Ha senso raccontare un autore? Ha senso viverlo attraverso la spiegazione della sua opera, la ricognizione talvolta capziosa e arbitraria del suo percorso artistico, magari cercando di spiegare determinate scelte artistiche a partire dai riscontri biografici? Tutto questo va capito. Per andare avanti o per tornare indietro. Per ridiscutere il ruolo del lettore, per capire a che punto si trova. Se guardiamo le proposte saggistiche degli ultimi anni notiamo la sovrabbondanza delle pubblicazioni a sfondo critico/biografico, dove l'autore, in una sorta di spoliazione della propria autorità, viene decostruito, re-interpretato. Alla luce di che cosa? Psicologia, sociologia, biografismo puro e semplice. La verità del testo, come lo chiamava Hrabal, passa di fatto in secondo piano; l'indiscutibilità oggettiva di quel viluppo organico che prende il nome di testo perde di consistenza, fino a diventare materia opinabile nella sua propria sostanza. Alcuni spunti per così dire professorali (il noto scrittore odierno che parla di un autore del passato) possono anche essere interessanti, ma è la velleità dell'intera operazione che lascia perplessi: finiamo per sapere tutto di Alessandro Manzoni senza aver mai letto un rigo scritto da lui, se non nelle squallide e inesatte sintesi scolastiche, nei bigini un po' accattoni che la scuola stessa promuove e istiga ad utilizzare. Stessa sorte per altri autori, da Carducci a Pascoli passando per i grandi stranieri, uno su tutti Shakespeare: chi non sa almeno un po' di aneddotica da bancarella del bardo? L'opera, in altre parole, decade, non è più. Al suo posto l'opera sull'opera: un'operazione quasi postmoderna. A parlare non è più l'autore, ma un professore, o comunque una figura terza che media, normalizza, logorando il sottile diaframma che separa l'interpretazione personale dalla realtà, dal fatto nudo e crudo che ognuno avrebbe il diritto, una volta appresi gli strumenti necessari, di di elaborare da sé. Forse è fin troppo facile dire che la scuola, di ogni ordine e grado come si usava dire, è la principale responsabile di questo spaventoso fraintendimento. Forse dirlo è un'ovvietà vicina in modo sospetto al luogo comune. Eppure. Una riflessione in merito andrebbe fatta. Una riflessione in astratto, visto che è e sarà impossibile mettere in discussione la desolante didattica italiana, la dittatura professorale e tutto quel retaggio burocratico passatista che appesantisce, soffoca, elimina il dibattito.
l'Occidente tramontato
sabato 24 settembre 2011
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Ariberto Terragni
Il Tramonto dell'Occidente è una chimera, un'opzione politico/filosofica che grava sulle malandate coscienze d'Europa da almeno un secolo. Ne hanno parlato filosofi e giuristi, prefigurando in ogni caso una specie di caduta, di destino irrimediabile inscritto nel codice genetico stesso dell'Occidente. Heidegger parlava di Terra dell'Occaso (Abendland), ossia la patria, il territorio per eccellenza in cui l'essere si oblia. Oswald Spengler ha dedicato un torrenziale e complesso trattato a questo tema: Il tramonto dell'Occidente, appunto, dove si individua la Storia in un processo di progressivo e inesorabile disgregamento, passando da uno stadio di civiltà ad uno di civilizzazione, dove il caos e il materialismo inquinano senza rimedio la sostanza vitale dell'uomo.
Questo per sommi capi. Se Spengler è stato il grande aedo di questo sentimento (che come tutti i sentimenti radicati è una costante umorale di un intero popolo che uno studioso teorizza, e non viceversa), elementi sparsi a sostegno di questa concezione si trovano in altri pensatori, sia precedenti che posteriori a Untergang des Abendlandes: in Nietzsche e Schopenhauer, ma anche in Cioran e Jaspers: è l'uomo stesso ad aver perso fiducia nelle istituzioni che celebrano il potere e la stabilità etico politica dell'Occidente. Il mito nietzschiano dell'Eterno ritorno, secondo una data interpretazione, potrebbe non essere altro che un tentativo di sottrarsi alla trascendenza del tempo e quindi al rapporto fiducia/sfiducia nell'avvenire. Troppo complesso per parlarne qui. Mi limito a dire che i filosofi e gli scrittori europei (Dostoevskij non ha forse preconizzato tutti gli elementi nichilistici e disumani che avrebbero portato alla progressiva svalutazione dell'uomo a favore del suo connotato mercificabile?) vagheggiavano un crollo morale, etico, metafisico. In questi ultimi anni possiamo anche dire che ciò è avvenuto.
