Nascerà un nuovo Henry Miller? I tempi non sono quelli giusti. L'apprendistato sul campo, per uno scrittore, è un percorso decisamente difficile. L'accademia sta allungando i suoi tentacoli ovunque di questi tempi, e l'apprendimento solitario, scontroso e anticonformista di un Miller (o di un Orwell, di un Hemingway, di un Faulkner) sarebbe visto male, osteggiato, e non addirittura ignorato. Siamo in epoca di truffe: gli svariati corsi di scrittura creativa che inquinano le nostre lettere sono un'illusione che chiunque può smascherare facilmente. Non esistono metodi uguali per tutti, e anche il solo fatto di istituire una scuola, un corso, significa tentare di conformare, di rendere più uguali. I colpi di testa sono proibiti: chi deraglia dal percorso cercando una nuova via è visto male. Di Miller non potrebbero essercene quindi. Henry Miller era un irregolare, un testardo anticonformista, che parlava di quello che voleva con la libertà e la schiettezza di chi non ha questioni editoriali alle spalle. Era un grande scrittore in un'epoca in cui i grandi erano parecchi: l'esatto contrario di oggi. La moria dell'ingegno personale è conseguenza diretta di un programma scolastico che è medio e fatto per la media; chi sfugge alla media è automaticamente escluso, fuori parametro, non conta se in alto o in basso: è fuori dal conforme, dalla norma, e quindi è da abbattere. La settorializzazione disperata a cui stiamo assistendo in questi anni è un fenomeno che probabilmente non ha precedenti, e presto o tardi ciascuno avrà il suo pezzo da assemblare sulla catena di montaggio, è solo questione di tempo. Nessuna presa di posizione verrà tollerata, e chi insiste verrà facilmente ridotto al silenzio: semplicemente verrà negata la sua esistenza, come in un romanzo distopico. O come in una brutta rievocazione di Mangiafuoco.
rock art
martedì 20 luglio 2010
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Ariberto Terragni
Il ritrovamento di una presunta opera del maestro Caravaggio e il contemporaneo successo delle mostre dedicate al medesimo riaccendono un antico dibattito, che per quanto mi riguarda potrebbe anche non esistere. Sarà giusto trattare l'artista maledetto alla stregua di una rockstar, con mostre che richiamano quantitativi di gente impressionanti e code al botteghino per poterlo vedere? Si potrebbe rispondere, poco educatamente, con un'altra domanda: perché rompete le scatole una volta tanto che la cultura alta si impone sul mondezzaio pop televisivo in cui annaspiamo? Un'arte confinata nei musei, nei sottoscala o nel tinello di qualche pezzo grosso della sovrintendenza non ha alcun senso. Un'opera nasce, e non mi pare di dire niente di nuovo, per poter essere fruita dalle persone, per entrare in contatto con un pubblico, per incontrare delle menti, ora sollevandole ora provocandole. Difendere l'uso esclusivo dell'arte è non solo anacronistico ma molto pericoloso. Nessuno può permettersi di mettere il cappello su un patrimonio dell'umanità, che appartiene tanto all'insigne studioso quanto al semianalfabeta. Scoprire che nonostante il lavaggio del cervello a cui siamo stati sottoposti c'è ancora voglia di bellezza, e voglia di capire la bellezza mi pare un segnale più che incoraggiante; è l'indizio che il pubblico delle mostre non ha ancora rinunciato a rivendicare il proprio ruolo nella fruizione della cultura e che anzi è pronto a fare code, a rinunciare ai grandi magazzini domenicali e all'aperitivo in centro per ammirare un Caravaggio o un Tintoretto. Rockstar di ieri, rockstar di oggi, che differenza fa? Un patrimonio che non è vissuto dalle persone è una ricchezza sprecata, un'arte ridotta a linguaggio esoterico per presunti iniziati è un'arte che ha esaurito ogni carica propulsiva. Caravaggio lo sapeva bene, tant'è vero che scelse di umanizzare i propri soggetti, andandoli a prendere per la strada, mostrandoli da punti di vista mai presi in considerazione prima. Non per niente era un genio: era molto più contemporaneo di tanti parrucconi d'accademia che sarebbero troppo imbalsamati anche per un museo delle cere.
