il contentino

E' una grande e meritata vittoria sportiva, ma non è niente di più di una meritata vittoria sportiva. L'aver battuto per l'ennesima volta la Germania a calcio significa che siamo storicamente più bravi della Germania a giocare a calcio. Altre metafore, altre letture, semplicemente non hanno senso. Parlare di 'vendetta', di 'regolamento di conti' o peggio ancora di 'rivincita' significa caricare un evento sportivo di significati che non ha, con il rischio, concreto, di svilire quel poco di vero che c'è: la gioia di aver meritato la vittoria. La contrapposizione Italia - Germania di ieri sera non era un fatto politico, Balotelli non è Garibaldi, Pirlo non è Cavour e il calcio non è metafora di niente se non degli undici che scendono in campo e giocano. Altre letture, altre interpretazioni, sono il figlio cialtrone del cattivo giornalismo, che su queste favole ci specula e ci campa; sono il tentativo di surrogare le dinamiche politiche ed economiche in un gesto plastico e di immediata fruizione come può essere un goal o un assist: il calcio ridotto ad essere, ora come non mai, uno strumento del potere. Un sistema di distrazione di massa, di imbonimento generalizzato. Citare lo stracitato panem et circenses del povero Giovenale è troppo facile, ma non si può farne a meno quando è chiaro l'utilizzo spietato e a man bassa delle passioni popolari come velo di maya da calare sulla realtà. Un jolly, un asso nella manica che il baro sa quando sfruttare. Fino all'immancabile paradosso: la politica 'tecnica' smantella lo stato sociale di questo paese, determinando il più spaventoso divario sociale che la storia repubblicana ricordi, e le strade sono piene di gente cosparsa di tatuaggi che esulta col tricolore in pugno, cantando a squarcia gola l'inno nazionale come se fosse un coro da stadio. Quell'inno al suono del quale tanta gente è morta in anni di lotte ora diventa, per un crudele contrappasso, la suoneria da cellulare con cui quattro illusi credono di essere dei patrioti perché si tuffano nella fontana del paese con una maglia azzurra addosso. Di certo la sgangherata compagine dirigenziale dello sport italiano non aiuta: quella frase allucinante dopo il fischio di chiusura: "La nazionale sancisce lo spread" o qualcosa del genere non è un atto di rivalsa nei confronti di uno stato oggettivamente prepotente come quello tedesco, ma è il barrito all'assemblea di condominio, è la vittoria del povero. E' troppo complicato, troppo impopolare sfidare la Germania su un piano culturale e politico, meglio affidarsi a un goal, a un dribbling per sentirci meglio, per sentirci importanti, dei piccoli eroi, autorizzati a tatuarsi sul braccio Campioni del mondo, anche se tutto quello che abbiamo fatto è stato infognarci di pizza e birra davanti al televisore. 

diritti defunti


Va bene, diciamo che il lavoro non è un diritto, con buona pace della Costituzione. Diciamo che viviamo in un'economia di mercato, e che il mondo va così. Se per vivere devo lavorare, e il lavoro non è un diritto, ne consegue che anche vivere non è più un diritto. Con buona pace, stavolta, dei diritti umani, dei quali, a quanto pare, non importa più niente a nessuno. Non vedo poi così distante il giorno in cui anche la vita sarà un di più, un "diritto che va meritato". Con le parole del ministro italiano, si sancisce un dato di fatto già chiaro come il sole: il lavoro non è più uno strumento dell'uomo, ma l'uomo è diventato uno strumento del lavoro, in uno scenario sociale dove l'individuo è diventato persona giuridica e la sua vita un fattore produttivo. Un'inversione a cui ci stiamo preparando più o meno consapevolmente da anni, ma alle cui conseguenze stiamo arrivando solo ora: e non è che l'inizio. Lo scenario che si presenta è artificiale, mondato dalla presenza umana, reso efficiente in senso astratto, sganciato da alcun legame di utilità per i cittadini, per coloro che vivono. Le previsioni di Marx sul passaggio storico del denaro che da mezzo diventa fine, trova la sua conclusione, spietata, nella cancellazione della voce Uomo dal processo produttivo. L'uomo non è più fine, non è più metro, non è più misura. E' un mezzo. Va detto nel tono più neutro possibile, ma con la massima chiarezza: gli sforzi degli ultimi trent'anni per rendere l'uomo uno schiavo, e per di più uno schiavo contento, hanno dato i loro frutti. Il lavoro di molti a vantaggio di pochi; le conquiste sociali di secoli negate. E' il mercato baby. E noi siamo la merce sulla bancarella. 