La scorza, o perlomeno quel residuo di cultura classica e celtica che da sempre è stata la colonna vertebrale d'Europa si è sfarinata. Le conseguenze le abbiamo sotto agli occhi. Oltre all'istupidimento di massa e al potere assimilato ad un'orgia, c'è però una variabile che nemmeno le menti più illuminate su cui ci basiamo avevano previsto, non in questa smisurata proporzione almeno: l'elemento economico. Se da un lato la rivoltante ipocrisia dei governi era in qualche modo contemplata, la dipendenza di questi da una fitta rete di interscambi a scopo monetario non era stata ancora scorta all'orizzonte. Il binomio produzione consumo, già ampiamente intuito da Marx, ha trovato negli ultimi anni la sua collocazione definitiva, e, potremmo dire, tombale. A questo proposito cito testualmente un interessante articolo scritto da Benjamin Barber, già consigliere politico di Bill Clinton, all'indomani del crollo del World Trade Center: "A questo punto non dovremmo forse chiederci come mai quando vediamo che la religione colonizza qualunque altro campo della vita umana la chiamiamo teocrazia e sentiamo puzza di tirannia, e quando vediamo che la politica colonizza ogni altro campo della vita umana la chiamiamo assolutismo e tremiamo alla prospettiva del totalitarismo, mentre se vediamo che le relazioni di mercato e il consumismo commerciale tentano di colonizzare ogni altro campo della vita umana li chiamiamo LIBERTA' e ne celebriamo il trionfo?".
La domanda aleggia, senza risposta. O forse sì: basta a aprire un quotidiano, dare una scorsa ai siti di informazione per capire fino a che punto l'umanità sia rimasta intrappolata nei meandri di un meccanismo che ha creato essa stessa e che serviva, al principio, per ridistribuire le risorse mentre oggi si ritrova ad essere il volano delle ingiustizie sociali, la causa principe degli squilibri, e non ultima la miccia che ha dato il là al dissesto economico, e morale, di quella stessa terra che per secoli è stata depositaria dei germi della democrazia e del progresso sociale. Quando vedo che, in estrema analisi, dipendiamo da fattori economici, dipendiamo dalla negoziazione sindacale, dal bilanciamento (sempre più precario) tra diritto del padrone e resistenza del lavoratore, capisco che tutto o quasi è perduto. Che Marx, in questa precisa fase, sta avendo la meglio su Nietzsche, e che in fin dei conti, per evitare di essere schiacciato e inghiottito dagli eventi, un intellettuale farebbe meglio a frequentare finalmente una cultura della crisi, rinunciando ai grandi preconcetti che ci hanno guidato fino a questo punto morto. Miti come la crescita illimitata, la libertà di mercato, la sacralità della moneta vanno rivisti; la libertà personale non può essere ridotta a libertà prestazionale, opprimendo l'uomo, come dice Marcuse, sul fondo di un'unica dimensione.
E con Marcuse concludo. Con una domanda, contenuta nella prefazione politica a quella pietra miliare che è Eros e Civiltà: "La correlazione antagonistica di libertà e repressione, produttività e distruzione, dominio e progresso, costituisce realmente il principio della civiltà?"