scempio
sabato 17 luglio 2010
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Ariberto Terragni
L'inutilità del sistema scolastico italiano si potrebbe desumere da un semplice episodio di vita vissuta, di cui sono stato mio malgrado testimone. Ad una ragazzina di 17 anni, come compito delle vacanze, viene assegnata una lettura, una lettura a caso: un'opera di Friedrich Nietzsche, cui dovrebbe seguire una relazione. L'alunna chiede consiglio a me: "Che cosa posso leggere di Nietzsche breve e poco difficile?" Bella domanda. Fino ad un certo punto comprensibile da parte sua. Non posso fare a meno di domandarmi che cosa baleni nella testa della sua professoressa, che a cuor leggero affida all'intuito degli studenti (intuito che qualcuno ha e qualcuno no) uno degli autori chiave del pensiero occidentale, un mostro sacro della filosofia al cui interno si trova di tutto e le cui opere non sono ancora state del tutto comprese nemmeno dagli addetti ai lavori. In altre parole: 17 anni sono troppo pochi, per chiunque, specie per comprendere certi abissi della mente. Ma la scuola di tutto questo non tiene conto: c'è un programma, ci sono delle scadenze. La professoressa ha carta bianca su tutto, può fare quello che vuole senza che nessuno, sopra di lei, possa prendere atto dei suoi scempi e la prenda per le orecchie. Più che di detestare questa povera donna, mi viene da compatirla: è probabilmente una persona che di Nietzsche non ha capito niente. Anzi: è una persona che del filosofo tedesco, ne sono certo, non ha letto un rigo. Perché possiamo attribuire solo all'ignoranza la svista di assegnare uno Zarathustra o un Al di là del bene e del male come letture da ombrellone, da estate, che la media dei ragazzi passa giocando a calcio, andando in piscina o facendosi i fatti propri. Niente di male, tra l'altro. C'è un tempo per tutto. I grandi pensieri nascono proprio attorno a quell'età, e proprio per questo servirebbe una voce amica che spiegasse, che incuriosisse, che cercasse di sviscerare le tematiche. Non un professore che assegna letture a casaccio, pretende relazioni (come si fa di grazia a relazionare un'opera filosofica senza averne le coordinate?) e alla fine giudica il tutto con un bel numero da zero a dieci, nella fretta di un'interrogazione o di una verifica. Questo è il mio monito: badate bene a quello che fate, professori, perché voi la cultura la state facendo a pezzi. Pensate, non agite a caso, non rovinate in una mente giovane la voglia di capire e di cercare. Non banalizzate tutto con i vostri maledetti numeri.
emergenze
venerdì 16 luglio 2010
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Ariberto Terragni
Topos irrinunciabile delle nostre estati, riemerge anche quest'anno dai polverosi archivi delle nostre testate "l'emergenza caldo", turafalle per antonomasia dei precari palinsesti informativi dei nostri media, che tra una notizia e una banalità bollita preferiscono immancabilmente la seconda. In inverno l'influenza, oltre all'emergenza freddo, in estate il caldo (la dieta per il caldo, il caldo record, l'abbigliamento per combattere il caldo...) con tanto di consigli dell'esperto, che poi non si spingono molto più in là delle dritte della nonna. In un certo senso il copione è già pronto, basta andare a riprenderlo, riscaldarlo in padella e servirlo in salsa trendy, con musiche di sottofondo, vocine enfatiche, immagini fashion di glutei in spiaggia e racchettoni. Da non dimenticare le implicazioni economiche: stress ambientale che puntualmente giustifica abnormi aumenti di prezzo delle materie prime (mai compensati da riduzioni corrispondenti a periodi di medie temperature), e, dulcis in fundo, la calamità zanzare: sempreverde leit motiv delle estati televisive. L'equivoco a quanto pare è destinato a continuare anche quest'anno, sempre più facilitato da un'opinione pubblica annoiata, disattenta, pericolosamente assuefatta ad un clima (questa volta culturale) in piena involuzione. Un'opinione pubblica made in Mediaset: bonariamente rincoglionita, ignorante, abulica, che non legge, che se ne frega, come se gli anni Ottanta non fossero mai finiti, ma anzi si fossero malamente evoluti in una generazione ancora più vuota e conformista. Che viaggia con l'Iphone ma non ha ancora capito esattamente chi sia Cavour.