fenomeni inumani

Uno Stato "totalitario" davvero efficiente sarebbe quello in cui l'onnipotente comitato esecutivo dei capi politicie il loro esercito di direttori soprintendessero a una popolazione di schiavi che ama tanto la propria schiavitù da non dovervi neanche essere costretta. Far amare agli schiavi la loro schiavitù: ecco qual è il compito ora assegnato negli Stati totalitariai ministeri della propaganda, ai caporedattori dei giornali e ai maestri di scuola.

(Aldous Huxley)



Sono sempre più preoccupato (o annoiato, ci si annoia anche di essere preoccupati alla lunga) da tutta quella massa di informazioni che riguardano lo sviluppo o il regresso della società - mondo in direzione tecnico - monetaria. Più sfoglio i giornali (o meno lo faccio, visto quel che servono), più scartabello internet, più, in altre parole, lascio che la valanga mi travolga, più mi trovo di fronte una realtà monodimensionale, appiattita sui parametri intransigenti e incorporei denunciati ormai decenni fa dai filosofi della scuola di Francoforte, ma anche da Marcuse (che non a caso scrisse L'uomo a una dimensione) e da un filologo attento e controcorrente come Roland Barthes. Soldi, tecnicismi, settorializzazione, parcellizzazione: termini inamovibili, rigidi, l'esatto opposto di quello che è l'esperienza umana, così duttile, multiforme, a volte poco spiegabile. Possiamo dire di essere nel mezzo di una fase inumana della Storia? Potrebbe. A patto di epurare dal concetto di 'inumano' qualsiasi scoria romantica o retorica. 'Inumano' non va inteso come qualcosa che ha dimenticato la categoria dell'umano, ma come un'istanza tecnico politica che l'umano non lo prende proprio in considerazione; che nasce e si sviluppa a partire da un orizzonte positivo - negativo che ha abolito le sfumature. Una specie di manicheismo digitale fortemente gerarchizzato, dove la politica si è saldata con l'economia, e dove entrambe si vedono sottoposte ai meccanismi astratti dell'efficienza produttiva. La deriva italiana, in questo senso, è un esempio significativo. Siamo andati oltre all'omologazione denunciata da Pasolini quarant'anni fa, anche se quel tipo di potere si presenta ancora oggi come premessa storica alle piaghe di oggi. La categoria del consumismo non è più sufficiente a spiegare la piega degli eventi, a meno che essa non venga integrata con considerazioni a dir poco inquietanti: come la progressiva riduzione in schiavitù del consumatore, che ora paga un prezzo altissimo in termini di libertà personale e di pensiero all'industrializzazione capitalistica selvaggia con cui l'Uomo, come razza e specie, ha deciso di suicidarsi. Dalla progressiva estinzione delle particolarità etniche, all'estinzione delle particolarità individuali; non più solo la morte delle culture ritenute marginali dal processo di tecnicizzazione, ma la morte civile degli individui fatti fuori dal principio di efficienza. Che è una categoria astratta, artificiale, imposta da una tecnocrazia ridottissima e sempre più potente. In parole povere: chi non diventa monodimensionale, chi non accetta la schiavitù come modello di flessibilità, viene espulso dalla macchina. E' già capitato a Indiani Americani, Aborigeni, e a tutte quelle popolazioni che nei secoli passati si sono viste sopraffatte e schiacciate dal modello economico egemone. Esaurita quella fase, ora tocca alla fronda interna. 