serate eleganti
lunedì 19 settembre 2011
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Ariberto Terragni
Un tempo le corti italiane erano il ricettacolo di scienziati, artisti, intellettuali, di cui il principe amava circondarsi. i Medici, i Gonzaga, gli Este, i Della Scala, persino la corte papale. Personaggi di rilievo, cui era demandato il compito di offrire al sovrano una nuova chiave di lettura sul mondo: non era la loro una semplice funzione ornamentale. Poi si passa ai giorni nostri, alle cronache di questi ultimi anni, in cui l'uomo più ricco e potente d'Italia si degrada in compagnia di uno stuolo di donne a pagamento; adotta un linguaggio da scaricatore di porto; si rende ricattabile; ammette candidamente di fare "il premier a tempo perso" di "un paese di merda". Con i suoi soldi e il suo potere potrebbe circondarsi del meglio esistente al mondo: premi Nobel, economisti, giuristi, artisti, uomini di scienza. Potrebbe farsi spiegare, nella cornice di sfarzo delle sue proprietà, come funziona il mondo, come aiutare il nostro paese ad affrontare l'orizzonte plumbeo che (da sempre) ci attende. E invece no. Ecco, io credo che il vero scandalo, che la vera aberrazione non sia solo nel pagare delle donne disposte a tutto (da che mondo è mondo dove c'è potere ci sono puttane), ma proprio nell'incapacità di usare i soldi per qualcosa che vada oltre il pagamento di una prestazione. La modestia intellettuale di quest'uomo emerge prepotentemente nel disprezzo per la cultura, che, come si evince nello sconfortante sfacelo telefonico, non compare mai nel suo orizzonte: in questo vorticoso giro di sesso facile e squallore morale il denaro è il carburante che permette di tenere in piedi il baraccone, nulla più. Non è il valore aggiunto con cui un ricco e anziano signore cerca di migliorare la condizione sua e del proprio paese per capire, per indagare, per trovare prima degli altri nuove vie. No, niente di tutto questo. Se pensiamo che B. è, tra le varie, anche il formale proprietario della principale industria culturale italiana, la Mondadori, direi che il quadro è completo.
t'amo pia Miss
martedì 13 settembre 2011
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Ariberto Terragni
Altra notizia stupida, di cui forse farei bene a non parlare. Ma mi urta, e quindi ne scrivo. Siamo ancora a Miss Italia. Concorso di bellezza. Ragazzine in sfilata. I tempi si aggiornano: ora devono dimostrare cultura, interessi, più il mantra dei mantra: cantare, ballare, recitare. Come prendere un cadavere e imbellettarlo sotto chilometri di cerone per renderlo presentabile alla folta e ingenua platea ancora disposta a bersi queste sciocchezze. L'obbrobrio non sta tanto nel concorso di bellezza in sé, che è una delle tante idiozie che ci trasciniamo dietro dalla notte dei tempi, ma in questo tentativo insieme patetico e rivelatore di aggiornare il copione, pasticciando i termini, confondendo le acque con una spolverata di alfabetizzazione e una patina di moralismo.
A questo proposito cito testualmente dal sito di Repubblica la dichiarazione della patron dell'iniziativa (che poi chissà che caspita è un patròn con l'accento sulla "o"): "Le concorrenti di quest'anno sono molto legate ai valori della tradizione, parlano spesso dei padri e da questo traspare un bisogno di avere come punto di riferimento una figura forte." Tre rapide considerazioni, che prescindono dalla povertà grammaticale dell'assunto. Non so a quale tradizione si faccia riferimento. Parlare spesso dei padri può anche essere segno di prematuro rincoglionimento. Avere bisogno di una figura forte (per di più maschile, perché mamma, si sa, è debole) non è detto sia questo granché.
Ma veramente l'alfabetizzazione di massa ha prodotto questi mostri? Ma sai che rimpianto per un sano analfabetismo dichiarato, che non ha bisogno della maschera pacchiana di una laurea o di un gerundio per mostrarsi al mondo, e che invece accetta di rivelarsi per ciò che è: una cosa anacronistica e un po' turpe: un concorso di bellezza. Ma quella frase dice anche di più: nell'invito a rifugiarsi tra le gambe di papà, nel recuperare questa non meglio specificata tradizione, si solletica quanto di più grettamente paternalistico e conservatore alberghi nei cuori del pubblico. Per questa gente, per questi patroni, per la Rai e sicuramente per una buona fetta di Italia, siamo fermi agli anni '50: è questo il dato allarmante. Niente '68 (che può piacere o no ma che c'è stato), niente referendum su divorzio, aborto, niente crisi delle vocazioni, niente emancipazione femminile.
