutro possibile, ma con la massima chiarezza: gli sforzi degli ultimi trent'anni per rendere l'uomo uno schiavo, e per di più uno schiavo contento, hanno dato i loro frutti. Il lavoro di molti a vantaggio di pochi; le conquiste sociali di secoli negate. E' il mercato baby. E noi siamo la merce sulla bancarella.
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