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il mio Calvino
Propongo la prima parte di un breve saggio su Italo Calvino che sto scrivendo
Come purtroppo accade di frequente, il peggior servizio ad un autore è il suo stesso pubblico a renderglielo. Giudizi acritici, citazioni non necessarie, elogi fuori contesto; così la massa di lettori spesso contribuisce a confondere le acque circa un autore e la sua reale dimensione, piccola o grande che sia, deformandola con parametri ora inadeguati ora semplicemente fuori luogo. E’ più o meno quanto accaduto a Italo Calvino, scrittore molto amato e poco letto, detentore di larga fama ma spesso a fronte di cattivi esegeti, falsi amici o peggio ancora lettori della domenica. Italo Calvino ho tardato a capirlo. Credo che la causa di ciò sia stata proprio l’aura zuccherosa e mediocre che i suoi agiografi gli avevano cucito addosso, cercando di fare di lui un mito, un ideale letterario quando sarebbe stato più utile, e probabilmente meno fuorviante, lasciare che la sua memoria si sedimentasse per ciò che era e che è: memoria di scrittura e di vita. La cattiva critica infatti rischia troppe volte di assumere su di sé anche il lavoro diretto sul testo, inducendo il lettore a fare a meno della comprensione diretta, per lasciare che sia il critico, o il cattivo critico in questo caso, a guidarlo in una visione intellettuale già confezionata, o perlomeno già inquadrata in un predeterminato orizzonte semantico.
La lettura di Calvino si presenta difficoltosa proprio per questa doppia lettura: quella già complessa e intricata della sua opera, e quella capziosa e quasi mai pertinente della sua critica, che ha amato inquinare le acque proponendo, di volta in volta, un Calvino strutturalista, poi avanguardista, poi ancora postmoderno. Fino alla beffa finale, quella che pretendeva di definirlo uno “scrittore matematico”. Il filtro dell’ideologia letteraria ha fatto il resto, ostinandosi a richiamare schemi e diagrammi con cui spiegare Calvino alla luce di un Verbo, di una Somma Chiave di Lettura. Niente di più sbagliato, specie con uno scrittore come lui, che ha imperniato la sua produzione letteraria sulla pluralità dei generi, anzi, di più: sulla completa e perfetta permeabilità testuale.
Calvino infatti non ha seguito un genere: lo ha plasmato, lo ha ricreato in una serie di frammenti che poco o nulla avevano a che vedere con il già visto o con lo sperimentato, pur non rinnegando mai del tutto l’origine stessa della sua scrittura: quel magma incandescente che rifluiva dalle ferite della guerra e che accomunò, seppure con esperienze e modi diversi, altri autori, da Fenoglio a Parise a Silone. E così lo scrittore nato a Cuba poté permettersi di spaziare tra i generi, senza mai legarsi a nessuno di essi. A partire dall’esordio, Il Sentiero dei nidi di ragno, fino alle ultime prose quasi intimistiche di Palomar Calvino ha percorso un sentiero che non prevedeva gabbie strutturali né tantomeno formali: il suo è stato un cammino libero, curioso, che ha preso spunto da ciò che riteneva meritevole di attenzione e che non è mai stato sfiorato dal pregiudizio o dal luogo comune.
Adesso posso dire di aver capito qualcosa di lui. Ora che, con attenta e paziente rilettura, sono credo riuscito a rimuovere quel velo di stantio, di bugiardo e di agiografico che aveva appannato il suo lascito umano e culturale. Si è trattato in fondo di una resa dei conti tra la mia visione dei fatti e quella imposta dall’industria culturale e scolastica, che spesso si affanna a imbrogliare le carte e a offrire ricostruzioni parziali o di comodo di realtà molto più complesse.
