Non riesco proprio ad appassionarmi ai temi di attualità. Credevo, insieme a molti altri per la verità, che la dimensione del dibattito pubblico potesse ampliarsi ed evolversi una volta uscito di scena il precedente governo, ma nei fatti non è stato così. La fase di stallo rimane, come una cappa, o una condanna a lungo termine. Nessun argomento che vada oltre l'aspetto economico/monetario, nessuna riflessione un po' più ad ampio respiro su chi siamo e su cosa vogliamo essere. Eccezion fatta per le volgarità di qualche viceministro (in perfetta assonanza con il vicesindaco della supercazzola di Tognazzi) c'è stato veramente poco. Chiamiamolo vuoto culturale: con laurea e dottorato, ma vuoto. Ricolmo di carte e attestati dati e ridati in un circolo vizioso che ha dell'incredibile, ma pur sempre vuoto, incapace di andare oltre se stesso. Questo tecnichese, questa serietà eletta a slogan sa di interpretazione di dubbio gusto, di parodia che nel disperato tentativo di prendersi, ancora una volta, sul serio, sbanda e si accartoccia su se stessa. E' una pagina che ha poco dell'austerità e molto della tristezza, poco della dialettica e parecchio della mancanza di grammatica. Forse la società italiana di questi anni dieci non merita niente di meglio che essere a rimorchio di una classe dirigente che non ha scelto né eletto ma che si vede costretta a giubilare, un po' per la cattiva coscienza di aver votato chi c'era prima, un po' per l'evidente imbarazzo di non avere niente di meglio. Abbiamo confuso il dibattito pubblico con le parolacce di un viceministro e la cultura con il prendersela con i fuoricorso; la serietà con la depressione; il rigore con uno Stato invasivo e iperprotagonista; il tanto peggio con la contingenza della Storia. E ne paghiamo le conseguenze, molto semplice. Con l'aggiunta, crudele ma a questo punto meritata, di dover pure sorridere e dire che adesso le cose funzionano.
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