Ipad sì, ipad no. L'irruzione dell'oggetto simbolo del digitale contemporaneo nella vita di tutti i giorni risale ormai a qualche anno fa, una manciata di mesi che però rappresentano ere geologiche in quella mistura inestricabile di tecnologia e marketing con cui tutti abbiamo a che fare. Io sono tra quelli che si sono cascati. L'ho preso, il modello numero 2, a due mesi dall'uscita. Oggi, a tre mesi dall'acquisto, assisto all'innaturale deprezzamento del mio acquisto, sostituito da un modello numero 3. In sei mesi mi ritrovo in mano un oggetto vecchio. E non per subentrate migliorie o irreversibili progressi, ma per una banale operazione commerciale, che ha decretato ex catedra la dismissione di un prodotto X a favore di un prodotto Y. Ora, l'ipad è un oggetto simpatico, relativamente utile, non il massimo per uno che scrive, ma una piattaforma versatile dove con un po' di buona volontà si possono fare diverse cose. Non è un computer, ma una base d'appoggio portatile che garantisce buone prestazioni. Finita lì. E' il simbolo di una fase, quella del relativamente utile, dove la funzionalità dell'oggetto non è predeterminata, se non in parte: uno non compra l'ipad sapendo esattamente che cosa se ne farà. Si inventerà un modo di usarlo che ne giustifichi l'acquisto (parecchio oneroso). E' un altro segnale, evidente. I prodotti non seguono più una richiesta di mercato, ma ne impongono una, diventano un brand, creano il bisogno. Fin qui niente di nuovo. Il problema è che con l'ipad nasce anche il bisogno di creare un senso a seconda dell'uso che se ne fa. Il problema è che si tratta di un oggetto alla moda, e quindi con la data di scadenza. Lo compri, lo usi per un po' non sai neanche bene come, e subito dopo ne è già uscito un altro, che rende il tuo oggetto obsoleto. E' una guerra sporca. Io ci sono cascato, piacevolmente devo dire, ma ora come ora mi vedo come uno dei tanti che si è tolto lo sfizio. Amen. Il punto ora è che non posso fare a meno di interrogarmi: che tipo di tecnologia è questa? In che cosa, concretamente, mi ha aiutato? Potrei dire in niente, e non sarei lontano dalla realtà, ma non basta: si è trattato di un niente zuccheroso, seducente, inutile come una meringa, che di certo non serve al nostro organismo ma che è tanto buona da mangiare. Ho capito che perlomeno non sono affetto da narcisismo tecnologico, e che di avere per le mani un passatempo costoso non me ne frega niente. Questo, per il momento, il contentino. Sperando di abboccare un po' di meno in futuro.
il dominio dell'irreale
sabato 17 marzo 2012
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Ariberto Terragni
In Viaggio al termine della notte di Céline c'è un passaggio molto suggestivo, in cui l'io narrante ricorda una civetteria della propria madre, la quale con sorriso un po' beota si vantava di essere una "povera di città", che è sempre meglio che essere una "povera di campagna". La frase lì per lì mi piacque, senza capire bene perché. Ora, dopo qualche anno, posso dire di averla finalmente capita, anche se in termini rovesciati: non sono i poveri di campagna ad essere più poveri, ma quelli di città. La povertà cittadina, che oggi magari è cresciuta fino a diventare piccola borghesia stipendiata, è una povertà senza memoria e con poca, pochissima identità, subito ingoiata dal consumo di prodotti (che è anche un consumo del proprio io), condannata a non avere eredità che vadano oltre l'appartamento dei genitori e fatalmente azzerata ad ogni passaggio generazionale. La povertà contadina rappresentava una simbiosi col territorio e con le radici, in un rapporto diretto con la produzione dei generi di sostentamento, ma non solo: l'eredità affettiva passava anche attraverso l'insegnamento di una