La molteplicità delle istanze a cui Calvino si rifece non possono essere incluse in un metodo o in un’unica corrente di pensiero: la sua qualità maggiore era forse l’innata abilità combinatoria, che gli consentiva di rimescolare le carte e a proprio piacimento, attingendo da più fonti e da più generi: dalla fiaba (fu curatore de Le fiabe italiane) alla fantascienza apologetica de Le cosmicomiche, dall’impegno politico letterario della sua produzione saggistica alla minuzia descrittiva de Le lezioni americane e Palomar. La forma romanzo, insomma, non è ciò che lo caratterizza maggiormente. Non lo fa perché paradossalmente (ma non troppo) Calvino avvertiva come limitativa quella che sembrava essere l’unica valvola di sfogo di ogni pulsione letteraria e civile dell’Italia del dopoguerra. Non si accontentò, andò oltre, scavando e cercando nelle pieghe della narrazione storica de I nostri antenati o ancora, in epoca più tarda, dell’opera aperta di Se una notte d’inverno un viaggiatore, prosa a tratti cervellotica e spiazzante di ambizioni smisurate e però in misterioso e inspiegabile equilibrio.
Ma detta così potrebbe far pensare ad un alchimista della parola. Le cose non stanno esattamente in questo modo: Calvino era uno scrittore che rispettava la parola proprio perché ne conosceva il valore, sapeva come trattarla e come metterla a disposizione del lettore, accompagnandolo in un gioco di specchi continuo, di detti e contraddetti, di rimandi e di sottigliezze che sono, nella sua ottica, la vera impalcatura della letteratura. Un gioco di immensa serietà, ma anche un labirinto mendace, fatto per trarre in inganno e tendere trappole. C’è qualche somiglianza con l’ultimo Borges, almeno in questo. Ma non solo. L’intera opera omnia dello scrittore ligure viaggia su binari per così dire paralleli all’intera produzione letteraria novecentesca: ci sono rimandi al cosmopolitismo francese, alla scuola americana di science fiction ma anche ad una certa attitudine tutta sudamericana a ricreare mondi, pur senza cedere alle tentazioni dell’idealismo magico.
Ci sono anche dei grandi antagonismi nella vita di Calvino, per quanto la critica in merito abbia sempre adottato fin troppe precauzioni: il primo riguarda un quasi coetaneo dello scrittore: Beppe Fenoglio. Partigiano molto più di lui, eccentrico quanto lui ma su binari diversi, con ideali e aspirazioni che forse solo con il tempo si sarebbero rivelati per ciò che erano. Fenoglio morì troppo presto. La sua scrittura presenta solo un abbozzo di curva, di deviazione, di evoluzione verso un altro stadio: ne Il partigiano Johnny, in cui mette a punto uno stile interamente suo, sulla falsariga americana ma per così dire sporcato dall’attitudine sanamente provinciale dell’autore. Fenoglio e Calvino: il primo enigma che la critica dovrà sviscerare una volta per tutte. In che rapporti stanno le loro esperienze letterarie? Perché questa contrapposizione così evidente che pure parte da un dato comune: l’esperienza della guerra partigiana? Badogliano Fenoglio, comunista Calvino. Sanguigno e destrutturato il primo, multiforme e all’apparenza svagato il secondo. Anche Calvino cominciò tirando pugni allo stomaco, con Il sentiero, ma poi virò quasi subito verso una scrittura più di rimando, più indiretta, amante delle miscele e dell’analisi a freddo. Non fu così per lo scrittore di Alba, del quale però è difficile esprimere un giudizio completo e sereno, a fronte della sua tragica e prematura scomparsa.
Il secondo parallelismo è avvenuto vent’anni più tardi, e fu peraltro notato da un critico acuto e non schierato come Cesare Garboli, quello tra Se una notte d'inverno un viaggiatore e L’odore del sangue, di Goffredo Parise. Di quest’ultimo ho già scritto qualcosa, ed è inutile che ripeta che L’odore del sangue per me è una pietra miliare del romanzo italiano del novecento. Uscirono quasi in contemporanea i due libri, sul finire degli anni settanta, ed entrambi avevano alla base un sentimento comunque: quello della solitudine del singolo. Lo studioso di Calvino e lo psicologo di Parise. Sono due figure agli antipodi, che denunciano una differenza di carattere prima ancora che di modalità letteraria: poliedrica la prima, disperata la seconda. Qui Calvino e Parise sono agli antipodi di una forbice che taglia in due la storia letteraria contemporanea, che la recidono e al tempo stesso la risolvono, o tentano di farlo: attraverso la fantasia combinatoria per quanto riguarda Calvino, che ci suggerisce una volta per tutte quanto la forma romanzo sia in realtà un effetto visivo e con essa tutta la realtà di cui siamo soliti cibarci, e attraverso la cronaca psicologica Parise, che non fa più nulla per nascondere il mostro nichilista che aveva covato in sé per tutta la vita. I due romanzi sono due modi di vivere la letteratura, e al tempo stesso sono un testamento spirituale dei rispettivi autori: per entrambi è l’ultimo romanzo. Parise lo sapeva, Calvino probabilmente no, anche se dall’estremizzazione del canone che fa nel Sentiero si evince una certa sfiducia nella forma romanzesca, sfiducia affiorata qua e là nel corso della sua carriera che qui trova il suo punto conclusivo e la sua espressione più radicale.
