Eliminate le panchine dai piani urbanistici delle città, non resta che impedire l'accesso alle piazze. Diversi sindaci si stanno muovendo in questo senso: impedire alla gente di sedersi in piazza. Non di imbrattare, di rovinare, di sfregiare, ma si sedersi, di mangiare un gelato. Le panchine hanno già cessato d'esistere, teniamo sempre presente. E' un episodio di vita pubblica non molto vistoso, non molto amplificato dai media, ma è un segnale ben preciso di dove ci siamo muovendo. Tolta la piazza, è mutilata la possibilità delle persone di aggregarsi. La piazza, il luogo principe degli incontri, il luogo dei crocevia, degli appuntamenti, delle chiacchiere. Ma anche delle canzoni, di romanzi, common place delle serate estive, dei ritrovi. La piazza, che è la nostra piazza, e che ora lo è un po' di meno. Come molte altre cose che erano pubbliche e ora lo sono un po' di meno o non lo sono più del tutto. La piazza era l'agorà, il cuore della vita pubblica: renderla piazzola di transito non è valorizzarla, ma umiliarla, privandola del potenziale umano che la vivifica e le dà un senso. Di una piazza asettica, abitata da formiche con la valigetta che vanno e vengono non se ne fa più niente nessuno. Ci sarà qualche cartaccia per terra in meno, non ne dubito, ma abbiamo anche privato di significato un archetipo che invece è storicamente legato all'aggregazione. Perché dobbiamo essere sempre più soli? Perché ciò che era dei nostri padri e dei nostri nonni non è più nostro? Su quali scorci di città scriveremo le nostre canzoni?
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