conoscenza, di un sapere, che aveva a che fare con il ciclo naturale o con l'apprendimento di un mestiere. In città tutto questo non esiste, né è mai esistito: l'identità che si annida nel cognome, ma quasi come un ristagno o un detrito, è materiale anagrafico, un insieme di sillabe intercambiabile con quello di qualsiasi altra famiglia, che tanto consuma gli stessi prodotti in scatola, vive in case simili, ambisce a cose identiche e manda i figli nelle stesse scuole, dove imparano le stesse identiche cose. Effetti collaterali dell'industrializzazione, insieme con la disoccupazione (che è un portato industriale) e con la massificazione dei comportamenti. Da quando lo denunciò Pasolini, una quarantina di anni fa, il problema non ha fatto che ingigantirsi, e per una ragione fondamentale: il processo industriale non ha trovato uno sbocco che non sia la produzione a oltranza e il relativo consumo. E' un processo che non è ciclico, ma pretende una linearità esponenziale. Con conseguenze devastanti, che rendono povero anche chi non è consapevole di esserlo, anche chi è convinto che il solo fatto di essere ammucchiato in una città lo renda più tutelato: prendersi gioco di questa inconsapevolezza è la dinamica forse più spietata con cui l'economia irreale sta schiacciando la società reale. Che continua per buona parte a pensarla come la madre di Céline.
un confronto impossibile
lunedì 12 marzo 2012
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Ariberto Terragni
C'è uno dei principali intellettuali italiani viventi, Pietro Citati, che con realismo e chiarezza denuncia una verità non più occultabile: lo scarso coraggio delle case editrici sta portando al collasso non solo l'editoria stessa, ma anche le menti dei lettori. Autori fondamentali come Kafka e Borges stanno cadendo nel dimenticatoio, mente l'industria culturale si fa in quattro per proporre la brutta letteratura di Dan Brown e Giorgio Faletti. Un dato di fatto. Poi c'è la replica, data in tv da Faletti, che è una sciocchezza: paragoni a caso da Totò, a Mark Twain e infine a Giovanni Paolo II. Va da sé che il linguaggio povero, la grammatica stentata del comico rivendutosi in forma intellettuale finiscono per collidere con la cultura smisurata di Citati, la sua capacità di rendere semplici concetti difficili, la dedizione con cui si è occupato di letteratura per tutta la vita. Faletti ammette candido di non conoscere Citati: la dice lunga sulla sua formazione. E forse spiega anche come mai i suoi libri sono un prodotto da autogrill che l'innato senso della parsimonia della letteratura provvederà a cancellare nel giro di qualche decennio, forse meno. Ognuno legga ciò che vuole, ma sarebbe bello anche vedere un'editoria che spaziasse nell'offerta, e che ricominciasse vivaddio a dare spazio alle avanguardie, ai libri complessi, alle scommesse autoriali e che non si limitasse a rincorrere il guadagno immediato che può dare la paraletteratura di Faletti, scrittore di mediocri orizzonti bravo a fare il tribuno un tanto al chilo dalle platee televisive. Televisione: è forse quello il terreno che gli è più congeniale, e forse è proprio perché Citati in televisione ci sarà andato due volte che il comico non lo conosce. E' un problema proprio di comunicativa, di alfabeti che non coincidono, di termini di paragone troppo distanti perché possa verificarsi una sintesi tra i due. Basta leggere i libri di Faletti e di Citati (che è un saggista, va bene, ma in questo caso è un dato secondario) per capire in quale orizzonte i due si muovano. Faletti non dovrebbe prendersela: ha guadagnato molto, ha tanti fans. Lasci esprimere agli altri le loro perplessità. La parola alle case editrici: a quando un rinnovamento nel segno della qualità?