Niente di preoccupante, tutto pacificato, tutto normalizzato. La volgarità cambia nome e indirizzo, ma resta la stessa di un programma della domenica pomeriggio. L'emancipazione femminile, tutt'al più, passa attraverso la laurea triennale in scienze bancarie, con la benedizione di papà (e di mamma se proprio vogliamo mettercela), e tutti sono contenti. E per non dire che queste cose non servono a niente, eccoti pronto un posto di lavoro: Miss cinema avrà diritto di partecipare al nuovo film di Vincenzo Salemme. Mica di finire nelle mani di qualche scalmanato alla Kubrick.
accoppiamenti giudiziosi
giovedì 8 settembre 2011
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Ariberto Terragni
Discutevo giusto ieri, con un amico, del rapporto tra arte e arte concettuale; del legame (o del divario) che serve a spiegare la connessione tra un'arte del saper fare e un'arte da interpretare in chiave estetico formale. Poi, oggi, osservo la riproduzione di cui il presente link. Lana sutra. Manichini di lana in posa porno a significare, stando alla didascalia, il solito amore universale. Abilità nel manipolare la materia (a parte gli scherzi non dev'essere per niente facile scolpire dei gomitoli di lana) al servizio della più banale delle chiavi di lettura amorose: quella specie di Bibbia inguinale che risponde al nome di Kamasutra, che dalla pur nobile origine mistico sacrale è giunta, sulle tavole di noi occidentali, sotto forma di breviario porno a uso voyeuristico. E' arte tutto questo? Possiamo parlare di arte o ci troviamo di fronte ad una manovra commerciale ordita da Benetton e agghindata di tutte le cialtronate finto tecnologiche ("vetrine digitali Live Windows e streaming sul web", ma per vedere che? I gomitoli che si accoppiano?) di cui disponiamo al momento? La domanda pende, un po' sconcia, come le lenzuola da un letto sfatto. Nel logoro riciclo di luoghi comuni, la pubblicità, ancora una volta, occupa un posto d'onore. La pubblicità che si ammanta della patina oleosa dell'arte concettuale per vendersi meglio. Ma paga uno scotto, evidente come un marchio di fabbrica (o di Caino): l'assoluta incapacità di dire qualcosa di nuovo, o qualcosa di spiazzante. Il nascondersi dietro il finto scandalo poi (forse una campagna del genere poteva dare fastidio negli anni 50) è un altro dei processi comunicativi collaudati di cui la pubblicità abusa: un po' come le dive in disarmo che ostentano il pancione su una copertina patinata. Solo una società immatura e alquanto patetica può trovare qualche prurito nella sessualità o in un fatto normale come la gravidanza. Un'arte che si accoda a tutto questo, forse, non merita di essere definita arte. Un'arte del passo indietro, del lavoro commissionato, dello scadimento a pettegolezzo, non è più libera espressione, ma prestazione professionale.
parolaccia a tarda sera
sabato 3 settembre 2011
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Ariberto Terragni
Il lessico ha radici profonde. Dice chi siamo, che cosa pensiamo, che cosa non pensiamo, come dissimuliamo la nostra personalità o al contrario come la manifestiamo. Quando il Presidente del Consiglio dice che il nostro è "un paese di merda" e che lui "scopa e basta" e che del resto chi se ne fotte, non compie solo un oltraggio nei confronti del suo e soprattutto nostro paese, ma fa qualcosa di più: rivela una debolezza sconcertante. Una debolezza che ha radici lontane. Debolezza di idee, di cultura, di risorse umane. Ma è tutta la storia del rapporto Berlusconi - linguaggio che meriterebbe di essere analizzata in uno studio di alto livello: da quella specie di mannaja tritura cervello che è stata ed è Mediaset (con tutta la sua violenza depaupera lessico, la sua bonomia dispensatrice dell'ovvio) al vocabolario da piazzista in trasferta (il "mi consenta", il "dottore" di qui "dottore" di là, fino agli indimenticabili "uso criminoso" e "utilizzatore finale") fino al continuo sentore di frase fatta, di luogo comune, di concetto logoro che è la vera cifra distintiva, a livello linguistico ma non solo, della comunicativa berlusconiana. Oggi siamo alla parolaccia, al trivio. E all'insulto. Quelle parole messe in bocca a qualsiasi altro uomo di Stato suonerebbero come un alto tradimento. Pensiamo a Obama che dice una cosa del genere, pensiamo alla Merkel, pensiamo a chiunque altro. Siamo di fronte a quella che è la prova provata di un menefreghismo facilone, di un opportunismo intollerabile che non ha mai smesso di essere il vero motore propulsivo di questi ultimi 18 lunghissimi anni. Spettacolare anche la scusa: "Era tarda sera". Già un'altra volta alluse ad una non meglio identificata e quasi poetica "Sfera onirica". Perché l'uomo è così, finché può nega, e poi, colto in castagna, ti prende per il culo. Ops.