provinciali

Adesso scoprono che l'Italia è un paese fatto di province, e la mettono sul piatto come se fosse una novità. La frammentazione culturale, linguistica, antropologica del nostro paese viene da tutto un sottobosco di usi e costumi millenari, sovrapposti, talvolta carsici. Fa un po' specie apprendere che il giornalismo di massa scopra solo ora questa grande verità: articoli, inchieste, indagini per ricavare qualcosa che assomiglia molto all'ovvio. C'è qualcosa che non quadra però: il tentativo, alquanto capzioso, di sovrapporre la provincia culturale con la provincia politico amministrativa, perché qui sorge più di un dubbio. Se da un lato il preservare la tradizione italiana è cosa buona e giusta (specie in contrapposizione all'omologazione consumistica occidentale) un altro discorso è il difendere le piccole patrie sparse per lo Stivale. Perché qui non ci siamo. Le province vanno chiuse. Sono enti ingarbugliati, interposti tra comuni e regioni, in predicato di essere smantellate da più di quarant'anni; sono il prodotto di una fase storica risorgimentale che oggi non ha più senso di essere mantenuta in vita, un controsenso che troppo spesso è stato ed è il terreno fertile per prebende, regalie, scambio di favori. Lo snellimento dell'apparato burocratico passa proprio dalla loro abolizione. Che quasi tutti i cittadini auspicano, tra l'altro. L'iperlocale, per dirla alla Trota, non può essere ancora l'inciampo burocratico grazie al quale la cattiva politica espande il proprio potere, frammentando il territorio - spesso alla cavolo - e moltiplicando le poltrone. Tra l'altro, questa cattiva politica delle specificità del territorio se ne è sempre abbondantemente fregata, detto per inciso: l'obiettivo è sempre stata la vacca elettorale da mungere. Come mi disse un giorno un mio amico: e che c'è di male ad essere dei provinciali? (P.s.: delle letture che mi vengono in mente: Viaggio in Italia di Piovene, Un week end postmoderno di Tondelli, Il provinciale del grande e compianto Giorgio Bocca).

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