de gustibus
martedì 13 luglio 2010
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Ariberto Terragni
Tra la caterva di scartafacci che mi giungono via posta e via mail, se ne distingue chiaramente un gruppo, una falange compatta che evoca la stessa facoltà sensoriale: il gusto. E allora: gustatevi questo, gustatevi quello. C'è più gusto, l'equilibrio giusto tra nutrimento e gusto, vuoi mettere il gusto? Un gusto esclusivo (che poi chissà che vuol dire), un gusto raffinato, ma non solo: perché limitarsi alla culinaria? Gustatevi anche una sosta, un momento, un attimo, una cucina, un soggiorno, un divano, una vacanza. Problemi intestinali? Gustatevi anche quelli tramite uno yogurt lassativo. In una ipotetica classifica degli organi di senso, le papille gustative sarebbero agevolmente al primo posto. La vista è già caduta un po' in disuso, a causa di un'inflazione che non sembra conoscere confini. Il tatto sembra rivivere una seconda giovinezza grazie alle apparecchiature touch: spodestato della sua funzione sessuale, assorbita dalla vista, si deve accontentare di surrogati digitali, lavagnette hi - tech che lo coinvolgono in una nuova e inedita funzione di supporto. L'udito è tenuto a bada dalle spire dell'I Pod: gabbia sonora efficiente quanto basta per tenerci isolati dal casino acustico delle nostre città. Dell'olfatto, meglio non parlarne. Tra polveri più o meno sottili, smog (si dice ancora?), miasmi da pattume e via discorrendo c'è poco da salvare; meglio che fratello olfatto si rassegni ad una onorata pensione, inframezzata qua e là da qualche gita in profumeria alla ricerca di essenze da cesso o di deodoranti per l'ambiente. Il gusto è l'unico senso che non solo regge bene, ma che sta anche allargando la propria quota di mercato, conducendo una battaglia eroica a colpi di sinestesie e slogan, con in più quel vago sentore di peccato che non guasta. La gola resta pur sempre un peccato capitale, forse il vero peccato degli anni zero, dopo l'abbuffata di sesso e il fisiologico decadimento degli altri precetti (che è l'accidia?), è il gusto che regge il vessillo dei peccaminosi. La vera Sodoma contemporanea folleggia all'ombra di festosi autogrill, di burrose merendine, di gaudenti surgelati.
scarpe
domenica 11 luglio 2010
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Ariberto Terragni
Spot di una notissima marca di scarpe. Ambientazione: college inglese. Modelli travestiti da studenti che si lanciano intorno sguardi assassini. Al celebre imprenditore titolare del marchio chiedono: "Come mai questa location?" Risposta in un italiano piuttosto pastoso: "Perché volevo far ricordare ai ragazzi che si devono dare da fare e devono tenere i piedi per terra." Eccolo spiegato lo spot. E noi che ci facevamo tanti problemi di ermeneutica. Resta da chiedersi che cosa sedimenti, insieme alla sabbia, nel cervello di quest'uomo: in base a quale assurda peripezia mentale riesca a far conciliare i tre elementi college - scarpe - darsi da fare. Ma pazienza. I soldi di questo signore ci imporranno di doverlo sopportare, e non per meriti di sorta, ma solo perché tramite il denaro potrà sempre permettersi di comprare spazi pubblicitari, nei quali potrà dire quello che vuole in presenza di intervistatori promoter che non aspettano altro che sorridere e annuire di fronte alle sue boiate. Qualsiasi supercazzola gli esca dalla bocca verrà salutata come una simpatica divagazione dell'industriale made in Italy che "cura il prodotto e unisce praticità e creatività". Inutile chiedere spiegazioni a fronte dei delitti commessi ai danni del senso e della pazienza di chi guarda e legge. La tiritera sul made in Italy continuerà imperterrita, e alla domanda delle domande: "Ma perché costa così tanto 'sta roba?" Ci verrà seraficamente risposto: "Per un prodotto di qualità la gente è disposta a pagare." Salvo scoprire un giorno che la gente di cui parla l'imprenditorazzo di turno non siamo noi.
murales
venerdì 9 luglio 2010
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Ariberto Terragni
Basta svolgere una rapida ricerca su internet per scoprire quanto questo paese ha a cuore arte e cultura, al di là di tanta retorica. Un artista che non è più tra noi, Keith Haring, celebre alfiere della seconda generazione pop art, lavorò a lungo in Italia, regalandoci alcuni dei suoi graffiti più belli e significativi. Di questi, possiamo ammirarne uno solo: quello rimasto a Pisa, Chiesa di Sant'Antonio Abate, chiamato Tuttomondo. Gli altri? Beh, gli altri non ci sono più. Non li hanno rubati. Un murales di Milano è stato molto creativamente scrostato dalla parete e trasferito a Parigi. I due di Roma, uno al Palazzo delle Esposizioni, uno nella metropolitana, sono stati puliti. Cancellati. Coperti da una mano di vernice. Credo che questa storiella sia abbastanza emblematica di come siamo abituati a vivere l'arte e di quanto siamo bravi nel conservarla. Difensori delle colate di cemento, della dissipazione dell'ambiente, dello sfascio del territorio in nome di un distorto senso del progresso, e allegramente incapaci di preservare il patrimonio artistico. Perché questo ormai era Haring: patrimonio artistico. Tutelato e valorizzato nel resto del mondo, ma non qui. Qui andiamo di calcestruzzo, amiamo il disboscamento, i palazzotti e la villette a schiera, ma odiamo i graffiti. Guai, sono segno di indecenza. Abbiamo un grande coraggio quando si tratta di deturpare il bene di tutti, poco o nulla quando sarebbe un dovere morale opporsi all'edilizia selvaggia. Sarà bello vedere come la Storia riderà dei nostri valori piccolo borghesi, della nostra miope ipocrisia benpensante. Una mano di vernice sarebbe da dare alla faccia di chi ha permesso questo scempio. Basta fare dei controlli. Vedere chi era al timone delle giunte comunali negli anni di questa mattanza.