In quel 1979 si consumò una piccola rivoluzione che fu compresa solo molto tempo dopo: due autori che si erano guardati con sufficienza nel corso di tutta la loro carriera si trovarono ad essere la cartina di tornasole di un’intera fase storica e storico letteraria italiana. Nessuna sfida, nessuna tenzone: solo un reciproco guardarsi allo specchio, in attesa che il mondo crolli.
Il discorso, naturalmente, andrebbe trattato in modo più ampio. Calvino può essere compreso anche attraverso il confronto e il dialogo che la sua opera ebbe con le opere degli altri, con i momenti storici in cui affondano le radici i suoi lavori. E’ un’operazione filologica che spesso è stata condotta con troppa superficialità o che addirittura non è stata nemmeno accennata. Solo così si potrebbe spiegare l’assurda sintesi con cui si presentava un pamphlet di qualche tempo fa: Calvino scrittore matematico. E tutto per via della passione astrofisica che colse un uomo e un autore, alla continua ricerca di materiale espressivo e di nuove forme entro cui dare sfogo alla propria vena immaginifica.
Calvino da un certo punto di vista è stato vittima di quella spiacevole moda, ancora presente nella critica di oggi, di dare un nome a tutto, di classificare con una qualche pretesa di scientificità quella che alla fine è materia narrativa, e quindi fluida per eccellenza. D’altra parte il talento combinatorio di Calvino sembra nato apposta per dare dei dispiaceri a qualche analista testuale, che in passato non ha trovato niente di meglio da fare che sezionarne i testi partendo da presupposti per così dire strutturali più che complessivi. Ma un’opera non è un trattato. Un’opera è un concentrato, una summa, o anche una sottrazione di elementi eterogenei, che si muovono, si scambiano, procedono per balzi e per negazioni, senza per questo incorrere in contraddizioni o in equivoci. La scrittura di Calvino ha cavalcato i generi senza rimanerne ingabbiata: li ha usati, ma al tempo stesso li ha analizzati, offrendo ai lettori delle interpretazioni ora nuove ora ironiche, e l’ironia, in Calvino, è un capitolo che deve ancora essere scoperto quasi per intero.
Il mio Calvino, si diceva. La chiave di lettura sta pressappoco in una parola: molteplicità. Di forme, di contenuti, di idee. L’opera è sempre aperta, si aggiorna ai gusti e ai tic del lettore, ma senza mai blandirlo, senza mai dargli quello che si aspetta, ma anzi pungolandolo, stimolandogli riflessioni e altri punti di vista. Non ho usato fin qui la parola sperimentalismo, perché credo sarebbe ingiusta, e soprattutto parziale: lo sperimentalismo in Calvino c’entra e non c’entra, allo stesso modo in cui l’autore ligure può dirsi alquanto eccentrico rispetto alla moda letteraria del secondo dopoguerra. In Calvino si può dire che tutto sia al tempo stesso ricerca, e quindi anche sperimentazione, ma ciò senza incorrere nell’uso corrente che si è fatto della parola, troppe volte citata con facilità nei contesti più diversi. Sperimentazione in Calvino è ricerca stilistica ed espressiva: è una conquista che si fa a scapito del luogo comune, attraverso un attento lavoro di analisi e di scomposizione. In questo sta tutt’al più la sua scientificità: in una costante rielaborazione dei modelli, siano essi cavallereschi come ne I nostri antenati, siano essi di natura fantastica come ne Le cosmicomiche.