Muore Gabriel Garcia Marquez. Muore dopo un lungo periodo di fragilità e malattia. Il baffo, il sigaro, il piglio da Zapata gentile, e quel sentore di Latinoamerica aromatico come foglie di tabacco. Lo stile affollato, convulso che poi per le glorie della critica venne reclutato nelle fila del realismo magico era in realtà la materia di un modo di essere, una forma espressiva, che per un artista ha lo stesso valore del codice fiscale per un bravo compilatore di dichiarazioni di reddito. Per pochi altri scrittori lo stile è coinciso con la sostanza nello stesso modo tenero e barbarico con cui Gabo ha voluto raccontarsi. E allora la saga dei Cent'anni di solitudine, con il repertorio familiare dei Buendia, il decrepito decadimento del Patriarca nelle note dolciastre e stilisticamente imponenti dell'Autunno. Più racconti, reportage, osservazioni ai quattro angoli del mondo. Era uno scrittore nato con il giornalismo, ossia con curiosità e voglia di capire, ma con un fondo, un segreto ritmico della parola che andava crescendo in lui come le volute di una cattedrale gotica: la forma della parola nella sua veste più ricca di ridondanze e segni, di accenni e coloriture. E' stato un grande scrittore perché non si è limitato a imprimere il mondo come una carta carbone, ma da artista ha saputo ricreare un universo tutto suo, con i difetti e gli eroismi che servono a tenere in equilibrio tutti gli ecosistemi, anche quelli letterari. Chi lo ricorda solo per il Nobel commette un errore grossolano. Lo stesso Marquez divideva gli amici in due categorie: quelli conosciuti prima del Nobel e quelli conosciuti dopo. Non ci vuole molto a capire perché. Un grande scrittore? Sì. Un grande scrittore. Uno che rientra nel novero fatale che a torto o a ragione sopravviverà alla polvere del tempo per essere consegnato agli annali della letteratura come uno dei massimi del Novecento, e per ragioni che sono contigue e allo stesso tempo vanno al di là delle pompe accademiche che non tarderanno a palesarsi. Il ricordo di Gabo si inscrive nella memoria per la sua capacità di averci accompagnato, con saggezza, furberia, intelligenza, approssimazione, nel percorso di lettura di tutto un secolo e di molto altro tempo a venire: la sua arte è un testamento umano. E' umana. Non è un prodotto editoriale, e non è nemmeno un calcolo accademico. E' scrittura fatta per essere letta, e prima ancora materia umana che aveva bisogno di essere scritta. Il senso del suo insegnamento, se fosse solo questo, potrebbe già essere abbastanza. Il fatto che poi Marquez fosse un narratore di razza ha fatto il resto. Controverso, a volte ai limiti del comunicativo, ma sempre personale: con uno stile solo suo. Con molti e disgraziati emuli, ma con pochi eguali. In definitiva mancherà. Perché era libero.
0 commenti:
Posta un commento