le nostre prigioni

Ho riletto una vecchia intervista rilasciata da Alberto Moravia. Ad un certo punto leggo: "Un artista vive bene in un paese libero, magari anche in decadenza. Anche dove c'è uno Stato in completo sfacelo." Qual è l'Italia di oggi? Un paese in piena decadenza, ma anche un paese poco libero. I due fenomeni di solito non vanno necessariamente di pari passo, anzi, spesso sono inversamente proporzionali. Qui è avvenuto, sta avvenendo, l'esatto contrario. La libertà, intesa come libertà d'azione ma anche di pensiero, è in grave pericolo. La principale causa di questo dramma è sotto gli occhi di tutti: la tecnicizzazione delle idee, che vengono rese funzionali ad una logica di produzione, sta dilagando. La logica che il governo tenta di applicare sulla vita collettiva degli italiani rappresenta un pericolo grande e invasivo: le sciocchezze su precariato, mondo giovanile, possibilità di programmare un futuro, non sono semplici gaffes, ma sono messaggi precisi. Sono il pensiero dominante. Non dico che domani mattina ci sveglieremo e non saremo più liberi di dire quello che vogliamo, ma che gli spazi per un pensiero critico e indipendente saranno sempre di meno: con meno tempo a disposizione, meno garanzie, meno tutele e sempre più potere nelle mani del padronato la voce di chi non è garantito sarà destinata a sparire. Allo sfacelo economico si accompagna anche la disfatta della libertà di pensiero, che rimarrà forse appannaggio delle élite culturali, ma che sparirà fatalmente dall'orizzonte popolare. L'uomo annichilito nella sua singolarità e unicità diventa un automa, un pezzo di ricambio, un arnese di cui disporre a piacimento, e ogni singolo atto, parola, gesto di questa non eletta classe dirigente va esattamente in questa direzione. Lo testimoniano tanto gli atti concreti posti in essere, quanto la retorica con cui questa novella aristocrazia si propone: una ambivalenza discorsiva che, come nel peggiore dei sofismi, produce da sé la verità del proprio discorso, proprio perché, come nel sofisma, non mira a dire le cose come stanno, ma a costruire uno scenario funzionale allo scopo. Il punto allora non è più porre uno steccato tra ciò che è bene per la persona e ciò che oggettivamente è male (la precarietà a vita per esempio), ma indurre la popolazione a ritenere che la precarietà sia l'unica strada praticabile, e in quanto tale la strada giusta. E così, con un espediente retorico, il cardine del discorso politico non è più l'uomo, ma il l'economia di mercato, che da strumento è diventata fine. Come prevedeva Marx in fondo. Ma con una dose massiccia di ipocrisia in più. E per rispondere all'osservazione di Moravia: no, non possiamo dirci liberi.

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