premi
martedì 6 luglio 2010
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Ariberto Terragni
Hanno ancora senso i premi letterari? I principali, a partire dallo Strega, sono dominati dalle grosse case editrici, i pachidermi dell'editoria. I vincitori si sanno in partenza, il valore letterario di ciò che si premia non conta più nulla. Siamo di fronte ad una commedia, tipicamente italiana. L'obiettivo è noto: lanciare il prodotto libro sul mercato, forti di quel tanto o poco di pubblicità che il prestigio del premio può ancora garantire. Un premio ha ancora una certa aura protettrice, una luce salvifica che ne certifica la bontà, il valore. E' un po' come la storia dei titoli di studio: un libro premiato è un libro che riceve un'investitura di stato, e quindi spendibile. Purtroppo, un'altra illusione. Prendiamo la lista dei vincitori del premio Strega, per esempio: scopriremo che il capostipite dei vincitori, suo malgrado, fu Ennio Flaiano. Cui seguirono, in ordine sparso, Cesare Pavese, Alberto Moravia, Anna Maria Ortese. I grandi nomi, e i grandi capolavori, sono concentrati nella prima parte della sua storia. Il dopo, quasi a voler sancire la cesura con il passato, è sotto gli occhi di tutti, un dopo in cui la qualità dei testi è passata in secondo, terzo piano. Fino allo scandalo de La solitudine dei numeri primi, forse il punto più basso mai raggiunto. E in sottofondo l'orgia di raccomandazioni, traffici, magheggi, intrallazzi. Una specie di telenovela a sfondo letterario, che sarebbe meglio però catalogare come pubblicitario. Proposta, provocazione, mettetela come volete: che vengano premiati solo gli autori pubblicati da case indipendenti. Autori relegati alle retrovie, che non possono contare sulla protezione delle multinazionali dei libri e che attraverso un premio importante potrebbero acquisire notorietà, e la giusta remunerazione per il lavoro fatto. Ci guadagnerebbero tutti: i lettori, per diversificazione dell'offerta, gli autori, come già detto, e anche i premi stessi, che forse, e dico forse, potrebbero recuperare un poco di credibilità investendo sul futuro anziché sulle macerie.
piazza bella piazza
domenica 4 luglio 2010
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Ariberto Terragni
Eliminate le panchine dai piani urbanistici delle città, non resta che impedire l'accesso alle piazze. Diversi sindaci si stanno muovendo in questo senso: impedire alla gente di sedersi in piazza. Non di imbrattare, di rovinare, di sfregiare, ma si sedersi, di mangiare un gelato. Le panchine hanno già cessato d'esistere, teniamo sempre presente. E' un episodio di vita pubblica non molto vistoso, non molto amplificato dai media, ma è un segnale ben preciso di dove ci siamo muovendo. Tolta la piazza, è mutilata la possibilità delle persone di aggregarsi. La piazza, il luogo principe degli incontri, il luogo dei crocevia, degli appuntamenti, delle chiacchiere. Ma anche delle canzoni, di romanzi, common place delle serate estive, dei ritrovi. La piazza, che è la nostra piazza, e che ora lo è un po' di meno. Come molte altre cose che erano pubbliche e ora lo sono un po' di meno o non lo sono più del tutto. La piazza era l'agorà, il cuore della vita pubblica: renderla piazzola di transito non è valorizzarla, ma umiliarla, privandola del potenziale umano che la vivifica e le dà un senso. Di una piazza asettica, abitata da formiche con la valigetta che vanno e vengono non se ne fa più niente nessuno. Ci sarà qualche cartaccia per terra in meno, non ne dubito, ma abbiamo anche privato di significato un archetipo che invece è storicamente legato all'aggregazione. Perché dobbiamo essere sempre più soli? Perché ciò che era dei nostri padri e dei nostri nonni non è più nostro? Su quali scorci di città scriveremo le nostre canzoni?