la donna a peso d'oro
venerdì 9 marzo 2012
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Ariberto Terragni
I media ragionano tutti all'unisono, non sono capaci di differenziare la loro proposta, né tantomeno di proporre delle chiavi di lettura originali: tutti insieme, in occasione della festa della donna, hanno recitato lo stesso identico mantra: donne e potere. Hanno citato tutti gli stessi esempi (ministre, manager, capitane d'industria) e hanno lanciato l'equazione: realizzazione di sé = posto di potere. Che è un assurdo. O che per meglio dire non è detto sia la realtà. In pratica stampa, televisione e linguaggio comune non vedono altro modo per le donne, e in senso lato per tutti, di emanciparsi e realizzarsi che non sia l'occupare una posizione di potere. Non sospettano nemmeno che la soddisfazione e la completezza passino attraverso un percorso anche e soprattutto interiore, intellettuale, affettivo. No, per niente. Solo il potere e il denaro possono essere motivo di gratificazione. Avanzano statistiche e cifre in cui l'unico modello che emerge è quello della donna ricca e al comando di qualche cosa. Sennò niente, tutte casalinghe frustrate o professoresse sottopagate. Donne libere e soddisfatte in altro campo e in altro modo non sono contemplate, sono sparite, inghiottite da una narrazione della realtà che non le vuole, e che preferisce raccontarci un presente meno complicato, meno differenziato, dove i parametri sono calcolabili, perché quantitativi. Giornali, televisioni, siti internet: la falange è stata compatta nel dipingere lo stesso scenario, senza la minima variazione. Ma il giocattolo si rompe, e mostra i fili: un conformismo esasperato, un'avidità senza confini che sono la vera e più indiscutibile chiave di lettura attraverso cui leggere questo presente. Ingordo, bulimico anche nel rappresentarsi, spoglio di parole, povero di contenuti. Una narrazione fasulla e materialista che le donne, specie se vivono soldi e potere con il giusto grado di diffidenza, non si meritano.
lo scrittore comodo
martedì 6 marzo 2012
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Ariberto Terragni
Non starò qui a polemizzare con Baricco, perché Baricco non mi si fila, perché è di moda e perché lo fanno tutti, ma diciamo che il caro scrittore se la va un po' a cercare. Sarà per quella sua idea di letteratura bricolage, sarà per quella naturale mancanza di modestia mascherata da talento, sarà per la straordinaria abilità a vendere fumo, non so. Fatto sta che ogni iniziativa sulla quale appone il cappello odora subito di marketing, e la cosa potrebbe anche essere perdonabile se non stessimo parlando di letteratura e lui non si proponesse come uno scrittore con qualche ambizione. Ma l'epoca che viviamo è rappresentata anche dagli intellettuali che si ritrova, e se un tempo c'erano Gadda, Moravia, Flaiano, Landolfi, Pasolini, Calvino e vai col tango, oggi ci ritroviamo uno che ha usurpato il nome di Holden Caufield per farci una scuola di scrittura creativa, una specie di assurdo logico che solo in America potevano partorire (una certa America: Hemingway, Dos Passos, Faulkner e lo stesso Salinger non ne hanno frequentate di queste robe). Ma Baricco non lo fa in malafede, lo fa perché evidentemente è più forte di lui. Si improvvisa regista, divulgatore alla tv, maître à penser del veltronismo, si inventa una rubrica dal pretenzioso titolo Una certa idea di mondo e scrive libri discutibili, con la caratteristica di essere sempre più inconsistenti. Ma questa è scrittura 2.0, intellettualismo del post post moderno, depensamento, autore volutamente esautorato che viaggia col catalogo in mano, che si confronta col mercato, evviva. Ecco perché Baricco è interessante: perché è l'esatto specchio del momento che viviamo. Poi ognuno è libero di fare come crede, ma sarebbe bello che la ribalta fosse concessa anche ad altri, magari meno telegenici, con idee meno vaghe e magari meno politicamente corrette, ma forse sta proprio qui il disagio: meglio un bel brand che una polemica di Sciascia, così dormiamo tutti più tranquilli e non ci facciamo strane idee, certi, certissimi di vivere nel migliore dei mondi possibili.