Il Tramonto dell'Occidente è una chimera, un'opzione politico/filosofica che grava sulle malandate coscienze d'Europa da almeno un secolo. Ne hanno parlato filosofi e giuristi, prefigurando in ogni caso una specie di caduta, di destino irrimediabile inscritto nel codice genetico stesso dell'Occidente. Heidegger parlava di Terra dell'Occaso (Abendland), ossia la patria, il territorio per eccellenza in cui l'essere si oblia. Oswald Spengler ha dedicato un torrenziale e complesso trattato a questo tema: Il tramonto dell'Occidente, appunto, dove si individua la Storia in un processo di progressivo e inesorabile disgregamento, passando da uno stadio di civiltà ad uno di civilizzazione, dove il caos e il materialismo inquinano senza rimedio la sostanza vitale dell'uomo.
Questo per sommi capi. Se Spengler è stato il grande aedo di questo sentimento (che come tutti i sentimenti radicati è una costante umorale di un intero popolo che uno studioso teorizza, e non viceversa), elementi sparsi a sostegno di questa concezione si trovano in altri pensatori, sia precedenti che posteriori a Untergang des Abendlandes: in Nietzsche e Schopenhauer, ma anche in Cioran e Jaspers: è l'uomo stesso ad aver perso fiducia nelle istituzioni che celebrano il potere e la stabilità etico politica dell'Occidente. Il mito nietzschiano dell'Eterno ritorno, secondo una data interpretazione, potrebbe non essere altro che un tentativo di sottrarsi alla trascendenza del tempo e quindi al rapporto fiducia/sfiducia nell'avvenire. Troppo complesso per parlarne qui. Mi limito a dire che i filosofi e gli scrittori europei (Dostoevskij non ha forse preconizzato tutti gli elementi nichilistici e disumani che avrebbero portato alla progressiva svalutazione dell'uomo a favore del suo connotato mercificabile?) vagheggiavano un crollo morale, etico, metafisico. In questi ultimi anni possiamo anche dire che ciò è avvenuto.
La scorza, o perlomeno quel residuo di cultura classica e celtica che da sempre è stata la colonna vertebrale d'Europa si è sfarinata. Le conseguenze le abbiamo sotto agli occhi. Oltre all'istupidimento di massa e al potere assimilato ad un'orgia, c'è però una variabile che nemmeno le menti più illuminate su cui ci basiamo avevano previsto, non in questa smisurata proporzione almeno: l'elemento economico. Se da un lato la rivoltante ipocrisia dei governi era in qualche modo contemplata, la dipendenza di questi da una fitta rete di interscambi a scopo monetario non era stata ancora scorta all'orizzonte. Il binomio produzione consumo, già ampiamente intuito da Marx, ha trovato negli ultimi anni la sua collocazione definitiva, e, potremmo dire, tombale. A questo proposito cito testualmente un interessante articolo scritto da Benjamin Barber, già consigliere politico di Bill Clinton, all'indomani del crollo del World Trade Center: "A questo punto non dovremmo forse chiederci come mai quando vediamo che la religione colonizza qualunque altro campo della vita umana la chiamiamo teocrazia e sentiamo puzza di tirannia, e quando vediamo che la politica colonizza ogni altro campo della vita umana la chiamiamo assolutismo e tremiamo alla prospettiva del totalitarismo, mentre se vediamo che le relazioni di mercato e il consumismo commerciale tentano di colonizzare ogni altro campo della vita umana li chiamiamo LIBERTA' e ne celebriamo il trionfo?".
La domanda aleggia, senza risposta. O forse sì: basta a aprire un quotidiano, dare una scorsa ai siti di informazione per capire fino a che punto l'umanità sia rimasta intrappolata nei meandri di un meccanismo che ha creato essa stessa e che serviva, al principio, per ridistribuire le risorse mentre oggi si ritrova ad essere il volano delle ingiustizie sociali, la causa principe degli squilibri, e non ultima la miccia che ha dato il là al dissesto economico, e morale, di quella stessa terra che per secoli è stata depositaria dei germi della democrazia e del progresso sociale. Quando vedo che, in estrema analisi, dipendiamo da fattori economici, dipendiamo dalla negoziazione sindacale, dal bilanciamento (sempre più precario) tra diritto del padrone e resistenza del lavoratore, capisco che tutto o quasi è perduto. Che Marx, in questa precisa fase, sta avendo la meglio su Nietzsche, e che in fin dei conti, per evitare di essere schiacciato e inghiottito dagli eventi, un intellettuale farebbe meglio a frequentare finalmente una cultura della crisi, rinunciando ai grandi preconcetti che ci hanno guidato fino a questo punto morto. Miti come la crescita illimitata, la libertà di mercato, la sacralità della moneta vanno rivisti; la libertà personale non può essere ridotta a libertà prestazionale, opprimendo l'uomo, come dice Marcuse, sul fondo di un'unica dimensione.
E con Marcuse concludo. Con una domanda, contenuta nella prefazione politica a quella pietra miliare che è Eros e Civiltà: "La correlazione antagonistica di libertà e repressione, produttività e distruzione, dominio e progresso, costituisce realmente il principio della civiltà?"
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