campione di sincerità


E' superfluo commentare il fine commento di Antonio Cassano sui gay, elegantemente definiti "froci". Ma a me non interessa tanto l'aspetto esteriore della vicenda, quanto il modo in cui una frase così trova la sua legittimazione nel dibattito pubblico. In un'epoca in cui la sincerità è esaltata come l'antidoto al perbenismo e all'ipocrisia, il "frocio" detto a mente libera da un calciatore della nazionale non dovrebbe stupire, né tantomeno scandalizzare. Sincero, è sincero. Quanto alla verità, al buon gusto, alla decenza o anche alla semplice educazione, chissà, non è dato sapere. Forse possono rispondere i teorici della sincerità come sinonimo di verità, anche se gli indizi che suggeriscono invece un'antinomia tra i due termini non mancano: primo fra tutti l'assenza del medium intellettivo tra la prima cosa che passa per la testa e la sua esternazione. O, in subordine, tra un pregiudizio sedimentato dall'infanzia e alimentato dall'ignoranza e la sua spensierata verbalizzazione. Il fatto poi che Cassano non si renda conto che dare del "frocio" a qualcuno non è un complimento né tantomeno una manifestazione del libero pensiero, ma un semplice insulto, è un'altra faccenda, che qualcuno potrebbe e dovrebbe spiegargli. Un buon punto di partenza potrebbe essere proprio il campo di Auschwitz, dove gli Azzurri sono andati in meditazione pochi giorni fa con giornalisti al seguito e dove hanno trovato la morte anche parecchie persone omosessuali, dato storico che forse a Cassano è sfuggito e che comunque basterebbe a trarre la disarmante conclusione che il pellegrinaggio in quel luogo di dolore non è servito a niente. Ma ha parlato la sincerità, e forse nella sincerità di Cassano si annida una cattiva coscienza che va ben oltre la volgarità di un ragazzo troppo incolto e troppo ricco: è la cattiva coscienza di una società intera, l'indifferenza abulica che permette ai mostri astratti di diventare reali, il luogo comune che non smette di agire per il peggio. E' la stessa cattiva coscienza che sotto forma della Federazione censura la sincerità di Cassano, imponendo l'ipocrita, tardiva smentita. 

fate il vostro gioco

Il calcio che si vende le partite e l'anima con la scusa dei figli da mantenere fa pendant con l'Italia rischiatutto che sbriciola pensioni e stipendi nell'azzardo legalizzato, come se il grande oppio di questi anni non fossero più religioni o ideologie ma questa specie di roulette sempre in movimento dove gli italiani investono sogni e speranze. Non un atto fideistico, ma un atto disperato, di quella speciale forma di disperazione che confina con l'apatia e la mancanza di prospettiva. E così dal calciatore miliardario al pensionato a rischio indigenza, la società recupera un simulacro di uguaglianza nella riffa permanente che ha ormai invaso ogni singolo spazio pubblicitario dal web al digitale terrestre: un gioco vorace e infido che racconta meglio di tanta cronaca gli anni che stiamo vivendo, sbattendoci in faccia un male di vivere nuovo, sottilmente ma tenacemente legato al senso di inutilità e precarietà che è dilagato nel corpo sociale come un morbo. Ci vorrebbe l'Arthur Schnitzler di Gioco all'alba o il Dostoevskij de Il giocatore per raccontare il raptus e lo sfacelo che irrompono all'improvviso alle spalle della razionalità per soggiogarla; un fenomeno che non passa senza lasciare conseguenze e senza denunciare il grave vuoto che scommesse e giochetti vari vanno a colmare. E in risposta a chi dice che è un problema antico come il mondo, si potrebbe obiettare che è forse la prima volta che ci si trova a dover affrontare il gioco d'azzardo come sintomo sociale, rimedio stregonesco al mal di vivere, esorcismo di massa contro gli spettri di povertà e declino. Ma ci troviamo di fronte (potevamo dubitarne?) ad un trucco, di cui è consapevole anche il più sprovveduto degli scommettitori. Ed è impossibile negare l'analogia tra il benessere che perde pezzi e l'ansia di mettersi al sicuro con un colpo risolutore. Ma non basta a spiegare l'avanzata endemica dell'azzardo. C'è qualcosa di più oscuro sotto. Una dinamica perversa, già in atto da tempo; un tentativo di di sottrarsi al presente per mezzo di un incantesimo, di un artificio, un po' come fa il tossicodipendente alle prese con gli stupefacenti. Ma qui lo Stato incassa, e tace, salvo sporadiche e ormai clownesche promesse di redenzione e tutela. Anche questo è un gioco: lo spacciare con una mano e il promettere regole con l'altra, quasi a confermare la vecchia regola che il nemico è anche complice, che l'illegalità legalizzata è uno una valvola sociale preziosa, da chiudere quando le cose vanno bene e da aprire (come una bombola di gas esilarante) quando la barca affonda. E per raccontare questo capitolo finale, quello della mimesis tra legalità e illegalità, servirebbe Foucault.