Quando non sanno più che pesci pigliare, e quando hanno voglia di una scarica di pubblicità gratuita, chiamano sempre lui, Roberto Baggio. Non so se in federazione gli lasceranno le mani libere e la possibilità di realizzare il progetto che ha in mente, ma so per certo che Baggio lascerà non appena avrà la sensazione che i conti non tornano, che il suo è un ruolo meramente nominale e non operativo. Perché Roby è stato questo lungo tutta la sua carriera: un puro. Lo si sente, lo si vede, anche adesso che non è più un ragazzino e gli anni gli hanno imbiancato le tempie. Non è stato solo il più forte calciatore italiano degli ultimi vent'anni: è stato un campione generoso, di quelli, pochissimi nella storia del calcio, capaci di rendere migliori anche gli altri, di trasformare dei buoni elementi in campioni, di far girare le squadre intorno a lui come un maestro l'orchestra. Baggio il mito, Baggio il bistrattato: brutalizzato dalla sorte che non gli ha dato tregua sotto forma di infortuni a ripetizione, dagli allenatori che lo hanno utilizzato poco e male, da tutto un ambiente calcio che per troppe volte si è illuso di poter fare a meno di lui. Ma per spiegare la mitologia del Codino non bastano le gesta sublimi in campo, serve anche altro: serve una panoramica sull'uomo. Come disse Mazzone: "Un ragazzo educato" che con il calcio ha guadagnato tanto, ma briciole al confronto di certi grandi speculatori multimilionari di questi anni e che sul finire di carriera ha avuto il coraggio e l'entusiasmo di accettare l'ingaggio di una piccola squadra, quel Brescia dei miracoli che puntava alla salvezza e che lo vide regalare le sue ultime giocate d'autore prima di congedarsi, con onore, con dignità, da un mondo che senz'altro gli aveva dato tanto ma a cui lui aveva dato veramente tutto. Ho seguito Roberto nell'arco di tutta la sua carriera, quando ancora ero un appassionato. Non ci voleva molto per capire che non era come tutti gli altri, che ogni suo gesto, ogni sua movenza in campo era un atto di libertà che si fondeva con la gioia di giocare, e quindi di essere al mondo; era un messaggio di speranza il suo, e un profondo atto d'amore nei confronti dello sport e della vita. Questi valori emanavano da lui in modo percepibile: forse per questa ragione è stato uno dei calciatori più amati di sempre. Era chiaro che non era solo una questione di ingaggi e di vile moneta, quelle squallide contropartite che hanno avvelenato il sangue a questo sport e che lo hanno reso frivolo, inutile, sempre più banale.
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